Alla scoperta di Valerio Bruner, autore di “Vicarìa”, album dai pregevoli spunti letterari e musicali

Tra i tanti dischi che mi capitano di ascoltare me ne giungono alcuni che, in ordine temporale, sono usciti diverso tempo fa, il che renderebbe difficile per me poi recuperarli ai fini di una recensione; tuttavia, come dico sempre, la buona musica non ha una scadenza, e soprattutto se ascolto delle canzoni è per il puro piacere di farlo, non necessariamente quindi legato poi al fatto che ne dovrò scrivere da qualche parte.

E di musica, anche buona grazie al cielo, ne viene realizzata molta ancora oggi, e capita quindi di “sfruttare” questo blog per andare a segnalarla, come nel caso di oggi, visto che il personaggio in questione, e il lavoro che ha realizzato, merita assolutamente di essere conosciuto.

Valerio Bruner è un artista napoletano trentaseienne che vanta una lunga esperienza non solo in ambito prettamente musicale, visto che è impegnato ad esempio anche nel teatro, ma che in special modo proprio grazie alla magia delle sette note ha saputo coltivare e miscelare diverse passioni e inclinazioni, costruendosi una via personale, uno stile che diventa presto riconoscibile, basta davvero mettersi all’ascolto dei suoi lavori, purtroppo non così facilmente reperibili ma dei quali si può comunque trovare traccia.

Credit foto: Arianna Di Micco

Il suo ultimo disco in ordine di tempo è anche il suo progetto più compiuto, quello dove si è riappropriato pianamente delle sue radici: “Vicarìa” prende il nome dall’omonimo quartiere della sua città, dove è cresciuto, una zona di Napoli in qualche modo dimenticata, di confine non puramente geografico ma più che altro fra quella parte più rinomate e l’altra, quella non più “alla moda”.
Ed è proprio agli ultimi, ai più emarginati, a quelli che non vivono sotto i riflettori che Bruner ha sentito l’esigenza di dare voce, di dare dignità.

Avendo soggiornato spesso e volentieri a Londra – che ritiene in qualche modo speculare alla sua Napoli, città dalla quale sente talvolta di “fuggire” per poi farne inevitabilmente ritorno, come ne fosse inestricabilmente richiamato – e avendone assorbito le istanze culturali e artistiche, gli è venuto naturale interpretare in lingua inglese i suoi primi dischi, tutti significativi non solo per i contenuti importanti ma anche per la pregevole ricerca musicale, all’insegna di un rock ruvido, trascinante e suggestivo al tempo stesso.

Pensiamo quindi al suo esordio discografico assoluto, segnato da “Down the River” (2017), cui hanno fatto seguito due progetti incentrati sull’universo femminile (“La Belle Dame”) i cui proventi furono destinati all’Associazione Le Kassandre che si occupa del tema ahimè sempre drammaticamente attuale della violenza sulle donne.

Tuttavia per valorizzare appieno il suo nuovo progetto, l’artista, nelle cui vene scorre il rock di mostri sacri come Bruce Springsteen e il fuoco irruente del punk, Bruner ha optato per la lingua napoletana, anche rifacendo dei classici della musica internazionale, rendendoli oltretutto in maniera assai credibile.

Dotato di una voce graffiante ed espressiva, Valerio Bruner, rinnovato il sodalizio con il valente musicista e produttore Alessandro Liccardo – il quale ha composto le musiche del disco su testi dello stesso Bruner, oltre ad aver suonato le chitarre – ha così amalgamato le sue due anime, una più europea e l’altra legata alla sua Terra, realizzando un’opera assai interessante, tra rock, folk, blues e la canzone d’autore.

Credit foto: Arianna Di Micco

L’album è stato presentato una prima volta il 26 maggio scorso presso lo Spazio Comunale Forcella e il 5 giugno in un concerto presso il Carcere di Secondigliano per un gruppo  di  detenuti  di  alta  sicurezza, un’esperienza per lui unica e molto emozionante.

In “Vicarìa” hanno suonato i fidati Antonio Castaldo al basso e Alfonso Capone alla batteria e collaborato nomi prestigiosi quali la grande Brunella Selo nell’intensa “Tutto e niente” (davvero riuscita la commistione delle due voci) e Marilena Vitale, che ha scritto “Ya No Me Voy”, versione in portoghese della già nota “Sempe Ccà”, una delle canzoni più significative del lotto.
Il brano infatti era stato scritto due anni prima da Valerio Bruner in memoria dell’amico Mario Paciolla, giovane cooperante ONU scomparso in circostanze misteriose in Colombia. “Sempe Ccà” faceva parte di un progetto più ampio, fungendo da colonna sonora per il film documentario “Come fuoco”.

Nel momento di mettere nero su bianco il nuovo disco (pubblicato per l’etichetta indipendente napoletana Santa Marea Sonora Records), Valerio ha voluto comunque inserire in coda alla scaletta il brano in questione, in chiave acustica e come ghost track.

Detto ciò, andando più a fondo con la presentazione del lavoro, a colpire sono le intense liriche e la giusta alchimia tra musica e parole di quei brani inediti posti invece in apertura, vale a dire “Priavamo a Dio” – davvero suggestiva e in grado di trasmettere emozioni tangibili all’ascoltatore – e “Core Mio”, altrettanto coinvolgente, esempi lampanti del talento narrativo e poetico del Nostro.

Il rock torna vivido e pulsante in “Carne ‘e Maciello”, mentre reminiscenze folk ammantano la morbida “Ave Maria” che fa da preludio a “Maronna Nera”, ottimo rifacimento della celebre “House of the Rising Sun”, in cui Bruner mostra ottime doti interpretative e vocali.

Nell’album quest’ultima è inserita in versione live, così come le seguenti “Napule Chiamma”, cover di “London Calling” dei maestri Clash, gruppo a cui Bruner deve indubbiamente molto per la sua formazione, e “Arraggia ‘E Chi Nun Vence Maje (Hey Hey, My My)”.

Credit foto: Arianna Di Micco

“Vicarìa” mette in mostra quindi tutto il valore del suo autore, che tra le pieghe di queste canzoni sembra essersi svuotato, avendo riversato tutto se stesso: è un lavoro vivo, autentico, passionale, che giunge con forza lanciando un messaggio di speranza, ammonendoci di non volgere lo sguardo da un’altra parte quando vediamo chi sta realmente in difficoltà. Perché nonostante la società sembra volerci imporre per forza solo determinati modelli vincenti, è giusto ricordare che esiste un popolo che non si riconosce in quei valori spesso artificiosi e che ogni giorno combatte non solo per affermarsi ma proprio per condurre in porto al meglio la propria vita.

Dischi italiani da (ri)scoprire: “I Fiumi” – I Fiumi

Sbaglierei se mi definissi banalmente un “rockettaro”, però avendo vissuto in prima persona l’epopea di quel movimento tutto tricolore da cui emersero nomi come Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Timoria, Ritmo Tribale, Negrita e chi più ne ha più ne metta, ammetto di provare un po’ di sana nostalgia perché davvero sembrava che anche da noi fosse possibile una via che conducesse verso simili territori musicali, in un’epoca (parlo ovviamente degli anni novanta) in cui le chitarre erano tornate ad avere un ruolo di primissimo piano.

Vedendo lo stato attuale della musica (non solo italiana, bisogna riconoscerlo), ormai sempre più fluida e difficile da catalogare, mi viene sempre un po’ di curiosità quando mi metto all’ascolto di una band con tutti i crismi: voce, chitarre, basso e batteria ma, occorre dire, il più delle volte quegli ascolti mi lasciano non dico deluso ma quanto meno indifferente, perché è difficile non risultare derivativi o passatisti.

Quando invece ci si imbatte in dischi di valore però lo si capisce subito. Mi era successo anni fa con i Gomma, o i Leda, per non dire dei Messa (che di italiano però hanno ben poco) ed ora quella bella sensazione l’ho provata col primo album eponimo de I Fiumi, autori di un lavoro veramente interessante, variegato, dove ogni ingrediente funziona, dalla voce delicata e suggestiva della cantante alla chitarra nervosa, pregnante, incisiva, a una sezione ritmica precisa e potente.

Alt! Arrivati a questo punto è impossibile non svelare i nomi che stanno dietro a questo nuovo progetto e capire così che ci troviamo di fronte a quelli che vengono chiamati nel gergo musicale dei “supergruppi”: il chitarrista infatti è un certo Xabier Iriondo, già funambolico e geniale negli Afterhours, mentre dietro la batteria siede quel Diego Galeri protagonista della gloriosa vicenda targata Timoria.

Completano il quartetto il bassista Andrea Lombardini che vanta numerose esperienze in ambito pop, rock e jazz e la cantante Sarah Stride, anche lei attiva da diversi anni e apprezzata per le sue collaborazioni di prestigio e i primi lavori solisti.

E’ innegabile il suo forte appeal vocale in questi dieci pezzi, che riesce a fare suoi con interpretazioni convincenti, connotando del giusto pathos episodi come la riflessiva “I Fiumi”, la verace “Questi giorni”, l’evocativa “Il dono” posta in apertura e corredata pure da un video bello intrigante, e infine “Muta”, che chiude il tutto con toni ruggenti (e convincenti).

Quello de I Fiumi è da annoverare sicuramente tra i migliori album d’esordio dell’anno.

INTERVISTA ad ALESSANDRO CECCHINI, autore dell’ep “Personalità incorretta”, ristampato di recente a diciassette anni dalla sua prima uscita.

Il nome di Alex Snipers (alias Alessandro Cecchini) trovò già spazio in questo blog, in una sorta di articolo “mascherato” da recensione – nella fattispecie riguardo il disco “Flowers and Hurricanes Acoustic Ep (Quarantine sessions)” realizzato in pieno lockdown nel 2020 – nel quale di fatto cercai, non solo di attenermi a quell’interessante lavoro, ma di fare una panoramica più ampia sulla sua esperienza artistica, invero copiosa e assai variegata a livello discografico, al punto che il rischio di perdervisi dentro era alquanto tangibile.

Con colpevole ritardo ad esempio ho scoperto un Ep che esula un po’ dagli altri suoi proposti in precedenza, ma anche da quelli successivi, nel quale Cecchini si misura con un rock elettrico, onirico eppure sferzante, con punte acide che si uniscono e intersecano a momenti più delicati e psichedelici.

Il titolo era “Personalità incorretta”, che pare calzare a pennello con il suo autore, e fu autopubblicato una prima volta nel lontano 2005, ma che a ragione Alex ha voluto fare rivivere, concedendogli (e concedendosi) una seconda chance con la ristampa a distanza di ben 17 anni.

In effetti i motivi per andarne fieri ci sono tutti, sia da un punto di vista musicale, date le buone intuizioni in cui si muovono, nell’ordine, la riuscita cover dei Sabbath “Planet Caravan”, lo strumentale “The Bright Side of the Moon” (proverbiali nella produzione snipersiana le citazioni di brani o album altrui) e “Re Cremisi” che lo compongono, sia per quanto concerne la produzione che ne mette in luce una cura certosina dei suoni.

Stupisce più di tutti l’ultima traccia, in cui il Nostro si cimenta con la lingua madre, per un brano che avrebbe meritato di essere valorizzato diversamente.

E’ un discorso questo che potremmo tuttavia allargare a tutto il lavoro, all’epoca pressochè ignorato, per il quale il cantautore lombardo si volle dichiarare al mondo con il proprio nome e cognome, scrivendo testi e musica e impegnandosi alla produzione artistica; nel farlo si avvalse di validi musicisti come Paolo Manzolini alla chitarra, Nicola Mazzucconi al basso e Stefano Guidi alla batteria, e di Davide Perucchini e Valerio Baggio che si sono occupati rispettivamente di registrare e mixare il primo, e del mastering il secondo.

Alessandro Cecchini alias Alex Snipers – credit foto: Stefano Camilloni

Pensavo fosse giusto saperne qualcosa di più, interpellando l’autore con una serie di domande:

“Buongiorno Alessandro, partirei proprio da “Personalità incorretta” che sta vivendo una seconda giovinezza in questo 2022. Da dove è partita questa esigenza? Pensavi che questo lavoro meritasse più attenzione di quanto ottenuta al periodo? Ne vai particolarmente orgoglioso?”

L’esigenza di riproporre questa produzione dal titolo appunto “Personalita’ incorretta” nasce dal fatto che nè al tempo, nè con lo scorrere del tempo, il disco è stato valutato o rivalutato, ma semplicemente pressoché ignorato.

Non lo trovo e non lo trovavo giusto, tutto qui. Meritava a mio dire più attenzione per come è stato realizzato e per il risultato a cui si è giunti tramite quel processo. Ne sono diciamo soddisfatto.

Riguardo questo ep devo dire che, a distanza di quasi 20 anni, non ha perso brillantezza e attualità. Suona ancora bene al giorno d’oggi, e questo è bello: vuol dire che stavamo facendo bene già allora.

Si è lavorato tanto sui suoni e sulla forma, sulla cura dei dettagli. La forma è contenuto dopotutto.

“La tua discografia è così ricca che risulta complicato orientarsi al suo interno: tra dischi ufficiali, live, cover, ep, non ti sei fatto mancare niente. Tanta compulsività musicale nasce da un’urgenza espressiva, o sei tra coloro che amano mettere nero su bianco ogni idea e ogni suggestione? Hai sempre pubblicato secondo il tuo istinto o ti sei dato una “guida”, avevi in testa un percorso che andasse proprio in questo modo?”

Un flusso di idee, nient’altro. Inizio a scrivere così, per passatempo, imparo delle covers che mi piacciono e decido di farne un ep o un album, perchè in quel momento sento che devo farlo. Istinto e ragione insieme. “Personalità incorretta” è un ep da rockstar, registrato con musicisti eccezionali, mixato e masterizzato da professionisti. Era, e lo sapevo e lo dicevo già allora, un punto d’arrivo.

Da quel momento in poi ho adottato la sigla Alex Snipers e ho registrato in maniera minimale; talvolta facendo di necessità virtù, tipo durante il lockdown, talvolta consapevolmente.

Sono di origine pesarese, il pesarese e’ minimalista. Siamo fatti cosi’. A Pesaro vedo tanti sognare in grande, salvo poi forse non saper gestire tutto questo. Siamo minimalisti ripeto. In ogni caso non avevo in mente alcun percorso, anzi pensare che questo ep “Personalita’ incorretta” sia uscito 17 anni fa la prima volta, mi fa proprio credere che gli Oasis abbiano ragione: time flies…

“Sono evidenti nei tuoi lavori i tanti richiami, più o meno espliciti, ad artisti e gruppi principalmente di derivazione americana. E’ a quelle latitudini che hai sempre volto il tuo sguardo, da dove nasce questa tua fascinazione per certi cantautori e per un certo sound classico?”

Lo dice la parola: la moda passa, il classico resta: ecco da dove nasce la mia fascinazione. Cantautori come Neil Young o Bob Dylan sono esempi sempiterni, per tutti, credo. E loro come moltissimi altri provengono dal Paese che ha dato i natali al rock, impossibile perciò non rimanerne suggestionati.

“Siamo coetanei e mi pare di capire che hai assorbito anche tu la lezione del grunge, genere imperante negli anni novanta, che tanto mi sembra ti abbia influenzato, non dico a livello di scrittura, ma più come attitudine e visione del mondo. Sbaglio?”

Il grunge dipingeva bene quegli anni: anni ’90.

Era il grunge, dappertutto, nei dischi, negli abiti, nelle parole… nell’attitudine.

Ho amici che non l’hanno apprezzato molto a livello musicale, eppure hanno finito col condividerne i contenuti: credo si tratti di memoria storica. Puoi anche non aver vissuto un periodo direttamente ma venirne in qualche modo influenzato lo stesso.

“Il tuo essere per lo più indipendente a livello artistico si è scontrato talvolta con la necessità e il legittimo desiderio di voler far conoscere maggiormente la tua musica? Ci sono stati dei momenti in cui ti sentivi pronto per il “grande salto” o ritieni che la tua personalità “incorretta” sia più adatta per un pubblico più indie, di nicchia, in grado di intercettare il tuo sentire?”

Pensavo di poter diventare un compositore professionista.

O meglio: di poter vivere come “fabbricante di canzoni”.  Non ho mai pensato che sarei finito col suonare negli stadi o palazzetti, ma perlomeno di vivere delle mie canzoni. Non è andata né in un modo, né in un altro. Oltre a limiti personali credo avesse ragione un discografico tanti anni fa, quando mi disse che avrei dovuto trovare qualcuno che mi “volesse bene” per produrre la mia musica. Il fatto buffo è che Neil Young disse qualcosa di simile di un collega negli anni ’60, cioè che questo suo collega, di Neil Young, non aveva trovato qualcuno che “gli volesse bene” abbastanza da produrgli i dischi.

Molto evidentemente, tornando a me, nel 2022, non avevo abbastanza talento, ecco perchè le cose sono andate così, comunque ci ho sempre creduto fingendomi altrove con la mente. E’ regola: provarci! (distrattamente).

“Il lockdown e in generale questi anni venti del secondo millennio, periodo segnato da pandemie, guerre e crisi politiche e ambientali, ha messo tutti a dura prova. Tu hai reagito continuando a fare musica, pubblicando un Ep e riuscendo a guadagnare qualche data in giro. E’ cambiata in te la prospettiva di continuare a inseguire il tuo sogno artistico o andrai avanti seguendo la tua strada?”

Ho avuto il covid. Ho immaginato Brad Pitt che entra nella stanza sotto le veci di Dio. Si mette seduto sulla sedia, si accende una sigaretta e mi dice: “ora io ti tolgo da qui, ti guarisco dal covid, ma tu fai come dico io quando lo dico io: tu ad ottobre smetti.”

Il covid è andato via. Sono credente, e convinto che Dio ci parli. Mi ha parlato, mi ha preso il braccio e mi ha detto: basta Cecchini: ottobre 2022, stop. Da lì in poi suonerai solo per grandi occasioni, se ce ne saranno, o per cause importanti.

“Ultima domanda, più personale: oltre che un musicista tu sei in primis un grande appassionato di musica, che snocciola a menadito titoli di album, canzoni, credits… cosa ne pensi del fatto che la musica, specialmente il rock, abbia perso nelle nuove generazioni la sua centralità? Diventerà, come sostengono in molti, come il jazz, cioè relegato a una pur numerosa nicchia, o a tuo avviso, prima o poi il rock tornerà a ruggire, proponendo l’ennesima nuova rinascita/rivoluzione?”

Il rock è Dioniso. Dioniso era un dio atipico, non aveva un Tempio.

Era fatto a pezzi dalle Baccanti, per rinascere. Il rock vaga per la Terra, scompare e riappare, come il Gatto del Cheshire.

Il rock resterà per sempre se, come diceva Seneca riguardo la commedia, non guarderà alla sua durata ma alla credibilità di come è replicato.

Se si manterrà un legame con lo spirito, con le radici blues del rock in uno sguardo in divenire. E infine ci sarà sempre rock quando, come i Sex Pistols, i Replacements, i Nirvana ecc., ci sarà qualcuno che si stuferà di tante troppe cose e si stancherà al punto che la sua insoddisfazione si è fatta troppo forte e dirompente perchè la società la possa ignorare.

Come diceva qualcuno che di rock se ne intende: get satisfaction if you want it– (Rolling Stones).

Il rock è stato dell’anima.  Questo invece lo dico propriamente: il rock è stato dell’anima. Non della mente, dell’anima.

I fiorentini Stolen Apple, con il disco”Wagon Songs”, si confermano una rock band di grande qualità

Qualche mese fa è uscita l’opera numero due di un gruppo fiorentino che, già con il disco d’esordio “Trenches” (uscito nel 2016), aveva dato sfoggio di saper maneggiare con cura la materia rock.

Gli Stolen Apple in un ritratto presente nella loro pagina Facebook ufficiale

 

Gli Stolen Apple sono formati da Riccardo Dugini (voce, chitarra), Luca Petrarchi (voce, chitarra, organo, synth), Massimiliano Zatini (basso e voce) e Alessandro Pagani (batteria, piano, percussioni e voce), tutti con alle spalle svariate esperienze in gruppi indipendenti, tra i quali citiamo almeno Nest e Subterraneans. Mai come in questo progetto, però, i quattro sembrano voler fare sul serio, facendo confluire nei loro brani tante suggestioni differenti.

Se allora i nostri sembravano mirare al di là dell’Oceano, con rimandi a certo rock americano targato nineties, magari non più in voga ma evidentemente radicato nei loro cuori, con questo “Wagon Songs”, i confini si fanno più ampi, con trame musicali che vanno a intercettare tanti altri stilemi che si fondono in uno stile personale.

Non più ragazzini, gli Stolen Apple non vanno a ricercare mode, preferendo badare al sodo, nel proporci un rock solido, variegato e soprattutto ottimamente suonato. “Wagon Songs”, all’apparenza oscuro per rimandi e immaginario, rappresenta invero un caleidoscopio credibile del miglior rock espresso dal ’90 ad oggi.

Certo, il grunge è ancora presente a piccole dose, ma le sfumature sonore sono evidenti in un brano dai connotati remiani (non a caso la mia preferita del disco, perdonate la nota autoreferenziale) come “It’s up Your Mind”, che arriva a mitigare l’urgenza espressiva e il furore dei primi due pezzi: la tagliente “Suicide”, con la sua coda psichedelica, e soprattutto la cavalcata rock’n roll di “Renegade Sun (Brexit)”.

Altrove si scavalla su un sound ancora più ruvido, che emerge tra le pieghe della fulminante “Tattoo”, una scheggia impazzita di nemmeno due minuti, quella sì dall’imprinting punk, con i suoi echi di Sex Pistols. Ma all’interno dell’album possiamo imbatterci anche in deviazioni acide, come nella classicheggiante ed esplicita “Masturbation” o nella lunga e maestosa “Easier” che chiude l’album con sonorità spigolose e avvincenti, memore dei migliori episodi shoegazer.

E’ un disco molto teso emotivamente, eccezion fatta forse per la sola “A Looking Behind Kid”, che rallenta un po’ i toni, rendendo mite e più onirica l’atmosfera.

A far risultare il tutto però assolutamente piacevole e rilevante, dal mio punto di vista, sono gli ottimi arrangiamenti che mostrano una grande cura nei particolari.

Dal vivo gli Stolen Apple promettono scintille, e spiace che il lockdown sia giunto proprio in prossimità del lancio dell’album, cosicché non ci sia stata di fatto la possibilità per il momento di promuoverlo adeguatamente mediante la prova del palco.

Il tempo per recuperare però c’è tutto, o almeno per concedergli un ascolto attento: l’ho fatto anch’io che – mea culpa – arrivo tardino a divulgarlo qui per voi. Ma è un compito che assolvo molto volentieri,  perché “Wagon Songs” è assolutamente un disco che merita e che potrebbe accontentare tutti i puristi e gli appassionati dell’indie rock.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non mancate sabato 16 luglio al ROCK BEER FEST di Isola Rizza (VR)

Si dice (spesso a sproposito) che i giovani si adagiano, vivano nell’ozio o vogliano solo divertirsi, senza sbattersi o affaccendarsi troppo in cose importanti. Quanto sono brutte le generalizzazioni, a partire da quell’infelice aggettivo (bamboccioni) affibbiatoci – così facendo inconsapevolmente mi ci metto dentro anch’io nella categoria “giovani” – da chi probabilmente ha lavorato meno di tutti noi per conquistare certe cose.

Beh, a smentire questo luogo comune c’hanno pensato i ragazzi della Pro Loco di Isola Rizza che hanno messo in piedi una Festa della Birra di tutto rispetto, organizzandola per la serata di Sabato 16 luglio 2016.

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Una festa che già dal nome spiega molte cose: “ROCK BEER FEST”, dove quel rock sta per “indipendente”, sia perchè svincolato da grossi marchi, da major, sia soprattutto per l’attitudine, la creatività e il mood che caratterizzano le tre band di area veronese che si avvicenderanno sul palco dalle ore 21,30.

Prima però, per entrare a gamba tesa nell’atmosfera vivace e “festivaliera”, dalle ore 20, ci sarà spazio anche per un dj set, così potrete farvi accompagnare dalle note festose, intriganti e scatenate, mentre vi pappate quei gustosissimi “panini onti” che in ogni Festa non possono mancare. E poi fiumi di birra, prima, durante e dopo il concerto!

Ma l’attrazione principale sarà offerta da loro: dagli artisti, dai gruppi indie che si alterneranno sul palco, proponendo musica varia e interessante: gli SHAMANA, The Bottle Brothers – con quel nome così, non potevano certo non essere invitati a questo evento – e gli IANT.

Gli SHAMANA sono un quintetto capeggiato dall’istrionico tastierista e manipolatore di suoni Alessandro Lobosco,  che propone della buona ed efficace musica pop rock, debitrice di band inglesi che hanno fatto la fortuna del rinascente britpop degli ultimi 20 anni.

Più sofisticata la musica dei The Bottle Brothers, di area alternativa, con puntate e parti strumentali che sfociano nel post-rock e in genere piuttosto oscuri – anche se non per questo meno trascinanti rispetto ai colleghi di serata.

Infine i più diretti IANT, provenienti da Peschiera del Garda, che si muovono tra sferragliate punk e melodia irresistibile e testi (in italiano) tanto taglienti quanto spesso ironici.

Insomma, se siete amanti del rock, quello vero, puro, senza compromessi, beh, non potete proprio mancare a questo evento. 

Ce ne sarà davvero per tutti i gusti SABATO 16 LUGLIO al ROCK BEER FEST di Isola Rizza, per una Festa della Birra fuori dal comune.

 

Antonio “Rigo” Righetti con questo secondo album solista (“Water Hole”) si conferma rocker di razza, altro che “solo” l’ex bassista di Ligabue

Ecco la mia recensione del disco di Rigo, pubblicata sul sito di Troublezine.it

http://www.troublezine.it/reviews/21716/rigo-water-hole

 

Il nuovo album di Antonio “Rigo” Righetti, che i più ricordano per la sua lunga e fruttuosa collaborazione in qualità di bassista per Ligabue (era una delle colonne della “Banda”) e gli “esperti” per la sua militanza nei Rocking Chairs, conferma le buonissime impressioni che ci arrivano da una discografia che piano piano sta diventando sempre più corposa.

E’ un disco dalle atmosfere calde, soffuse, in un certo senso “rassicuranti”, nei suoni e nel cantato: merito principalmente dell’approccio educato e sobrio del cantautore modenese, che in queste tracce essenziali e dirette, mette in mostra tutto il suo amore per l’America. Non serve alzare i toni o gridarlo a pieni polmoni, a volte per esprimere i sentimenti, quelli veri, bastano poche cose, basta che ci sia l’intento vero e il cuore in mano e qui accade.

A tratti pare riecheggiare Bruce Springsteen, quello meno rock’n’roll e più acustico, ma l’attitudine scarna e il suono registrato in presa diretta, ne fanno un lavoro rock nell’anima. Rigo intona con voce profonda canzoni che mirano a rievocare la poetica dei grandi narratori d’Oltreoceano, e i nomi sono quelli più autorevoli: Faulkner e Carver. Testi tutti rigorosamente in lingua inglese, a riannodare ancora di più il filo che lo lega a quei scenari. Solo King of Love è introdotta in lingua italiana, e a declamare quei versi tratti proprio da Carver è l’attore teatrale Danio Manfredini, ma poi le sue liriche si dispiegano in inglese.

Un po’ di sano country, un po’ di folk, l’attenzione ai piccoli particolari che fanno la differenza (l’armonica che spesso arriva a rimarcare e intensificare l’atmosfera), tanta qualità da ogni parte lo si ascolti, grazie alla maestria di Rigo e dei suoi valenti collaboratori, uno dei quali è l’antico sodale Robby Pellati, batterista al suo fianco sia nei Rocking Chairs che nel gruppo di Ligabue.

Un consiglio? Il 5 gennaio, dal Cotton Club di Modena parte il suo tour in supporto al disco. Beh, non lasciatevelo scappare live, sarebbe un delitto!

Tracklist

 01. Henry’s Siege Mentality
02. Tear It Up
03. King Of Love
04. Dangerous
05. Glass
06. For So Long
07. The Beauty
08. (Don’t Want) To Cheat You

Splendida data veronese dei Marlene Kuntz per il tour celebrativo di “Catartica” e la presentazione di “Pansonica”

Ieri sera, assieme a un nutrito gruppo di amici di vecchia data, ho assistito alla data veronese del tour celebrativo dei Marlene Kuntz. Celebrativo perché si festeggiavano i 20 anni dal loro esordio discografico ufficiale, contrassegnato dall’epocale “Catartica”, qui omaggiato appieno, e rivisitato in ogni sua traccia. Quest’anno hanno dato alle stampe un nuovo album molto distante dalle loro recenti aperture alla musica d’autore italiana, tornando indietro nel tempo. Infatti “Pansonica” poco o nulla ha a che spartire con gli album della “svolta” del gruppo di Cuneo, risalendo nei suoi brani proprio alla genesi di “Catartica”. Non scarti dell’epoca – sarebbe ingeneroso affermarlo – ma piuttosto delle b-sides nello spirito. Già su disco avevano dimostrato in qualche modo di competere con le “elette”, quelle tracce immortalate poi nel primo fortunato album, ma a maggior ragione, eseguite dal vivo, nel contesto di un recupero delle atmosfere primordiali della band, si sono caratterizzate per la medesima intensità, per il notevole impatto e, non secondario, per la potenza delle parole. Mi ha sempre colpito del gruppo di Godano la capacità di “fare rumore”, senza disdegnare testi che spesse volte assomigliavano a veri testamenti intrisi di poesia. Così è stato ieri, con il pubblico – assai numeroso e partecipe –  avvolto in una rassicurante viaggio a ritroso nel tempo, nel pieno degli anni ’90, con unica concessione nel finale a quella “Musa”, inserita nell’insolito (per il loro repertorio) “Uno”. Da tempo, da una decina d’anni, forse di più, i Marlene Kuntz stanno battendo strade nuove, senza perdere comunque la loro attitudine e il loro spirito. Puntualizzato questo aspetto, è innegabile come, a risentirle tutte assieme, una dietro l’altra (e inframmezzate dai pezzi di “Pansonica” che, come detto, si legano ad esse come un continuum temporale), le canzoni di “Catartica” non abbiano smarrito un grammo del loro fascino e della loro carica. E poi, loro, i “ragazzi”: davvero a loro agio sul palco, a riappropriarsi della loro storia, più che a autocelebrarsi. Un’operazione che, lungi dall’essere meramente commerciale, o inserita in un momento storico di “stanchezza creativa”, mi ha convinto del tutto, specie dopo aver visto la piena sintonia tra band e affezionati sostenitori. Un tributo doveroso, con la consapevolezza di aver indicato all’epoca una strada credibile e autorevole, proiettata verso la piena affermazione di un certo tipo di rock alternativo che potesse avere una sua valenza anche in un territorio piuttosto ostico come il panorama musicale italiano.

Menzione speciale per le celebri cavalcate “Festa Mesta” e “Sonica” (probabilmente le più attese del pubblico, che si è scatenato letteralmente al loro incedere) e per il manifesto “Nuotando nell’aria”, prototipo valido per chiunque volesse cimentarsi nello scrivere una vera ballata rock con tutti i crismi, una delle perle più splendenti dell’intera produzione italiana degli anni ’90 (e non solo!). E poi ho trovato impeccabile la versione di “Trasudamerica”(per inciso, da sempre, una delle mie preferite del gruppo piemontese) e assolutamente trascinante, nella sua imperiosa melodia, “Canzone di domani”. Forse la sola “Lieve” (che adoro, specie nella loro primigenia versione, più che in quella passata alla storia grazie ai padrini C.S.I.) mi è parsa leggermente sottotono, ma questo è solo un punto di vista condiviso al più con il mio amico Riccardo, anche lui per il resto assolutamente soddisfatto dello spettacolo a cui abbiamo assistito. Tra le canzoni di “Pansonica” già su disco mi avevano colpito in particolare “Parti” e “Capello lungo”, e dopo averle sentite dal vivo, confermo la mia idea che non avrebbero assolutamente sfigurato in “Catartica”. Già, quella “Capello lungo” che ebbi modo di ascoltare molto tempo prima dell’inclusione in “Pansonica”, perché ne esiste una versione “lo-fi” su you tube, tratto da uno dei primi demo dei Marlene, quando ancora alla voce vi era Alex Astegiano, ora affermato fotografo e al seguito del gruppo, di cui è rimasto in strettissimi rapporti. Dopo il concerto, nonostante ci fosse davvero un sacco di gente accorsa per vederli, anch’io sono riuscito a scambiare piacevolmente due parole con il leader Cristiano Godano, autentica icona del rock italiano, che anche a vederlo in abiti “normali”, non in scena diciamo così, emana ugualmente fascino e carisma. Gli ho fatto i miei più sinceri complimenti e ho avuto anche modo di dirgli che ho omaggiato lui e il suo gruppo nel mio recente saggio “Revolution ‘90”, incentrato proprio sulla musica italiana degli anni’90. Lui mi ha salutato, a sua volta, con un sincero ’”in bocca al lupo” per il libro e la cosa mi ha fatto molto piacere; d’altronde non ho remore a definire i Marlene Kuntz come uno tra i 3 gruppi che maggiormente hanno segnato il mio immaginario dell’epoca (ma non credo di sbagliarmi se dico che la cosa ha riguardato la stragrande maggioranza del pubblico giunto ieri a Verona). Peccato non essere riuscito a salutare Alex che tempo fa mi rilasciò un’interessante intervista, già pubblicata nel mio blog e che includerò pure in un mio libro di prossima uscita: “Rock ‘n Words”. Mi auguro comunque ci saranno altre occasioni, perché questo tour vale davvero il prezzo del biglietto e non è detto che non mi conceda un’altra data qui nelle vicinanze.

Torna Gianluca Grignani con “A volte esagero”: un album ispirato e sincero!

Ho ascoltato tutto d’un fiato il nuovo lavoro di Gianluca Grignani, dal titolo programmatico “A volte esagero”. Dopo tutto il gran battage pubblicitario, non solo fatto di musica ma, suo malgrado, anche di altro, in molti attendevano al varco la sua nuova opera, salutata dal Nostro come un ritorno a certe sonorità più ruvide, rock, da alcuni vicini al suo entourage, addirittura capaci di farci riandare alla memoria di album passati alla storia come “La Fabbrica di plastica” e “Campi di popcorn”. Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: siamo comunque lontani da quel tipo di urgenza comunicativa, di sfogo puro in musica, di atto di ribellione, ma non mancano certo le sorprese in questo disco. Non che il Grigna, di album in album, non sappia spiazzare i suoi ascoltatori e la critica specializzata, visto che non è certo tipo che ama adagiarsi sui successi, su determinati standard. Una mosca bianca del panorama nazionale, con un’anima rock ‘n roll, più per attitudine forse che per reale inclinazione in fase di scrittura, laddove spesso prevalgono  o emergono altri contesti, diverse istanze. Il singolo apripista “Non voglio essere un fenomeno” alla fine ha centrato l’obiettivo. Non pareva prettamenparte commerciale come episodio, invece ha conquistato pubblico e radio, grazie a un testo efficace, nonostante la rima “sacrificio/dentifricio” potesse indurre più d’uno a lasciar perdere. E sarebbe stato un peccato perché la canzone offre tanti spunti interessanti di riflessione.

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Tutto il disco è pervaso da un’atmosfera, non dico di tristezza, dacchè invece fanno capolino parole aspre e suoni forti, densi, pieni, “rock” nella più ampia concezione del termine, ma almeno di amara constatazione della realtà che ci circonda. La mia preferita, a un primo impatto, è proprio quella che intitola l’intera raccolta. “A volte esagero” è paradigmatica sin da titolo ma parla di tutti noi, della vita. Due canzoni possono emergere a livello puramente emozionale, perché scritte col cuore, e la cosa traspare in modo evidente: “L’amore che non sai” è una genuina, appassionata e sincera ode alla moglie Francesca; “Madre” invece rivolge parole bellissime, commoventi alla figura materna. E ci può pure scappare la lacrima, quando Gianluca – che scrisse questo pezzo 20 anni fa, e in un primo momento pareva potesse inserirlo addirittura nell’album di debutto – declama il verso che si sente perso nell’universo senza un padre.

Il tema è fortemente autobiografico, Gianluca, la sorella e la madre furono in effetti “abbandonati” dal padre, come si evince anche dal suo libro ma il tema era sin troppo personale forse per darlo in pasto sin dai tempi di “Destinazione Paradiso”. Un recupero importante, la canzone vale davvero. “Fuori dai guai” e “Il mostro” hanno in effetti sonorità che Grignani non ci faceva sentire da molto tempo: qui gli echi della “Fabbrica” sono evidenti, specie nell’intro della prima, una dichiarazione quasi in tempo reale dei fatti occorsi quest’estate e sui quali si è tanto speculato. “Il mostro” come più volte da lui raccontato è ispirato alla storia vera di una sua amica. Altri episodi si elevano, come l’incalzante “Maryanne” e “Rivoluzione serena” che nei suoi intenti sembra voler essere il manifesto del disco. Un bel disco, lo voglio sottolineare un’ultima volta, in un mercato italiano sempre più asfittico e dove le idee, specialmente da parte di artisti giunti a certi livelli, spesso latitano. Non è il caso di Gianluca, uno che la musica l’avverte proprio come una vera necessità, un modo per esprimersi come meglio non saprebbe fare. E anche dal punto di vista compositivo e musicale, ogni suo disco rappresenta sempre una scoperta.

Alla scoperta de “L’Ordine Naturale delle Cose”, gruppo di Parma che nel loro Ep d’esordio propongono un rock che riecheggia quello dei gruppi italiani anni ’90

Ho avuto modo di conoscere mesi fa il nome de “L’Ordine Naturale delle Cose” grazie all’impegno di Cococi Promotion, ufficio stampa che si sta davvero prodigando per far emergere i propri assi presenti nel roster. Da subito il quintetto parmense, dedito a un rock alternativo in lingua italiana caro a certi stilemi tanto in voga negli anni ’90, mi colpì per le musiche e per le liriche, e pensai bene di passarli subito in una puntata del mio programma “Out Of Time”, nello spazio solitamente dedicato ai gruppi nuovi.

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Nuovi loro lo sono davvero, se consideriamo che con questa sigla sociale esistono da praticamente appena un anno, ma ascoltando bene le 4 tracce che compongono questo ep che sa di dichiarazione d’intenti, ci accorgiamo come alle spalle vi siano comunque anni di applicazione, di passione e di tecnica consolidata. Chiarisco subito che a conferire, a mio avviso, al tutto un’aurea di autenticità e di piglio, atto quanto meno a incuriosirti e a farti ascoltare piacevolmente le canzoni, è l’utilizzo di uno strumento un po’ insolito alle nostre latitudini, ma che un posticino nella storia del rock (presente in dischi leggendari come ben saprete) se l’è preso: parlo della viola, qui suonata da Enrico Cossu. Il virtuoso musicista pennella con suoni raffinati e obliqui le varie tracce, a partire da “Questa”, scelta come canzone apripista di questo lavoro. Il mio brano preferito in effetti, dove le varie anime del quintetto emiliano, capitanato da Stefano Cavirani si incontrano e si amalgamano perfettamente, creando ottimi intrecci melodici, su uno sfondo per lo più cupo e malinconico. Sono ben tre le chitarre suonate, considerando che il leader ha la ritmica, mentre alla chitarra e basso si alternano i polistrumentisti Gioacchino Garofalo e Mattia Amoroso (completa la formazione il batterista Alessandro Aldrovandi, sempre incisivo e sul pezzo). Il singolo da lontano presenta echi dei Marlene Kuntz meno arrembanti, nonostante la voce di Cavirani non sia debitrice di quella di Godano, e debba ancora trovare la sua forza. Nonostante i testi siano in media buoni (soprattutto in “Punta di piedi” che però di contro non mi convince a livello musicale col suo impasto sonoro che vira verso il rock duro), a colpire è soprattutto la struttura, l’impalcatura musicale, in un brano dal forte impatto come “Opaca”, qui Cossu adempie alla grande al suo dovere, che si stacca dal resto per l’arrangiamento leggermente più “easy”. E’ stato salutare comunque riascoltare un buon ep tutto cantato in italiano, solido e memore di un periodo storico che ci ha consegnato alcune tra le band migliori mai apparse in suolo italico: vedremo se nel prosieguo della loro appena avviata avventura, l’Ordine Naturale delle Cose saprà affrancarsi da certi modelli e brillare di luce propria… noi ce lo auguriamo!

In anteprima una mia intervista al grande Umberto Palazzo dei Santo Niente: un’occasione per parlare dell’argomento del mio saggio sulla musica italiana anni ’90 e sul suo personale percorso artistico

PELLEeCALAMAIO ha il piacere di ospitare Umberto Palazzo, protagonista del panorama musicale alternativo italiano sin dagli anni ’80, alla guida di varie band  e ora protagonista di interessanti e diversi progetti.

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 “Ciao Umberto, l’argomento del mio saggio di prossima uscita è sì la musica italiana emersa nel decennio dei ’90 ma anche il contesto in cui veniva intessuto lo sviluppo artistico e culturale, se in effetti c’è stato. Tu che ne sei stato protagonista in prima persona, è stata “rivoluzione”, rispetto alle derive anni ’80 o solo un’illusione?”

 All’ inizio degli anni novanta ci fu un momento di vuoto assoluto dominato dai Litfiba e dai loro emuli, che faccio fatica a definire musica che mi appartenga. Le contemporanee tendenze americane erano seguite  poco o nulla, però erano molto vitali le scene hardcore e “posse”. I CCCP si erano sciolti. Poi arrivammo noi, quello che fu poi chiamato il Nuovo Rock Italiano e in un certo senso ci fu una piccola rivoluzione, favorita dall’exploit mondiale del grunge.

“Vorrei partire analizzando i passi della tua lunga carriera. Eri un giovane che ti spostasti a Bologna per motivi di studi (poi completati)..un iter comune a molti, così come l’infatuazione per la città, i suoi stimoli. In cosa pensi sia cambiata l’atmosfera rispetto a quei tempi?” 

Bologna non mi dice più niente, è sempre una bellissima e civilissima città, ma non è certo il crocevia di idee e creatività che è stata per un certo periodo. Direi che oggi un posto vale l’altro, abbiamo internet e gli aperitivi è meglio non frequentarli.

“Ciò che scopristi in Inghilterra e che finì per influire nel tuo percorso artistico una volta rientrato alla base, era impossibile da trovare in Italia?

Più che impossibile. Non ce n’era alcuna consapevolezza.

Non eri rimasto incuriosito o affascinato dai gruppi primigeni di un certo recupero di rock in senso stretto (gli esempi scontati sono quelli dei gruppi dell’IRA: Diaframma, Litfiba, Moda ecc..) o i tuoi riferimenti musicali e culturali erano già ben definiti?”

 

Nell’ottanta/ottantuno i miei riferimenti musicali erano, per quel decennio, già definiti. L’IRA è venuta dopo, ma non aveva nulla a che fare con il recupero del rock, la new wave era la negazione esplicita del rock.

“Ho letto con piacere il libro di Andrea Pomini sulla storia dei Massimo Volume, il cui tuo contributo nella genesi del loro processo creativo è stato importante e talvolta ho impressione che non sia stato non valorizzato. Nel libro è stato illuminante sentire diverse versioni. Col senno di poi mi viene da pensare che sarebbe stato interessante vedere l’evoluzione della band con le due menti creative, ma alla resa dei conti mi sembra ci fossero sin troppe divergenze sulla linea guida da tenere. Tu immaginavi che sarebbero diventati così “di culto” per molta gente con gli anni a venire?” 

Sì, io credevo tantissimo in quella band e le potenzialità si videro immediatamente, l’impatto fu subito fortissimo. Le divergenze non erano poi così tante, visto che le musiche che ho scritto per Mimì vengono tutt’ora suonate dal vivo. Il punto è che in origine c’erano due cantanti e poi si decise che ce ne fosse solo uno, ma io non fui coinvolto né avvertito di questa decisione. Ho amato quella band ed esserne allontanato è una delle cose che mi ha fatto più soffrire in assoluto. E’ ovvio che il mio apporto non sia valorizzato, perché il modo in cui hanno gestito la faccenda rimane fonte d’imbarazzo.

un giovanissimo Umberto Palazzo, quando ancora militava nei Massimo Volume, gruppo di cui fu tra i fondatori

un giovanissimo Umberto Palazzo, quando ancora militava nei Massimo Volume, gruppo di cui fu tra i fondatori

“L’esperienza dei Santo Niente fu un ritorno a un  viscerale rock, direi inedito per l’Italia, con testi ricchi di immagini anche “violente” o capaci di destabilizzare. Mi ricordavi Perry Farrell per l’attitudine. Vi vidi dal vivo sul finire degli anni ’90 e l’energia che emanavate era in effetti trascinante,pazzesca, eppure così diversa da quella trasmessa da band allora in auge come Marlene Kuntz o Afterhours. Pensi che il risultare forse eccessivi o “disturbanti” abbia influito negativamente sul percorso del tuo gruppo o pensi di aver raccolto il massimo?” 

Non era un ritorno perché prima quel modo di fare e suonare in Italia non c’era. Sicuramente eravamo troppo estremi. In realtà fummo definiti dalla major che finanziava il Consorzio “improponibili” al pubblico subito dopo la registrazione de “La vita è facile” e non ci fu dato alcun budget pubblicitario. Tutti sapevano che il Santo Niente era un morto che camminava, ma abbiamo lo stesso insistito a suonare e fare dischi e ancora oggi insisto. Ho motivazioni che vanno oltre la ricerca del successo, di cui ho perso ogni speranza già nel 96. E non ho raccolto nulla: le spese sono immensamente superiori agli incassi e non sono quello che si dice un artista di chiara fama. Per molti sono solo un cretino che non vuole ammettere di non essere tagliato per fare il musicista e non si perde occasione per ricordarmelo.

“Negli ultimi anni, pur non essendo mai stato dimenticato da chi ti seguiva prima, sei diventato piuttosto popolare per i tuoi interventi, a volte forse provocatori ma sempre lucidi e analitici, sui social network in merito a questioni non solo musicali. Una sorta di “opinion maker” autorevole e credibile, e non lo penso solo io. Tante volte mi dai l’impressione quasi di doverti “giustificare” per la tua attività fiorente di deejay, che per molti più integerrimi fans del rock più puro (esiste ancora?) è in netta contrapposizione con quanto esprimevi ad inizio carriera. Mi pare di capire che tu conosci a fondo la storia della musica, le sue evoluzioni e non ne faccia una questione sterile di supremazia di certi generi su altri, giusto?” 

Il fatto che gli appassionati del rock abbiano dei problemi con la musica dance dimostra solo quanto sia arretrata, puritana e poco consapevole delle origini la scena rock italiana. Io amo la dance e l’elettronica in tutte le sue forme ed è anche a causa della mia formazione: la new wave era musica per ballare. Il più grande hit dance degli ottanta è opera degli ex Joy Division, per fare un ovvio esempio. Ora il rock alternativo italiano, con pochissime eccezioni, è triste, autocommiserativo e patetico, oppure è ruffiano e sta morendo per questo. Ciò che non è vitale non attrae nuovi appassionati e quindi il rock italiano non fa altro che celebrare la sua stessa agonia. Manca totalmente di orgoglio.

Non ho mai voluto essere un opinion maker: posto le mie idee in genere mentre faccio altro, tipo pubbliche relazioni per una serata in un club. Quello che succede, succede per caso.

“Tante volte si è dibattuto sul fenomeno internet e anch’io mi chiedo spesso (e lo chiedo ai gruppi e agli artisti) se non fosse meglio un tempo nemmeno lontano, quando era più difficile farsi notare dalle case discografiche ma poi si seguiva bene o male un iter, una gavetta (pur non essendoci mai stata una “guida” per emergere), oppure ora che è facile per chiunque caricare i propri pezzi e i propri video in rete? Non pensi che, al di là dell’opportunità unica di diffondere “liberamente”, senza molti filtri la propria musica, ci sia sin troppa musica da ascoltare, da scoprire, da condividere, col rischio concreto che si perda la qualità vera, in funzione della quantità?” 

Non ha nessun senso chiedersi se fosse meglio o peggio prima. Il passato è passato e non tornerà. Bisogna piuttosto chiedersi come affrontare per il meglio cambiamenti che sono ovviamente irreversibili e sempre in corso e non mi sembra che ci si ponga abbastanza in quest’ottica: l’italiano non ama le novità. L’era del disco dal punto di vista pragmatico è lontana quanto quella del cilindro di cera di Edison. Persino il download è obsoleto e si perde tempo in discorsi sul come eravamo. L’unico discorso giusto sarebbe quello sul come saremo.

“La crisi discografica sembra non avere fine, salvata in parte solo dai “fenomeni” usciti dai talent, tendenza non solo italiana, ma che anzi ha radici lontane e radicate anche oltreoceano e oltreManica, le patrie del rock. Dove credi che porterà tutto questo? E’ una caduta irreversibile quella del disco, che scenari ti immagini da qui a dieci anni?” 

 La crisi discografica è finita, nel senso che l’industria discografica non esiste più: il tempo è dalla parte dei nativi digitali, per cui i dischi sono buffi oggetti d’antiquariato. Esiste l’industria della musica, che è altro. Bisogna sbrigarsi a capire questo e liberarsi da ogni nostalgia.

l'audace e bellissima copertina del nuovo lavoro dei Santo Niente

l’audace e bellissima copertina del nuovo lavoro dei Santo Niente

“Come sta procedendo il discorso relativo al tuo progetto solista, da cantautore sui generis, se mi permetti. Sei soddisfatto dei riscontri, e cosa sta bollendo in pentola? Stai scrivendo altro materiale in quella direzione o ti vedi di nuovo impegnato col gruppo? Da dove ricavi le tue ispirazioni? E cosa fa la differenza nel tuo caso, quali elementi influiscono maggiormente nel farti decidere se incanalare le tue suggestioni e i tuoi stimoli in un nuovo percorso solistico o nel Santo Niente?” 

E’ appena uscito “Mare Tranquillitatis”, il nuovo album del Santo Niente e sono totalmente preso da questo.

NEL RINGRAZIARTI PER LA TUA DISPONIBILITA’ E NEL RINNOVARTI I MIEI SINCERI COMPLIMENTI PER LA TUA MULTIFORME ATTIVITA’, TI SALUTO E MI AUGURO DI VEDERTI PRESTO LIVE.

(Gianni Gardon)