INTERVISTA ad ALESSANDRO CECCHINI, autore dell’ep “Personalità incorretta”, ristampato di recente a diciassette anni dalla sua prima uscita.

Il nome di Alex Snipers (alias Alessandro Cecchini) trovò già spazio in questo blog, in una sorta di articolo “mascherato” da recensione – nella fattispecie riguardo il disco “Flowers and Hurricanes Acoustic Ep (Quarantine sessions)” realizzato in pieno lockdown nel 2020 – nel quale di fatto cercai, non solo di attenermi a quell’interessante lavoro, ma di fare una panoramica più ampia sulla sua esperienza artistica, invero copiosa e assai variegata a livello discografico, al punto che il rischio di perdervisi dentro era alquanto tangibile.

Con colpevole ritardo ad esempio ho scoperto un Ep che esula un po’ dagli altri suoi proposti in precedenza, ma anche da quelli successivi, nel quale Cecchini si misura con un rock elettrico, onirico eppure sferzante, con punte acide che si uniscono e intersecano a momenti più delicati e psichedelici.

Il titolo era “Personalità incorretta”, che pare calzare a pennello con il suo autore, e fu autopubblicato una prima volta nel lontano 2005, ma che a ragione Alex ha voluto fare rivivere, concedendogli (e concedendosi) una seconda chance con la ristampa a distanza di ben 17 anni.

In effetti i motivi per andarne fieri ci sono tutti, sia da un punto di vista musicale, date le buone intuizioni in cui si muovono, nell’ordine, la riuscita cover dei Sabbath “Planet Caravan”, lo strumentale “The Bright Side of the Moon” (proverbiali nella produzione snipersiana le citazioni di brani o album altrui) e “Re Cremisi” che lo compongono, sia per quanto concerne la produzione che ne mette in luce una cura certosina dei suoni.

Stupisce più di tutti l’ultima traccia, in cui il Nostro si cimenta con la lingua madre, per un brano che avrebbe meritato di essere valorizzato diversamente.

E’ un discorso questo che potremmo tuttavia allargare a tutto il lavoro, all’epoca pressochè ignorato, per il quale il cantautore lombardo si volle dichiarare al mondo con il proprio nome e cognome, scrivendo testi e musica e impegnandosi alla produzione artistica; nel farlo si avvalse di validi musicisti come Paolo Manzolini alla chitarra, Nicola Mazzucconi al basso e Stefano Guidi alla batteria, e di Davide Perucchini e Valerio Baggio che si sono occupati rispettivamente di registrare e mixare il primo, e del mastering il secondo.

Alessandro Cecchini alias Alex Snipers – credit foto: Stefano Camilloni

Pensavo fosse giusto saperne qualcosa di più, interpellando l’autore con una serie di domande:

“Buongiorno Alessandro, partirei proprio da “Personalità incorretta” che sta vivendo una seconda giovinezza in questo 2022. Da dove è partita questa esigenza? Pensavi che questo lavoro meritasse più attenzione di quanto ottenuta al periodo? Ne vai particolarmente orgoglioso?”

L’esigenza di riproporre questa produzione dal titolo appunto “Personalita’ incorretta” nasce dal fatto che nè al tempo, nè con lo scorrere del tempo, il disco è stato valutato o rivalutato, ma semplicemente pressoché ignorato.

Non lo trovo e non lo trovavo giusto, tutto qui. Meritava a mio dire più attenzione per come è stato realizzato e per il risultato a cui si è giunti tramite quel processo. Ne sono diciamo soddisfatto.

Riguardo questo ep devo dire che, a distanza di quasi 20 anni, non ha perso brillantezza e attualità. Suona ancora bene al giorno d’oggi, e questo è bello: vuol dire che stavamo facendo bene già allora.

Si è lavorato tanto sui suoni e sulla forma, sulla cura dei dettagli. La forma è contenuto dopotutto.

“La tua discografia è così ricca che risulta complicato orientarsi al suo interno: tra dischi ufficiali, live, cover, ep, non ti sei fatto mancare niente. Tanta compulsività musicale nasce da un’urgenza espressiva, o sei tra coloro che amano mettere nero su bianco ogni idea e ogni suggestione? Hai sempre pubblicato secondo il tuo istinto o ti sei dato una “guida”, avevi in testa un percorso che andasse proprio in questo modo?”

Un flusso di idee, nient’altro. Inizio a scrivere così, per passatempo, imparo delle covers che mi piacciono e decido di farne un ep o un album, perchè in quel momento sento che devo farlo. Istinto e ragione insieme. “Personalità incorretta” è un ep da rockstar, registrato con musicisti eccezionali, mixato e masterizzato da professionisti. Era, e lo sapevo e lo dicevo già allora, un punto d’arrivo.

Da quel momento in poi ho adottato la sigla Alex Snipers e ho registrato in maniera minimale; talvolta facendo di necessità virtù, tipo durante il lockdown, talvolta consapevolmente.

Sono di origine pesarese, il pesarese e’ minimalista. Siamo fatti cosi’. A Pesaro vedo tanti sognare in grande, salvo poi forse non saper gestire tutto questo. Siamo minimalisti ripeto. In ogni caso non avevo in mente alcun percorso, anzi pensare che questo ep “Personalita’ incorretta” sia uscito 17 anni fa la prima volta, mi fa proprio credere che gli Oasis abbiano ragione: time flies…

“Sono evidenti nei tuoi lavori i tanti richiami, più o meno espliciti, ad artisti e gruppi principalmente di derivazione americana. E’ a quelle latitudini che hai sempre volto il tuo sguardo, da dove nasce questa tua fascinazione per certi cantautori e per un certo sound classico?”

Lo dice la parola: la moda passa, il classico resta: ecco da dove nasce la mia fascinazione. Cantautori come Neil Young o Bob Dylan sono esempi sempiterni, per tutti, credo. E loro come moltissimi altri provengono dal Paese che ha dato i natali al rock, impossibile perciò non rimanerne suggestionati.

“Siamo coetanei e mi pare di capire che hai assorbito anche tu la lezione del grunge, genere imperante negli anni novanta, che tanto mi sembra ti abbia influenzato, non dico a livello di scrittura, ma più come attitudine e visione del mondo. Sbaglio?”

Il grunge dipingeva bene quegli anni: anni ’90.

Era il grunge, dappertutto, nei dischi, negli abiti, nelle parole… nell’attitudine.

Ho amici che non l’hanno apprezzato molto a livello musicale, eppure hanno finito col condividerne i contenuti: credo si tratti di memoria storica. Puoi anche non aver vissuto un periodo direttamente ma venirne in qualche modo influenzato lo stesso.

“Il tuo essere per lo più indipendente a livello artistico si è scontrato talvolta con la necessità e il legittimo desiderio di voler far conoscere maggiormente la tua musica? Ci sono stati dei momenti in cui ti sentivi pronto per il “grande salto” o ritieni che la tua personalità “incorretta” sia più adatta per un pubblico più indie, di nicchia, in grado di intercettare il tuo sentire?”

Pensavo di poter diventare un compositore professionista.

O meglio: di poter vivere come “fabbricante di canzoni”.  Non ho mai pensato che sarei finito col suonare negli stadi o palazzetti, ma perlomeno di vivere delle mie canzoni. Non è andata né in un modo, né in un altro. Oltre a limiti personali credo avesse ragione un discografico tanti anni fa, quando mi disse che avrei dovuto trovare qualcuno che mi “volesse bene” per produrre la mia musica. Il fatto buffo è che Neil Young disse qualcosa di simile di un collega negli anni ’60, cioè che questo suo collega, di Neil Young, non aveva trovato qualcuno che “gli volesse bene” abbastanza da produrgli i dischi.

Molto evidentemente, tornando a me, nel 2022, non avevo abbastanza talento, ecco perchè le cose sono andate così, comunque ci ho sempre creduto fingendomi altrove con la mente. E’ regola: provarci! (distrattamente).

“Il lockdown e in generale questi anni venti del secondo millennio, periodo segnato da pandemie, guerre e crisi politiche e ambientali, ha messo tutti a dura prova. Tu hai reagito continuando a fare musica, pubblicando un Ep e riuscendo a guadagnare qualche data in giro. E’ cambiata in te la prospettiva di continuare a inseguire il tuo sogno artistico o andrai avanti seguendo la tua strada?”

Ho avuto il covid. Ho immaginato Brad Pitt che entra nella stanza sotto le veci di Dio. Si mette seduto sulla sedia, si accende una sigaretta e mi dice: “ora io ti tolgo da qui, ti guarisco dal covid, ma tu fai come dico io quando lo dico io: tu ad ottobre smetti.”

Il covid è andato via. Sono credente, e convinto che Dio ci parli. Mi ha parlato, mi ha preso il braccio e mi ha detto: basta Cecchini: ottobre 2022, stop. Da lì in poi suonerai solo per grandi occasioni, se ce ne saranno, o per cause importanti.

“Ultima domanda, più personale: oltre che un musicista tu sei in primis un grande appassionato di musica, che snocciola a menadito titoli di album, canzoni, credits… cosa ne pensi del fatto che la musica, specialmente il rock, abbia perso nelle nuove generazioni la sua centralità? Diventerà, come sostengono in molti, come il jazz, cioè relegato a una pur numerosa nicchia, o a tuo avviso, prima o poi il rock tornerà a ruggire, proponendo l’ennesima nuova rinascita/rivoluzione?”

Il rock è Dioniso. Dioniso era un dio atipico, non aveva un Tempio.

Era fatto a pezzi dalle Baccanti, per rinascere. Il rock vaga per la Terra, scompare e riappare, come il Gatto del Cheshire.

Il rock resterà per sempre se, come diceva Seneca riguardo la commedia, non guarderà alla sua durata ma alla credibilità di come è replicato.

Se si manterrà un legame con lo spirito, con le radici blues del rock in uno sguardo in divenire. E infine ci sarà sempre rock quando, come i Sex Pistols, i Replacements, i Nirvana ecc., ci sarà qualcuno che si stuferà di tante troppe cose e si stancherà al punto che la sua insoddisfazione si è fatta troppo forte e dirompente perchè la società la possa ignorare.

Come diceva qualcuno che di rock se ne intende: get satisfaction if you want it– (Rolling Stones).

Il rock è stato dell’anima.  Questo invece lo dico propriamente: il rock è stato dell’anima. Non della mente, dell’anima.

Intervista ad Attilio Fontana che ci racconta il nuovo album “Sessioni segrete” e ripercorre la sua storia così intensa e ricca di incontri

Attilio Fontana ne ha fatta di strada da quando infiammava i cuori delle giovanissime con il gruppo de I Ragazzi Italiani, di cui era riconoscibile voce e personalità di spicco.

Non è stato facile scrollarsi di dosso quel periodo così fortunato a livello artistico, una volta chiusa quell’esperienza, ma si è da subito rimboccato la maniche, muovendosi agevolmente tra canto, teatro, fiction in tv, musical e altro ancora.

L’occasione buona per intervistarlo è giunta per l’uscita del suo ultimo progetto discografico: “Sessioni segrete” un disco live d’altri tempi, registrato all’Ellington Club di Roma, che ne segna un pieno ritorno alla musica, quella vera, cantata e suonata.

la cover di “Sessioni segrete (Live at Ellington Club)”

“Ciao Attilio, come stai? E’ un piacere poter scambiare quattro chiacchiere con te”

“Ciao Gianni, piacere mio, sto bene, nonostante il periodo che stiamo vivendo. Stiamo valutando di trascorrere il Natale in Veneto, mia moglie Clizia (Fornasier, attrice) è di Treviso… vedremo con tutte queste costrizioni se sarà possibile”

“In effetti pare che il Veneto diverrà zona rossa ovunque, con gli spostamenti ridotti così al minimo. Ti parlo da veronese, purtroppo la situazione sanitaria è abbastanza al collasso qui. Comunque ti auguro davvero che passiate un Natale sereno”

“Grazie di cuore”

“Partirei da questo ultimo lavoro in ordine di tempo, un live decisamente interessante a cui hai dato un titolo intrigante: “Sessioni segrete”. Quale esigenza hai avvertito nel metterti a incidere queste canzoni? Avevi voglia di ripartire in un certo senso, dopo mesi di forzato stop?”

“Questo disco nasce dal desiderio di fare musica e di fare il live anche quando purtroppo non si può. Come per tanti altri colleghi anche per me è stato un anno nefasto, in cui io ho perso quattro spettacoli, una tournée lunghissima a teatro di uno spettacolo molto bello, dei live: la mia vita negli ultimi anni è sul palcoscenico e quindi questa astinenza che dura ormai quasi da un anno si fa sentire. Poi, essendo un creativo ho comunque voluto usare il tempo per dedicarmi a varie cose, come riscrivere un copione da capo. L’esigenza di tornare a esibirmi era quindi fortissima, e mi era venuta l’idea di fare un live in questo locale di Roma, aperto poco prima del lockdown, l’Ellington Club. Qui c’era la dimensione che piaceva a me, dove si fa musica vera, anche retrò se vogliamo, mi viene da definirlo un tempio del live. Avevo in programma una serata e purtroppo la persi due volte, così ho proposto ai proprietari di trasformare il locale in uno studio di registrazione, creando una situazione di recording, per poter girare lì dentro disco e anche video. Come con i vinili una volta, dove si posava la punta sulla cera e quello che rimaneva impresso era buono.

Una cosa insomma antitetica all’utilizzo dell’autotune, una “crociata” solitaria contro l’algoritmo. Ne è uscito un disco un po’ fuori dal tempo per chi lo ascolta, è come gustare un buon bicchiere di vino rosso, poco filtrato, dove dentro però ci trovi tantissima verità. Avendo amato i bootleg nell’epoca dei cd o del vinile, o un disco come il “Live At Sin-è” di Jeff Buckley, desideravo fare un lavoro di quel tipo, sincero, ne avevo bisogno”.

“Si tratta di un disco principalmente acustico quindi, senza sovrastrutture?”

“Sì, è un disco in cui suoniamo in trio e dove il suono della chitarra risalta moltissimo. Franco Ventura, con me da vent’anni, è un po’ il “chitarrista della discografia italiana”, avendo suonato con Nada negli anni ‘70, Mia Martini, Bocelli, Neri per caso, Marina Rei, Giorgia, e anche in questo progetto siamo entrati subito in sintonia, il nostro è un sodalizio che dura da tanto tempo”.

“Il vostro ormai infatti è un feeling consolidato. Inoltre c’è anche Roberto Rocchetti al pianoforte, per un album magari scarno ma che riesce a suscitare emozioni. Sei soddisfatto del risultato ottenuto?”

“Sono molto soddisfatto. Sognavo questo album da tempo e alla fine è arrivato! In tre giorni abbiamo popolato questo posto facendo sessioni su sessioni e alla fine le polaroid musicali più belle le abbiamo “stampate” in questo album di undici brani, da cui usciranno poi tredici video, perché per ogni brano voglio dare anche una veste visiva. Con noi come hai detto c’è anche Roberto Rocchetti al pianoforte, un musicista molto conosciuto a Roma”.

“Tu non hai mai abbandonato la musica, pur avendo centellinato le tue uscite discografiche: dagli esordi come solista a inizio millennio, ad “A” uscito nel 2007, fino a “Formaggio” del 2014 e ora questo nuovo lavoro dove in pratica ridai nuova luce a canzoni del tuo repertorio. In più questa curiosa e bella versione de “Il Triangolo” di Renato Zero”, che però nel contesto ci sta benissimo; direi che c’è un filo conduttore che lega le canzoni, è così?”

“Sì, perché anche “Il Triangolo” che è un brano famosissimo, un classico della canzone italiana, qui assume un tono giocoso ma mellifluo, con quell’atmosfera che intendevo ricreare da “musica live” che tanto manca, quella cosa di assistere a pochi cm tipica di un concerto in un club, come un living room. Ho voluto riadattare alcuni brani significativi tratti dai miei album precedenti e ho incontrato così quelle stesse canzoni in una forma più matura, più adatte anche a questo tipo di musica; d’altronde io stesso sono più maturo di quando le avevo scritto (all’epoca avrò avuto 28/30 anni), e sento che adesso sono cantate meglio, suonate meglio: le paragono un po’ a del buon vino, che più sta lì e più migliora”.

“Questo disco rimarrà un progetto a se’ stante o avrà nelle tue intenzioni uno sbocco diverso? Hai voglia di proporle in concerto dal vivo?”

“Assolutamente sì, è quello che desidero. Voglio portare in giro questo album così com’è nato: live, anche se questo in fondo è un antipasto del progetto che avevo sognato, dove le canzoni le vorrei suonate con contrabbasso, piano, le chitarre… ovviamente non potevamo di questi tempi essere in tanti su un palco, ma avremo spero modo di recuperare e di proporre un lavoro più ricco a livello di arrangiamenti, pur non tradendo lo spirito originario che lo contraddistingue”.

“Ti possiamo definire un artista poliedrico, viste le tue esperienze professionali così diverse. Stiamo parlando di musica, per cui il grande pubblico ti ha conosciuto al tempo della tua militanza nel gruppo, ma hai fatto anche tv, teatro e altre cose. Tu come ti senti però nel profondo? Più musicista o più attore? O entrambe le cose?”

“Vivo di questo in fondo e non mi sono mai fermato, sono un curioso famelico delle varie forme espressive in cui poter far emergere il proprio talento. Di sicuro ho studiato, e sto studiando tuttora molto, da attore, ma sento comunque la voglia di far coesistere questo mio lato con il mio essere cantante e musicista. Sono due dimensioni molto diverse, anche per come le vivo personalmente. Nelle canzoni sono nudo, nei miei dischi si trova un Attilio senza veli, più fragile: c’è una parte del mio cuore, vi sono spremuto io dentro quelle note, intimo e sensibile. Un album diventa una sorta di radiografia musicale e quindi mi sento in sostanza meno protetto. Nel teatro invece c’è una sorta di bipolarità, visto che posso interpretare i “folli” che albergano dentro di me senza pudore, ed è una vera conquista, dal momento che nasco bambino timido e sul palco riesco a mettere dentro cose che chi mi conosce bene sa che mi appartengono pure, ma in quel luogo magico le posso colorare, creando empatia col pubblico. E’ sempre un’emozione molto forte quella che ottengo dalla musica e dalla recitazione, e a ben pensarci non riesco a essere mono-polare nell’arte: sono come rapito e trasportato in un mondo dove mi sento “padrone” e non operaio… o meglio, mi sento un artista”.

“Queste due polarità che ti contraddistinguono, il poter interpretare su un palco una parte e l’essere denudato con le canzoni, sono confluite in un programma come “Tale e Quale Show” che infatti in pratica ti ha dato una piena affermazione. Sembravi davvero a tuo agio e sicuro dei tuoi mezzi, anche destreggiandoti in situazioni molto diverse. Cosa ti è rimasto dentro di quella felice esperienza?”

“Ti ringrazio delle tue parole. Beh, quella di “Tale e Quale Show” è stata un’esperienza straordinaria. E’ stato un farmi rivedere dal grande pubblico per chi magari non mi seguiva a teatro e la gente così mi ha riscoperto. Ho voluto giocarmi le mie carte al massimo, studiando molto, curando il talento in modo ossessivo, sono uno a cui piace lavorare. Quel programma è stato una maratona necessaria per me, uno sfidarmi continuo cercando l’anima dei personaggi che dovevo di volta in volta interpretare. Ho svolto un lavoro “all’americana”, facendo nottate a studiare l’artista, le sue canzoni, e il mio proposito era di godermela fino in fondo. Oltretutto ho riamoreggiato con i miei primi amori, da Battisti a Gaetano, da Dalla e De Gregori fino alla Vanoni…”.

“Ricordo bene la tua interpretazione della Vanoni, straordinaria!”

“Eh, una bella sfida appunto ma ogni volta in pratica era come farsi un viaggio in acido (per quanto io non mi sia mai drogato, ah ah), potevo portare sul palco il leone che tenevo chiuso in gabbia da qualche anno ed è stato magico “diventare” Sting, Bob Marley: sono tornato adolescente, quella musica è la colonna sonora della nostra vita”.

“Grande successo, ottime perfomance ma c’è stato un personaggio tra quelli proposti che proprio sentivi lontano da te?”

“Certo, è capitato, e ho quasi discusso quando mi proponevano interpretazioni particolari tipo quella di Giuliano Sangiorgi, che trovavo inarrivabile in quanto lui è un contorsionista della voce, un pirotecnico… quel registro lo trovavo quando cantavo Jeff Buckley ma era da tanto che non bazzicavo quei quartieri vocali e pensavo non sarebbe uscito niente di buono. Invece sono riuscito ad acciuffare quella vocalità, così rock, che magari ai più era sconosciuta ma che avevo ancora dentro di me. Vinsi pure la puntata, insomma, fu un’enorme soddisfazione”.

Foto di Maurizio Montani

“Vorrei ora soffermarmi su un progetto molto particolare che mi incuriosisce molto, quello dedicato a Padre Pio, che io sento vicino perché mia moglie è nativa di San Giovanni Rotondo. Come è nata l’idea di fare un musical su una figura così rilevante nel nostro secolo? Ho letto che in qualche modo tu e tua moglie vi sentite protetti da lui, vero?”

“In quel periodo ero impegnatissimo con “Tosca – Amore disperato”, un’opera di Lucio Dalla, con lui avevo scritto pure dei brani poi finiti in un film; se ci penso ero in una fase di apoteosi creativa e questa idea di un musical su Padre Pio venne dal mio discografico dell’epoca che voleva appunto in qualche modo replicare l’intento della “Tosca”. Non fu facile, mi arrovellai per un po’ perché mia madre era molto devota e sapevo quanto Padre Pio fosse importante per i suoi fedeli. C’era stato un periodo, negli anni ’80 soprattutto, in cui ci fu un grande dibattito sulla sua persona mentre adesso mi pare la sua figura sia universalmente accettata e riconosciuta, ma appunto nell’accostarmi avevo molti dubbi, proprio per la sua grande statura morale. Non volevo in alcun modo che si pensasse che volevamo lucrare su una figura così preziosa, io sentivo il bisogno di farne emergere la grande umanità. Sono andato da Padre Luciano Lotti, uno studioso, il più grande custode della sua storiografia e all’inizio non ne voleva proprio sapere. Quando finalmente lo incontrammo, ricordo nitidamente che ci trattò male, dopotutto mi disse che ogni giorno riceveva proposte anche di dubbio valore. Insistetti tanto, puntai i piedi anch’io dicendogli che avevo 4 brani e un video di presentazione, che ci avevo lavorato dietro sei mesi e che doveva almeno darmi un ascolto prima di dirmi di no. Lui infine si convinse, ascoltò i brani e si commosse, dicendomi che era la cosa più bella e più vera che aveva sentito su di lui e ci aprì definitivamente le porte. Dopo due mesi eravamo a un tavolo rotondo e riuscimmo a realizzare il lavoro, dove misi tutto me stesso (il 90% dei testi è mio, la musica al 50%), per un’opera che era un po’ il corrispettivo di “Notre Dame de Paris”, con musica mediterranea, la taranta, la Campania di mezzo: il pubblico che venne a vederci al termine dello spettacolo era visibilmente estasiato. Nella prima versione ero solo direttore artistico poi invece proprio il protagonista sul palco di quest’opera, intitolata “Actor Dei”. Peccato poi la brutta disavventura con il produttore, cose che nel nostro mondo purtroppo accadono ma non posso scordare quelle forti emozioni che mi porto nel cuore. Inoltre San Giovanni Rotondo è diventata come una seconda casa: i sangiovannesi ti accolgono, all’inizio magari possono sembrare burberi, com’era pure Padre Pio in fondo, ma poi quando capiscono chi sei diventi uno della famiglia. Ho tuttora legami con la città, con il Comune e con i frati (come Fra Francesco), mi sento quasi un cittadino onorario! Il rapporto con il Santo è ormai stretto, ti devi affidare a questa figura, non è una cosa cerebrale, come può essere con altri aspetti della religione: con Padre Pio ti affidi e ti succedono cose uniche. Nel mio caso è successo un episodio molto forte mentre stavo con mia moglie, un segno inequivocabile, come una carezza che arriva dall’alto. Mi sono convinto che era un segno, una sorta di miracolo personale e da allora ho sentito la sua presenza vicina ogni volta che chiedevo che ci fosse, perché per me era importante”.

“Tornando invece più indietro nel tempo, hai incontrato difficoltà in campo artistico a proporti dopo l’esperienza con I Ragazzi Italiani? C’era una sorta di pregiudizio nei confronti di chi usciva da quella che era a tutti gli effetti la prima boy band nostrana?”

“Tantissime difficoltà, altrochè! Avevamo una “linea rossa”, una schiera di persone allineate ma all’epoca in fondo non temevamo nessuno perché eravamo in una situazione di business davvero importante, con una corte intorno fatta di discografici, bodyguard, manager; noi eravamo l’epicentro del vulcano ma la percezione della realtà era difficile da cogliere, tenendo conto come fossimo giovani all’epoca, dai 22 ai 24/25 anni suppergiù. Questa cosa è stata fortissima, viverla all’apice del successo ma anche e soprattutto direi dopo, perché da un momento all’altro questo mondo dorato sparisce, si polverizza perché non sei più primo in classifica e in pratica rimani solo. La ricostruzione per me è stata durissima da affrontare e sostenere, ancora oggi pago una sorta di pregiudizio sul gruppo: sai, per molti noi siamo quelli a cui le ragazzine lanciavano le mutandine e i ragazzi le monetine (anche se la loro era un’invidia giocosa se vogliamo!). Ho dovuto sdoganarmi attraverso il teatro, dove mi buttai a capofitto e pian piano la gente ha capito che c’era della sostanza. Mi viene in mente un episodio con Gianni Morandi dopo che mi vide impegnato nella “Tosca”, mi disse testuali parole: “Attilio… io ti credevo un coglione, invece sei veramente bravissimo, complimenti!”. Insomma, finalmente la gente iniziò a vedere di me un qualcos’altro, come successo poi anche a “Tale e Quale Show”. Negli anni aver puntato sul talento ha premiato ma all’inizio non è stato facile, perché così facendo ci sono dei periodi in cui si va avanti “mangiando pane e cipolla” come si dice a Roma, come quando ho fatto dischi di nicchia con musicisti che per stima e amicizia lavoravano con me, ma era evidente che dopo I Ragazzi Italiani non ero più nell’epicentro della discografia. Mi ero defilato da un mondo che sa essere anche spietato, ancora oggi è una lotta continua, visto che in pratica faccio un disco acustico nel periodo in cui vanno forte le grosse produzioni. Io però mi metto a testuggine per tirare fuori l’essenza di quello che riesco a dire e a dare, è una sorta di vocazione la mia. Questo è ciò che voglio fare, ora sono solo, la responsabilità è solo mia, non siamo più in cinque… ho martellato come un pazzo sulle mie cose e dopo vent’anni comincia a premiarmi questa mia poliedricità come dici tu”.

“Alla fine conta quello che si fa sul campo, le canzoni, sono sempre loro a fare la differenza… certo poi c’è bisogno che la gente ti dia una possibilità”

“Sono conscio che il mio non sia un disco facile, non è super pop, le armonie sono complicate, un po’ jazz, con Franco ho dovuto imparare a suonare meglio per ottenere il linguaggio che volevamo. E’ un lavoro se vogliamo di ricerca, più da addetti ai lavori forse ma io mi sento autentico in queste canzoni e riprendendole in mano sono un po’ come il legno, vivono in una forma diversa. La mia è una ricerca da musicista un po’ ambiziosa: l’ho detto, quando ho un obiettivo mi ci metto a lavorare in maniera ossessiva”.

Foto di Maurizio Montani

“L’esperienza con I Ragazzi Italiani vista in lontananza mi pare ti abbia lasciato ottimi ricordi e anche rivedervi tutti insieme (più o meno, perché mancava Manolo Bernardo) nella trasmissione “90 special” è stato bello, sembrava una reunion tra amici, senza velleità particolari ma ancora in sintonia”

“E’ così, perché di fatto siamo rimasti amici; certo, ci si vede magari una volta all’anno ma sai, le nostre vite sono complicate, un po’ come per tutti quelli della nostra generazione e non è semplice ritrovarsi più spesso. Quella fu un’occasione particolare, Nicola Savino mi ha un po’ stalkerizzato, lo ammetto, ci voleva a tutti i costi. Io gli dicevo che i ragazzi non ne vogliono sapere anche se ce lo chiedono tutti, però a un certo punto mi ha convinto, e così gli dissi: “Senti, io ci sto, posso fare una cosa per te: darti i numeri di tutti e te la vedi tu!”. Alla fine ci rendemmo conto che era un programma adatto, andammo in quattro (solo Manolo non volle partecipare per motivi personali) e ci divertimmo pure. Prendemmo la cosa con entusiasmo, fu una rimpatriata e un vero tuffo nel passato. Anche Carlo Conti ci aveva chiesto più volte una partecipazione ma sentivamo che, proprio perché fu un’esperienza bella che aveva segnato le nostre vite, non aveva senso andarci senza un vero progetto. Nel caso di “90 special” ce l’aveva, perché si trattava di un omaggio ed era il contesto adatto per fare un regalo al nostro pubblico che non ci ha mai dimenticato, e difatti si è subito riscatenato! Facemmo un’esibizione acustica di “Vero amore”, il tutto in un clima di grande serenità. Però è stata una cosa finita lì perché abbiamo vite diverse, c’è chi un po’ si è ritirato non volendo più avere a che fare con questo mondo… io sono l’unico “pirata” che ha continuato nel bene e nel male ad avventurarvisi dentro”.

“Forse le tue motivazioni erano diverse, più forti. Vuoi dimostrare di poter essere ancora protagonista in questo campo?”

“Amo fare questo lavoro tantissimo, e quando me ne danno l’opportunità lo faccio al massimo, non mi risparmio mai. E’ un po’ il mio “campo da calcio”, dove mi piace giocare fino all’ultimo sangue, è un istinto grande al quale non so rinunciare”.

“L’intervista sta per giungere al termine ma non posso non chiederti un ricordo su un grandissimo della musica italiana come Lucio Dalla. Cosa ha rappresentato per te lavorare con lui? Cosa ti ha lasciato a livello professionale e soprattutto umano?”

Lucio è stato un piccolo gigante, l’incontro della vita. Venivo dalla fine della storia dei Ragazzi Italiani e dovevo rinascere artisticamente. Quel provino l’avevo studiato come un pazzo, per me Dalla erano le “dieci tavole di Mosè della musica”, è stato l’unico a spaziare tra vari mondi sonori, a differenza ad esempio di un Baglioni o di un Renato Zero che hanno esplorato meno territori. Lui ha fatto dischi con un poeta, ha scritto “Caruso” così come “Attenti al lupo”, era discografico, produttore, talent scout, giocoliere, jazzista. Incontrarlo è stato meraviglioso, Lucio era un “folle”, genio e sgregolatezza, e per tre anni è stato innamoratissimo di questa “Tosca”. Era sempre in giro con noi, ci ospitava a casa sua, registravamo in barca: in quegli anni siamo stati la vita di Lucio nei suoi andirivieni. E’ stato per me un master di vita in musica essere lì al suo fianco, vedere come cantava, lavorava in studio, com’era capace di neutralizzare gerarchie e classi sociali, così che a casa sua trovavi il giovane deejay che parlava col pittore, l’ex zar di Russia col lirico in pensione, il principe con il pescatore: era un circense della vita in una maniera pazzesca. Anche la leggerezza con cui girava le difficoltà e le faceva diventare divertenti, le metafore che usava… un incontro “magico – apostolico” nella musica che mi ha lasciato in eredità un insegnamento inestimabile. Poi scrivere tre brani assieme, a trent’anni poter firmare un brano con un mostro sacro come Dalla fu un’emozione incredibile, non penso sia una cosa capitata a molti quella di incontrarlo e suonarci assieme, se quello era uno dei tuoi sogni. In più, al di là dell’aspetto artistico, ho avuto la fortuna di essergli amico. Anche finita la splendida avventura della “Tosca”, lui comunque ti chiamava quelle 2/3 volte all’anno: “Ehi, Atti, come te la passi? Cazzo stai facendo?”, con la sua tipica parlata, anche solo per il bisogno di condividere qualcosa con le persone con cui si era trovato bene a collaborare. Insomma, è stato folgorante conoscerlo da vicino, nel bene e nel male perché quando voleva essere pungente aveva mille armi per poterlo fare; ti metteva in crisi, in difficoltà, però sono quelle cose che alla fine ti facevano migliorare e cambiare la visuale anche sulla durezza e sull’asprezza che talvolta il tuo lavoro porta con se’ lungo il cammino”.

“Una testimonianza davvero preziosa la tua, e sono convinto che Lucio sarebbe orgoglioso di te. Un grosso in bocca al lupo per questo progetto e per il prosieguo della tua carriera”

“Crepi il lupo Gianni, grazie mille a te, è bello che ci siano persone che in modo appassionato dedicano tempo e spazio anche a chi propone un certo tipo di musica, lontana dalle mode del momento”.

Intervista a Eleonora Bordonaro,tra le cantautrici più interessanti emerse nel 2020 con il suo album “Moviti ferma”

L’artista siciliana Eleonora Bordonaro si sta imponendo come una delle più talentuose e versatili cantautrici impegnate in una proposta che, partendo da un apparato folk si sta via via contaminando brillantemente lungo il percorso.

La sua ultima prova discografica “Moviti ferma” le è valsa quest’anno l’entrata tra i cinque finalisti in lizza per le prestigiose Targhe Tenco nella categoria “Miglior album in dialetto”.

Un riconoscimento certamente importante a coronamento di una carriera che, muovendosi su più fronti, ne sta mettendo in luce l’indubbio valore.

La cantautrice siciliana Eleonora Bordonaro in un intenso primo piano – credit foto: Julia Martins Miranda

Da tempo avevo intenzione di dedicarle il giusto spazio nel mio blog e finalmente l’occasione è arrivata. Durante la nostra telefonata, Eleonora ha tratteggiato al meglio la sua vicenda umana e artistica, aprendosi su tante tematiche al di là di un discorso prettamente musicale.

“Ciao Eleonora, scusa se ti ho fatto attendere, come stai?”

“Ciao Gianni, bene grazie. Figurati, ero qui con degli amici percussionisti di “Sambazita”, una scuola di percussioni brasiliane, potrei mandarti una foto di loro che provano, per ricrearti l’atmosfera in cui mi trovo!”

“Ottimo, ancora meglio, è una bella colonna sonora per la nostra chiacchierata…”

“Non hanno ancora cominciato, quando lo faranno, succederà l’inferno!”.

“Inizio io allora parlandoti di questo tuo disco, Moviti ferma”, uscito ormai diversi mesi fa e che ad ogni ascolto è in grado di regalare sorprese ed emozioni. Volevo chiederti da dove è partita la scintilla che ti ha fatto approdare a questo lavoro, che è ricchissimo di suggestioni, di immagini, oltre che di significative collaborazioni… Quando hai capito che volevi realizzare un album “proprio così”?”

“La scintilla è partita dalla ricerca di quella sensazione di disperata necessità di creare arte, di vivere con fantasia l’arte. Nel senso che lavoro da anni nel mondo dello spettacolo, sotto tanti punti di vista, e mi è capitato di vedere che in situazioni istituzionali o relativamente comode, la spinta alla necessità artistica in qualche modo si perde, diventa un’altra cosa, un po’ si annacqua. Quindi dentro di me sentivo montare questa specie di disagio e cercavo di capire perché, finchè mi è stato più chiaro capire cos’era che mi ha fatto venire questa spinta e in pratica lo riconducevo all’ambiente che frequentavo, l’aria che c’era a Catania in quel periodo”.

“Nonostante la Sicilia e proprio Catania da dove vieni sia un ambiente molto ricettivo per l’arte rispetto ad altre zone d’Italia…”

“Molto ricettivo, sicuramente, ma io poi sentii l’esigenza di fare altre esperienze. Me ne sono andata quindi vent’anni fa e ho girato varie città in Italia, finché mi è venuta una sorta di nostalgia per la leggerezza con cui nella mia città creavamo vicende artistiche senza accorgersi neanche fino in fondo forse di quello che stavamo facendo… eppure stava accadendo!

Dunque quello che mi mancava in principio e che mi aveva messo in crisi era proprio quella forza istintiva, selvaggia, senza aver bisogno necessariamente di condizioni migliori per creare. Facevamo uno spettacolo senza pressioni ma solo perché “si deve fare” e se non ci saranno i soldi per i costumi li faremo lo stesso, e se non ci sono le luci, troveremo le soluzioni migliori alla bisogna, capisci che intendo? Cercavo quella cosa là, così immediata e così “violenta” che sicuramente colpisce il pubblico, che altrimenti è “addormentato” perché non vede una vera necessità nell’artista: questa cosa non lo potevo sopportare più, per come sono fatta io, preferisco di gran lunga, anzi, lo ritengo vitale, mantenere quell’approccio, quel modo magari scombinato, fantasioso, quelle esibizioni in situazioni particolari, ad esempio il cantare dal balcone della pescheria (questo da molto prima del covid, che per fortuna nemmeno sapevamo cosa fosse…).

L’idea era del tipo: “vediamo cosa succede, facciamolo e assistiamo alle reazioni”, quelle cose insomma istintive che vanno oltre la zona di conforto dove ci si sente protetti… E’ qui che io mi ci trovo, sembra un paradosso ma mi sento molto più comoda ad affrontare una cosa che mi mette a rischio, anziché trovarmi in un posto in cui la gente si aspetta delle cose e io gliele do’ in cambio in modo preciso; se devo affrontare un momento di emergenza in cui mi ritrovo sul palco da sola con la mia voce, per me va benissimo, perché quella cosa è nel mio “campo di battaglia” in cui io posso giocare e mi trovo strutturata in tal senso, più che in una situazione patinata, istituzionale”.

“Questa presumo sia prima di tutto una tua componente caratteriale, al di là dell’aspetto musicale: il saper gestire le situazioni meno previste…”

“Sì, mi ci trovo a meraviglia in simili contesti, poi ovviamente anche a me viene l’ansia, sono una perfezionista maniacale in altri aspetti del lavoro, stresso i musicisti, il booklet deve essere impeccabile, le foto pure: come a dire, c’è anche tutto l’altro versante da considerare e capisco che l’arte tenga conto di altro ma non deve mancare la parte istintiva, la “scintilla” appunto da cui far partire le cose”.

Il suggestivo video di “Moviti ferma”, diretto da Giovanni Tomaselli

“Ecco, Eleonora, una cosa che mi ha colpito leggendo il libretto (che in effetti è molto curato, con tutte le note, le traduzioni dei testi per chi come il sottoscritto non è siciliano) è che tu parli di collettività, un concetto che ho riscontrato anche in altri artisti di recente, quel bisogno di ricreare una comunità dove l’individuo possa esprimersi al meglio e che ci sia come una sorta di “mutuo aiuto”.

Anche tu fai riferimento a questo e la cosa si riflette nel tuo disco dove hai raccolto tanti elementi di spicco della musica siciliana ma non solo. E’ un bisogno che sentivi tu, ti è venuto naturale un approccio al disco di tipo “comunitario”, di gruppo, è un modo con cui tu concepisci la tua arte?”

“Dunque la mia arte io la concepisco come “collettiva” perché è stata coltivata nella collettività. Vengo da un’esperienza di teatro di strada che per me è stata importante, con un gruppo che si chiama Batarnù: ognuno con delle proprie peculiarità ma eravamo un gruppo ed eravamo “potenti”, scapestrati, fantasiosi, uniti e soprattutto istintivi, e quello è la culla della creatività, senza unione e scambio continuo la creatività non cresce.

E’ vero che il disco racconta storie individuabili e classificabili all’interno di un racconto che parla di una donna della mia età del Sud Italia, lo puoi facilmente ricondurre a una persona fisica, capisci che ci sono idee femminili e temi come la maternità, la sostenibilità, l’ecologia; ci sono una serie di argomenti che arrivano cioè da una persona singola, specifica, ma se tutti questi non sono sostenuti da una collettività non hanno nessun senso. E succede a maggiore ragione quando il tema è particolarmente delicato, quando ad esempio racconto della maternità, o della mancata maternità o del mancato desiderio di maternità e di che cosa vuol dire tutto questo, perché attorno a me ci sono tante persone che provano gli stessi sentimenti ma magari non hanno il coraggio di raccontarlo. Per quanto capisca che non sia facile parlare in una canzone di questo, ho voluto farlo, perché il tema sarà sì controverso da affrontare nella vita di tutti i giorni ma in fondo la creazione artistica ci viene in supporto e sublima tutto”.

“Il disco è molto apprezzabile e profondo nel suo complesso ma anche gli episodi presi singolarmente interessano molto, e prima facendo riferimento a “Ramu siccu” ripensandoci notavo che in quel caso hai utilizzato l’espediente poetico; il tema è bene a fuoco ma il testo assomiglia un po’ a una poesia”.

“Si, è vero ma in genere i miei testi non sono mai troppo espliciti, in questa canzone l’affidarmi a una metafora rende dolce un pensiero come che cosa pensate si possa fare con un pezzo di legno secco? Invece il testo nasconde tante cose e apre quegli spunti di riflessione cui accennavo prima”.

“Ramu siccu” è uno dei brani più rappresentativi del disco

“È molto evocativa in effetti questa immagine, poi in generale già il titolo dell’opera porta con se’ un’ambivalenza che è la stessa che emerge più volte tra i solchi del disco, e che possiamo associare in parte alla stessa Sicilia, una Regione che personalmente porto nel cuore, Terra piena di bellezza e di contraddizioni. Tu, pur non calcando la mano su certe situazioni e aspetti specifici sei riuscita ugualmente a trasmettere il senso di una Terra che vuole lottare e andare avanti, soprattutto raccontandocelo dal punto di vista femminile e lo hai fatto inoltre attingendo a diversi mondi musicali. Come hai coinvolto i vari ospiti in questo album? Sembrano proprio quelli “giusti” per far riversare nell’album le tante emozioni per un lavoro folk ma che presenta all’interno un’anima universale”.

“E’ stato come comporre un mosaico, ogni pezzettino aveva la sua enorme importanza e ha saputo colorare la relativa parte. Ogni mio brano comincia sostanzialmente dal testo, la musica di solito viene dopo, tranne che in un caso (che possiamo vedere come la classica eccezione che conferma la regola), il riff del giro di basso di “Moviti ferma”. Le parole vengono poi rivestite col giusto tono, l’andamento determina lo stile musicale che finisce quindi per rappresentare fedelmente il testo.

Ad esempio “Cunurtato”, che è una specie di reggae e in siciliano vuol dire coccolato, si dice di un bambino che viene cullato, e il reggae per me ha quell’andamento un po’ sensuale, dolce, che ti fa dormire ma ti tiene allo stesso tempo in attività, il reggae da sempre esercita molto fascino su di me”.

“Questo brano poi a primo ascolto mi colse proprio di sorpresa, per il suo stacco così evidente dagli altri che lo precedono. Penso sempre ci sia uno studio alla base di ogni scaletta, è così anche nel tuo caso?”

“Sì, è così, quella canzone si trova al posto giusto! Le sono molto legata, il testo vuole trasmettere un senso di conforto e quello te lo da’ il reggae, genere che ho ascoltato tanto, ci sono cresciuta ed è per me una naturale contaminazione che viene dai miei ascolti.  Come detto, le musiche variano a seconda dei temi trattati e delle atmosfere evocate dalle parole stesse. Nel già citato “Ramu siccu”, il versante musicale si adagia su una specie di elettronico trance rock molto vario, in cui gli arrangiamenti di Michele Musarra hanno aiutato molto a trasmettere proprio quello che avevo in mente e che già era connaturato in quegli episodi”.

Credit foto: La Flan

“A me ha colpito tanto anche il brano in cui hai coinvolto Agostino Tilotta. Ascolto molto indie rock e immagino che gli Uzeda a Catania siano un’istituzione, com’è stato lavorare con lui?”

“L’hai detto, lui è un personaggio enorme! Diciamo che per questo disco ho avuto due shock artistici se possiamo definirli così ma in fondo è proprio come mi sono sentita. Il primo è avvenuto per Cesare Basile (che è intervenuto suonando chitarra e percussioni in “Tridici maneri ri farisi munnu”, di cui ha anche curato l’arrangiamento), il secondo proprio per Agostino Tilotta.

Sai, sono stati due incontri che mi hanno anche aiutato a pormi in modo diverso, aprendo uno spiraglio su qualcosa che sono anch’io e che non sapevo di essere. In genere sono abbastanza guascona, non mi spaventa nulla, canto in tutte le tonalità e mi butto nelle cose, ma mi sono come “bloccata” quando ho incontrato quelli che sono anche dei miei miti! Ho dovuto ripensarmi e c’ho messo un po’ in effetti per ritrovarmi.

“Menza spogghia” è nata da un testo di Gaspare Balsamo (che introduce in modo suggestivo il brano), c’è lui che racconta una scena; avevamo dato il testo ad Agostino e Gaspare nel frattempo aveva inventato un pezzetto della melodia centrale. In pratica Agostino aveva solo quello, si è fatto lui il film della canzone, l’idea era di lavorare in studio tutti insieme per vedere cosa ne sarebbe uscito. Lui è arrivato, si è seduto con la sua chitarra acustica – Michele stava montando i microfoni – e si è messo a suonare, al ché mi sono ritrovata a piangere dall’emozione, credo proprio lui non se ne sia accorto e magari lo scoprirà soltanto adesso. Era del tipo “wow! Che mi sta succedendo?”. Quel giro di chitarra era così emozionante, se l’era inventato e costruito per me e per il mio disco, ed era già così “perfetto” per quella cosa che dovevamo raccontare. Anche il brano con Cesare è molto suggestivo e significativo, su una melodia di Puccio Castrogiovanni: sono così onorata che abbiano collaborato con me”.

“Mi sembra una figura molto importante fra gli altri anche Puccio Castrogiovanni, no?”

“Certamente, lui si occupa della direzione artistica, lavoriamo insieme e siamo molto affiatati. E’ sempre così visionario e pratico insieme, ha delle visioni e le mette in pratica, letteralmente; io ho intuizioni, illuminazioni ma sono anche autodistruttiva, dico potremmo fare quella cosa là e un attimo dopo si però verrà malissimo, sarà un fallimento, e lui invece tranquillo mi risponde: ma no, prendiamolo e iniziamo a lavorarci e poi finalmente vediamo che riscontro hanno nella realtà. E’ un po’ il mio contraltare artistico”.

“Tornando alla scaletta, e ribadendo quanto sia “magico” per me un pezzo come “Tridici maneri ri farisi munnu” (scritto dal poeta Biagio Guerrera), noto come siano ben bilanciati momenti in cui l’aria si fa più greve, quando racconti determinate situazioni, e altri in cui pervade un maggior senso di leggerezza: direi che i due poli ci stanno benissimo nell’album. Mi viene in mente ad esempio un brano come “Picchiu pacchiu”, una canzone deliziosa che segue un certo filone e mostra un’altra faccia rispetto a quei pezzi più intimi e chiaroscurali. Cosa mi puoi raccontare in merito?”

“Picchiu pacchiu” rappresenta la mia parte teatrale, ed è nata da un testo geniale di Carmelo Chiaramonte, che è uno chef. La mia idea alla base era di raccontare un mondo riferimento, scandagliando quel particolare humus creativo che vedevo attorno a me in questo momento, in questi anni a Catania, coinvolgendo quelle persone la cui creatività sentivo simile alla mia. Volevo assolutamente scambiare delle cose con loro: se ci pensi i vari Giovanni Calcagno, Marinella Fiume, sono tutte personalità pazzesche!

A ognuno avevo chiesto di interpretare un tema, a Carmelo nella fattispecie una ricetta, ma lui è andato molto oltre, avendomi addirittura costruito attorno una storia dove sembro proprio io la protagonista, se si facesse un videoclip potrei benissimo essere io a interpretare la scena, anzi mi vedo con la vestaglia allacciata davanti che va al mercato e poi torna a casa e cucina: sono “dentro” a quella cosa, è come dicevo la mia parte teatrale che riemerge prepotente, come nel primo disco dove interpretavo un personaggio”.

“Questo brano mi ha colpito molto, perché a differenza di quelli dove sei meno diretta, qui invece attraverso le parole di Carmelo ti si disegna davanti la scena e lo stesso effetto me lo fa “A merca”: questo particolare aspetto del disco me lo rende vitale, in quanto non c’è un’unica direzione né a livello musicale né di atmosfera del pezzo o nei testi, cosicché ogni traccia acquista la sua importanza nel contesto generale.

Eppure, al di là di un racconto molto immediato, nell’introduzione di “A merca”, il cui ascolto è appunto lineare, tu hai dato un significato molto importante: l’aver coraggio di osare fin da quando si è bambini. Anche qui ricorri alla metafora affidandoti a un ricordo preciso?”

“Qualche tempo fa avevo assistito a una di quelle short talks, delle brevi conferenze a tema scientifico, nella quale una donna ricordava di essere coraggiose piuttosto che perfette, e io l’ho trovata una frase illuminante, ho ricostruito la mia vita, ricordando un episodio a cui avevo pensato ripetutamente nel corso di questi venti anni. Avevo vissuto sulla mia pelle quella cosa, capivo a che si riferisse. La paura delle sfide era un tema ancora attuale, era “vero” ma perché? La risposta è che il mio ideale inculcato di donna è “essere perfetta”, perchè altrimenti subisci delle implicazioni, estremizzando sei portata a pensare che se non rispondi a certi canoni ti vogliano meno bene, sei meno amata, sei dileggiata, una serie di stati d’animo che i miei amici maschi non hanno mai provato”.

“Mah, forse in misura minore ma credo riguardi anche i maschi…”

“Non so, probabilmente aprirò dei dibattiti quando presenterò spero a breve le mie canzoni sui palchi, magari le mie saranno tesi se vuoi semplici o bizzarre ma penso davvero che le donne sono cresciute con l’idea di essere perfette, mentre gli uomini sono “addestrati” per essere coraggiosi. Poi gente come Puccio o Biagio Guerrera, due compagni “di cuore”, persone molto vicine (quindi parlo di un’umanità non troppo lontana da me), sostengono che questa tesi sia applicabile in genere alle persone e non solo alle donne”.

“Sinceramente lo credo anch’io, specie nella società attuale. Vent’anni fa magari no ma al giorno d’oggi i quindicenni, parlo dei maschi, sentono eccome il peso di essere perfetti. Ho insegnato anni fa in una classe di adolescenti e già si vedeva un cambiamento culturale, quindi concordo con i tuoi compagni musicali”

“Forse perché anche tu tendenzialmente sei un artista, e quindi ci può essere una sensibilità diversa, invece nel maschio tipico questa cosa non l’ho mai riscontrata. Proprio il protagonista del racconto di “A merca” in fondo viene incontro alla mia tesi. Lui è un mio vecchio amico, ora fa l’avvocato, e dice che con quel brano l’ho inchiodato alla sua vera natura, si è rivisto in ciò che ho scritto e che volevo trasmettere. Dice anzi che le sfide lo accendono, e parole sue: “io vivo solo se sono coraggioso”. Non ne avevamo più parlato di quell’episodio ma è stato un attimo rivivere quei momenti, ci siamo subito capito, sapevamo entrambi a cosa si riferisse quella canzone”

Io con la mia copia di “Moviti ferma”, il bellissimo album di Eleonora Bordonaro

“Parlami ora dell’importanza del dialetto siciliano nelle tue canzoni, che a mio avviso dona autenticità e fascino al tutto. Come ti sei avvicinata al suo utilizzo in ambito artistico?”

“Una cosa che mi contraddistingue e che ho sempre voluto portare avanti è con quale dialetto esprimermi? e la risposta che mi sono data è che nelle mie canzoni io avrei utilizzato il siciliano “vero” e di questo, lo ammetto, ne vado abbastanza fiera. La mia attenzione infatti è per il siciliano parlato normalmente, nella vita di tutti i giorni, non un siciliano “italianizzato”, edulcorato; magari può essere un limite ma se devo farlo per amore della lingua, non ha senso che io volendola diffondere lo faccia in modo sbagliato”

“Questo è un punto di contatto che riscontro in altri artisti che si esprimono in dialetto, sono d’accordo che dev’essere come dici tu: verace, autentico, se vogliamo tramandare qualcosa di reale”

“Assolutamente, quello che propongo è il dialetto che parlava mia nonna, è un dialetto degli anni ‘60 e ’70, mi interessa trasmettere qualcosa che ci riguardi più da vicino, senza timore di guardare al passato”.

“Nell’album fai ricorso anche a un dialetto ancora più particolare, il Gallo Italico, in un brano come “I dijevu di Vurchean”,che assieme a “Omu a mari” (dove intervengono i Lautari, nda) rappresenta un’escursione letteraria. Non conoscevo questo dialetto, è così rilevante nella tua zone?”

“In realtà non è preminente affatto nella mia zona d’origine, ma nelle mie “perversioni” sì… è parlato solo da una piccola comunità di 3000 abitanti, San Fratello, e deriva da quei soldati che ai tempi della dominazione normanna arrivarono qui dal Nord Italia, quindi semplificando è indicato come il Lombardo di Sicilia”.

“Un po’ come il Cimbro dalle mie parti, che ha ascendenze totalmente diverse rispetto al veneto”

“Sì, sono quelle storie che mi affascinano enormemente, questa gente ha mantenuto inalterata nei secoli la propria lingua, si capiscono solo tra loro, a 15 km da lì non li comprende più nessuno e per me questa cosa è pazzesca: come si fa a essere così contaminati e allo stesso tempo così isolati e caparbi nel mantenere una propria identità? E poi è una lingua veramente poetica, possiede un suono speciale del quale i sanfratellani hanno sempre sottovalutato la potenzialità. Una lingua in cui le note si appoggiano sulle vocali, e ciò la rende musicale, in fondo anche l’inglese è così e di questo “limite” ne ha fatto la sua forza espressiva”.

“A livello musicale quel brano è altrettanto intrigante, visto che riprende la melodia di un classico del repertorio di Bahia del musicista Paulinho Do Reco, in questo caso come ti è venuta la suggestione?”

“Beh, un altro dei miei amori è per la musica brasiliana, che è in qualche modo la voce del popolo ma parla al cielo, ha con sé una visione trascendente, la versione di Bahia poi si usa nel Carnevale e parla degli Orisha, della divinità, ma racconta allo stesso modo la bellezza della razza nera, degli afro discendenti brasiliani e del loro orgoglio”.

“E quindi hai associato queste caratteristiche alla comunità di San Fratello che si esprime ancora in Gallo Italico, è corretto fare un parallelismo in questo senso?”

“Esattamente, quel testo parlava dei ricchi, che hanno benefici anche se vedono i poveri soffrire, ma si dice che arriveranno prima o poi i diavoli dall’Isola di Vulcano e… infine li prenderanno a mazzate! Che poi quella cittadina si trova di fronte all’isola di Vulcano, nelle Eolie, e chissà loro anticamente cosa immaginavano, che vedevano al di là del mare”.

“Veniamo ora a un altro aspetto, quello della vocalità, che soprattutto nel tuo genere di riferimento che, per quanto sia difficile definirlo, potremmo inquadrare nella world music, diviene fondamentale. La voce infatti diventa essa stessa strumento nei dischi di questa matrice, e l’interprete non soltanto deve mettere la fisicità nei live ma proprio sfruttare al massimo la forza espressiva, l’intonazione: quando hai scoperto che la tua voce sarebbe diventata un mezzo, uno strumento? Quando hai compreso di possedere un talento?”

“In realtà molto presto, direi da quando avevo 2 anni e mi veniva naturale cantare, tanto che dividevo il mondo in chi conosce le parole di una canzone e chi no, cioè quella era per me la discriminante per chi volesse cantare o meno. L’unico ostacolo nel mio pensiero da bambina poteva essere quello: il non conoscere le parole. A 11/12 anni mi hanno detto “tu hai una voce” ma non ne ero ancora del tutto consapevole, anche se poi ricostruendo la mia storia e andando a ritroso nel tempo, è vero che durante le recite facevano cantare sempre me, da sola, non in coro e la canzone la cantavo tutta dall’inizio alla fine ma non sapevo certo di avere un particolare talento rispetto ad altri. Solo molto più tardi ho capito che avevo una peculiarità, ma non ho studiato musica (mi sono laureata in giurisprudenza, per dire), il fatto di fare qualcosa di importante in questo campo lo escludevo proprio dalla mia vita”.

“Però immagino tu avessi già un bagaglio musicale, una tua gamma di ascolti preferiti, prima mi parlavi della passione per il reggae o per la musica brasiliana”

“Sì, se per quello cantavo già in alcuni gruppi e mi cimentavo in alcuni spettacoli, mi esibivo nelle feste di piazza ma nulla che potesse farmi presupporre un mio personale percorso artistico”.

Credit foto: La Flan

“Non pensavi quindi che vent’anni dopo ti saresti trovata finalista al Premio Tenco e intervistata da Gianni Gardon?” (scherzo)

“No, in effetti no, ah ah. Davvero, il fatto di scrivere lo avevo escluso, pensavo che al massimo sarei stata un’interprete di canzoni che esistevano già ma anche come cantante in quei primi tentativi non avevo un genere preciso: cantavo di tutto, da Aretha Franklin agli Skunk Anansie, riuscivo a interpretare perfettamente Tracy Chapman, una dei miei grandi amori! Mi ricordo un mio regalo di Natale di nonna: mi diedi i soldi e andai al negozio a comprarmi la cassetta… disse che non era un regalo “utile” ma era una cosa preziosa che mi faceva stare bene! All’epoca la musica iniziava a insinuarsi sotto pelle, tornavo da scuola, mia mamma magari era ancora al lavoro e io mentre riscaldavo il pasto cantavo e cantavo, cercando le canzoni più difficili e pensavo in un primo momento di non farcela, finché invece poi riuscivo dopo qualche tentativo a riprodurre tutto. Poi è arrivata Rachelle Ferrell e lì è cambiato tutto, la voce diventava la vera protagonista: rappresentava la piena libertà, secondo ovviamente le possibilità anatomiche di ognuno”.

“Quindi a un certo punto i tuoi modelli di ispirazione hanno iniziato a delinearsi, quelli che potevano rispecchiare la tua musicalità. Quando è avvenuto il tuo passaggio in territori world? Quando ti sei specializzata in certi ambiti, che poi ti hanno condotto verso una strada più personale?”

“Mi sono specializzata, o meglio diciamo che sono entrata direttamente in contatto con la musica world nell’Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, lì davvero ho scoperto quanto mi venisse naturale cantare in siciliano, senza con questo dover necessariamente seguire gli stilemi tramandati e fatti propri da Rosa Balistreri, la cui musica è stata un privilegio ma allo stesso tempo un limite per chi si affacciava come me alla musica cantata in dialetto. Non avendo molti riferimenti culturali in tal senso, se non quello, praticamente da noi tutti quelli che si avvicinano a questo mondo cercano di emularne la voce e il particolare cantato, ma Rosa Balistreri era autentica e ha cercato e si è costruito il suo modo di cantare perché poteva essere solo quello, l’unico che potesse rappresentarla nella sua sofferenza: aveva quell’emissione, quella carica, quella potenzialità, ruvidità, brillantezza, tutte componenti importanti che lei trasmetteva in maniera spontanea. Le stesse peculiarità esercitate pari pari da noi donne di quest’epoca cresciute in un mondo “borghese” non rendono bene. Anzi, volendo riproporne a forza lo stile, diventa una mera imitazione e tutto ciò lo considero francamente ridicolo”.

“E’ una cosa che ho notato anche in altre Regioni d’Italia, come ad esempio in Puglia, Terra d’origine di mia moglie; anche lì si è in presenza di una vasta tradizione culturale che ricorre all’uso dei vari dialetti ma da parte dei nuovi interpreti si nota un’esigenza quasi di trovare una propria chiave personale a livello meramente interpretativo, senza scimmiottare i grandi del passato, pur rifacendosi inevitabilmente alla tradizione (sennò nemmeno si chiamerebbe “musica popolare”). Credo sia opportuno, e lo dico da amante delle canzoni in dialetto, che ognuno trovi una strada, contaminando la propria musica come hai fatto tu in questo disco”

“Grazie delle tue parole, nel mio caso ho lavorato anche sulla pronuncia, sull’enunciazione di certe parole, poiché in genere la pronuncia siciliana è spesso cupa, gutturale, intensa ma molto chiusa. Io reputo sia importante assecondare l’intensità dell’emissione della parola in base al suo significato. Forzare una pronuncia, calcandola, per assomigliare a qualcos’altro, per me non era una cosa divertente. Così, se tu ascolti una canzone come “Picchiu pacchiu, intono un siciliano che sembra brasiliano, alle parole do’ un suono più leggero, mai forzato. Almeno speravo di fare questo, non so se in effetti ci sono riuscita”

“Beh, io non sono propriamente di madrelingua ma sento una vocalità per nulla pesante, anzi, a tratti direi che è molto dolce”

“Sì, può essere dolce ma anche disperata, basta che si adatti al tema, all’atmosfera di un determinato momento del racconto, non è più insomma quella cosa gutturale, di petto, che sono poi le riproposizioni uguali allo stile tradizionale. Il mio è un tentativo che ho introdotto in questo album, quello vorrei fare e spero sia così in futuro”.

“Ecco, mi dai il gancio per un’ultima domanda, che vorrei riguardasse il futuro ma che inevitabilmente mai come in questo 2020 è prima di tutto condizionato dal presente. Questo progetto per forza di cosa è stato stoppato sul nascere e mi auguro di cuore che riuscirai a esibirti presto. Quanto ti manca il non aver portato in giro questo lavoro così ricco? Hai nel frattempo messo in circolo altre idee? Cosa vedi a livello artistico nella tua sfera di cristallo?

“Eh, un titolo più premonitore di “Moviti ferma” (che ricordiamo significa “resta ferma”) non avrei potuto trovarlo, visto che è uscito un giorno prima del lockdown generale! Scherzi a parte, dentro di me questo lavoro deve essere ancora vissuto, consumato ed elaborato fino in fondo, sento che ha ancora tanto da trasmettere agli altri e anche a me stessa. C’è un percorso da fare, devo poter raccogliere delle cose che al momento non posso ancora prevedere. Non sono stata molto creativa in questo periodo, ci sono delle fasi quando scrivo, quella dell’incubazione e della restituzione che passa attraverso la produzione, la realizzazione delle idee. Non sono ancora pronta a far ripartire il ciclo creativo ma in realtà c’è un’ idea che mi balena per la testa da quando ho accolto con entusiasmo un’altra grande suggestione di Puccio Castrogiovanni.

Credit foto: Paolo Benegiamo

Siamo in pratica a un bivio, avevamo due scelte dopo che l’album era arrivato in finale al Tenco: o aprirsi alla lingua italiana, qualcosa di più pop, oppure calcare la mano su questioni prettamente artistiche, e siamo concordi che la strada da intraprendere sia quella di osare di più, magari coltivando ancora maggiormente l’utilizzo del Gallo Italico”.

“Il Gallo Italico ha colpito tanto anche me, il brano in questione si stagliava veramente dal resto della scaletta e direi che dedicare un intero progetto a questa lingua così misteriosa e ricca di storia potrebbe rivelarsi una carta vincente e particolare”

“Per me è importante continuare a esplorare nuovi territori, nuove soluzioni, devo sentirmi viva quando scrivo e creo arte. Quando ascolto il Gallo Italico mi giungono sensazioni forti, variegate, e la sfida è poi quella di riuscire a riversarle intatte in un album. Spero che per l’ascoltatore sia emozionante, energico, toccante, e per questo vorrei che i miei lavori arrivassero a più persone possibili”.

“Il tuo disco doveva rimanere fermo, invece è arrivato eccome a parte della critica…”

“E’ vero ciò che dici, il disco si è mosso! Mentre io me ne stavo ferma a casa di mia madre, sull’Etna a guardare le montagne o facevo yoga, lui ha fatto il percorso che doveva fare ma adesso quella strada dobbiamo percorrerla insieme, io con il mio disco devo andare nei teatri e farlo suonare, renderlo vivo più che mai, perché la mia dimensione è il live. Ho fatto finora due dischi di cui sono felicissima e orgogliosa ma il palco è il luogo dove succedono un sacco di cose, dove mi esprimo al meglio, chiacchiero, sono protetta, è la parte di vita in cui sono sicura che non può succedermi niente, è come se avessi tutto sotto controllo, mentre evidentemente sul palco non hai proprio niente sotto controllo!”.

“Beh, è una cosa tua quella lì, ormai l’ho capito!”

“So che sembra assurdo infatti, ma proprio lì dove succede ogni imprevisto (si spegne una spia, manca la luce, mi scappa uno starnuto, insomma di tutto e di più), io mi sento come dire… “invincibile” e questo lo vedo perché prima di tutto mi diverto. A maggior ragione dopo che ho trovato la mia lingua, il siciliano, e con esso un contenuto, perché finchè cantavo le canzoni di Aretha o della Ferrell, sì, volevo bene alla mia voce e mi piaceva l’energia che ne veniva fuori, ma in fondo non ci credevo perché mi mancava un pezzo, e quel pezzo è il contenuto, la mia storia. Prima cantavo quelle stesse cose che avrebbero potuto essere interpretate da altri, adesso che finalmente sto trovando la mia strada e canto le mie cose, è tutta un’altra storia!”

“E io direi che di contenuti ne hai parecchi e sono contento di averli sentiti dalla tua voce”

“Grazie Gianni, a te”

Il consiglio mio, cari lettori, è quello di abbandonarsi alla musica di questa artista, così multiforme e affascinante, perché potrete rimanerne letteralmente conquistati.

Intervista a Sara Marini, finalista al Premio Tenco nella categoria Miglior Album in Dialetto con lo splendido “Torrendeadomo”

Sara Marini è indubbiamente una di quelle artiste in grado, con le sue canzoni, di trasmettere tanto della propria storia e del proprio io.

Ne ha dato una fragorosa conferma col suo recente lavoro,“Torrendeadomo”, in cui è riuscita a far emergere la sua anima, radicata tra l’Umbria e una Sardegna, quella amata dell’infanzia, pienamente ritrovata e qui a lungo omaggiata. Non solo, si tratta di un lavoro sì molto personale, intimo, in cui affiorano in superficie tematiche autobiografiche, ma al contempo contaminato e allestito in collaborazione con un gruppo di fidati musicisti e autori, tutti legati alla sua vicenda umana e artistica.

La Marini, senza sgomitare e armata del solo puro talento che emana placido dalla sua penna e dalle sue note, ma anche (soprattutto, verrebbe da aggiungere) dalla sua splendida voce, è riuscita a far issare il suo album fin quasi in cima in una rassegna prestigiosa come quella del Premio Tenco, che ogni anno assegna le Targhe ai migliori dischi dell’anno.

Lei, in gara tra le Opere in dialetto, è giunta tra i cinque finalisti, lasciando infine lo scettro a un gruppo che, senza timore di smentita, possiamo annoverare tra i mostri sacri della musica italiana, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, autori di un album onestamente notevole. Poco male, Sara si è fatta largo tra tantissimi lavori meritevoli provenienti dalle diverse aree geografiche italiane, evidenziando uno stile peculiare, pur tra tante differenti suggestioni e matrici. Canzoni indubbiamente popolari ma che, forse, più che appartenere alla vasta famiglia del folk, guardano ancora oltre, annoverandosi tra i solchi di un macro genere, che più che musicale, è associato a un’attitudine, a una visione, come quello della world music.

Foto di Gianfilippo Masserano

Avendo, da Giurato della Rassegna, segnalato il suo disco sin dalla prima turnazione, e poichè figura ormai tra i miei ascolti preferiti dell’ultimo periodo, avevo voglia di saperne di più dalle sue parole.

Contattata telefonicamente, Sara si è mostrata da subito disponibile e gentile, umile ma allo stesso tempo consapevole e sicura di ciò che vuole realizzare con la propria musica.

Ecco di seguito il resoconto nel dettaglio della nostra lunga chiacchierata.

“Ciao Sara, ci siamo già sentiti tramite i social, e mi fa molto piacere avere l’occasione di approfondire e sviscerare un po’ il tuo lavoro di artista, la tua esperienza. Intanto, inizio con l’arrogarmi il titolo di porta fortuna, visto che ti ho votata dall’inizio per le Targhe Tenco e sei arrivata tanto così dall’aggiudicartela, tra i cinque finalisti nella tua categoria!”

“Sì, è stato grandioso! Ti ringrazio davvero tanto”.

“Partirei proprio dal presente, e quindi riferendomi a quest’exploit del Tenco. Come l’hai vissuto, come lo stai vivendo e soprattutto cosa significa per te? Lo vedi come un riconoscimento del tuo lavoro?”

“Sì, diciamo che è stata una cosa inaspettata, in un momento abbastanza buio per noi artisti è stato un bel carburante, no? Anche perchè ero vicina veramente a dei mostri sacri della musica popolare italiana. Sono veramente soddisfatta di aver raggiunto questo obiettivo. Che posso dire? Non ci sono molte parole per spiegare, è una sensazione strana perchè veramente non me l’aspettavo. Per me questo disco è arrivato dall’anima, io alle cose grandi non ci penso mai, quindi quando arrivano è un po’ una doccia fredda, ma in questo caso, di quelle “rilassanti”, molto molto belle”.

“E’ un peccato che sia così difficile riuscire a suonare in giro: anche solo rimanendo alla dimensione del Premio Tenco, poteva essere un’ottima occasione magari quella di esibirsi lì, se non sul palco, su uno dei tanti spazi itineranti allestiti durante i giorni della Rassegna, non trovi?”

“Infatti, io praticamente non ho ancora avuto la possibilità di presentare come si deve il disco, perchè purtroppo una volta uscito, poi da lì a poco è esploso l’enorme problema legato al Covid. E’ stato molto strano, tanto che ci siamo fermati ancora prima di iniziare e solo adesso riprenderemo piano piano. Riparto da qui, dall’Umbria il 12 agosto con la prima presentazione che farò al Teatro Romano di Gubbio, in una location bellissima fra l’altro”.

“Quindi giochi in casa?”

“Proprio così e ne sono molto contenta, partire da qua è una cosa a cui tenevo… e poi sarò anche in Sardegna, perciò si può ben dire che parto dalle mie due origini. Meglio di così, per il momento che stiamo vivendo, non poteva andare. Il bisogno di lavorare c’è ma soprattutto la voglia di ripartire, di riconquistare un palco è proprio tanta, perchè per un musicista è come se ti mancasse l’aria”.

“E’ così per me anche da semplice spettatore, immagino che la sensazione sia ancora più forte per chi in prima persona è protagonista di uno spettacolo”

“Mi manca da spettatrice e anche da artista, in tutti i casi: io poi sono una che si alimenta molto con i concerti, mi piace molto la musica dal vivo, mi faccio attraversare da tante cose quando assisto a uno spettacolo, quindi mi manca quest’aspetto qua”.

“Tra l’altro un disco come il tuo dal vivo dovrebbe sprigionare davvero tanta emozione ed energia. Le canzoni già in studio sono notevoli, in ambito live come rendono?”

“C’è stato veramente un bellissimo lavoro in studio, perchè abbiamo cercato di dare un senso a tutto quello che abbiamo composto;  vale per tutte le persone che hanno composto i brani assieme a me, perchè io non sono autrice unica di tutti i pezzi, sono autrice della metà dei testi, mentre nell’altra metà mi sono avvalsa di collaborazioni importanti. Ho cercato di creare un sound corposo, multiforme”.

“Dal vivo avrai la band che ti ha accompagnato magnificamente in studio, il tuo pool di collaboratori?”

“Io cercherò di portare nel possibile tutta la band che ha partecipato alla realizzazione dell’album, però come tu sai non è così semplice suonare con la formazione al completo, specie in un periodo come questo. In questo caso, per la presentazione qui in Umbria saremo in sei, con special gust Monica Neri all’organetto, e saranno presenti pianoforti, chitarre… i musicisti con me sono per la maggior parte polistrumentisti, quindi in scena si sentiranno davvero tante sonorità vicine al disco”.

“Sarà un sound bello organico, mi stai dicendo?”

“Sì, assolutamente sì, perchè appunto siamo in sei e nel presentarlo la prima volta l’idea era quella di dare un’immagine fedele a quello che si ascolta sul disco, quel tipo di suono”.

“Un sound bellissimo, su cui torneremo più avanti. Adesso però andrei a monte, a quando ti eri messi alle prese con il seguito del tuo già interessante album d’esordio. Un album, quello nuovo da poco pubblicato, pieno di rimandi e di interventi sia in fase di scrittura (cito almeno tua zia Nicolina, che a mio avviso ha scritto, se mi posso sbilanciare, due tra le più belle canzoni del disco!). Ecco, tu avevi la percezione, mentre lo scrivevi, che stavi facendo un bel salto di qualità, un lavoro di un certo peso, al di là del piazzamento al Tenco? Ti rendevi conto di avere tra le mani un lavoro che ti identificava, partendo come fa da radici lontane (umbre, sarde)? Insomma, fai una sana autovalutazione! Che messaggio volevi mandare all’ascoltatore?”

“E’ una domanda difficile in realtà quella che mi stai facendo, perchè io sono una donna molto pratica, che non si crea molte aspettative nella vita, quindi questo disco è stato proprio un’esigenza mia e, ti dirò, sono stata nel cammino anche molto combattuta perchè mi capitava di pensare: “ma a chi interessa un lavoro autobiografico?”. La ricerca di queste mie radici è stata fortemente voluta per dare un senso alle problematiche che io ho vissuto tra questi due posti, perchè, in confidenza (visto che dicevi che vorresti sviscerare), i miei genitori si erano separati in un momento della mia vita molto particolare. Quindi mio padre era tornato in Sardegna, mia madre era rimasta in Umbria. Io con la Sardegna ho avuto un blackout di circa 10-15 anni in pratica”.

“Hai dovuto riscoprirla un po’?”

“Sì, perchè mi mancava proprio tanto. Fai conto che io per quindici anni stavo lì durante le estati per 3 o 4 mesi, poi andavo anche da sola, quindi la mia infanzia e in parte la mia adolescenza l’ho vissuta anche lì, nonostante io sia nata e abbia vissuto in Umbria. Sono state due Terre che allo stesso modo mi hanno accolto e che fanno parte di me. Io vivo queste due Regioni in modo molto viscerale per tanti aspetti. Per questo sono stata molto combattuta, perchè pensavo che non sarebbe interessato a nessuno una cosa del genere, così intima per certi versi, così mia. In realtà poi ho lasciato perdere questo pensiero e mi sono detta: “Senti, questa cosa, questo disco serve a me, per riscoprire certi luoghi e di conseguenza per riscoprirmi”. E’ un lavoro dove veramente ho raccontato attraverso la musica e le parole cosa significa per me appartenere a uno e a più luoghi, e diciamo che a un certo punto c’è stato un momento in cui mi sono fermata, pensando “cavoli, però, questi sono brani belli, i testi sono forti”. Mi sono infine autoconvinta che questi testi ce l’hanno una propria forza, ce l’hanno per me, per come li ho vissuti e per come li ho cercati. Ad esempio, hai nominato mia zia (lei non è una musicista, ma si diletta a scrivere anche in dialetto ed è davvero molto brava)… ecco, lei quando ha scritto il testo, io le avevo parlato di quelle sensazioni, delle emozioni che provavo ed è nata “Una rundine in sas aeras”.

“Un brano, come accennavo prima, a mio modo di vedere splendido, che apre il disco in maniera molto suggestiva e subito ti culla, sapendo creare quell’atmosfera così accogliente, nonostante il testo abbia poi anche altri significati. A seguire c’è poi “Terra rossa”, una sorta di tua rivendicazione, una canzone più “battuta” e che si avvicina a un certo tipo di folk, meno legato in apparenza alla Sardegna e all’Umbria”

“Lo hai ascoltato bene questo disco, mi fa piacere”.

“Certo, l’ho ascoltato benissimo e fa parte degli ascolti di queste ultime settimane, tanto che io analizzerei anche i singoli episodi, se non ci fosse il rischio di diventare un po’ pedante. Però se hai qualche considerazione da fare su una particolare canzone, sono qui pronto a raccogliere ogni cosa. Per esempio il tuo mi sembra un meticciato, molto vero, e sei riuscita a renderlo benissimo insieme a diversi collaboratori come ad esempio Claudia Fofi (con cui tu avevi già avuto ottime esperienze in tempi non sospetti). Tu come definiresti il tuo stile?”

“Tutti i musicisti che hanno collaborato con me a questo disco conoscono bene il mio percorso musicale, e mi hanno fatto riscoprire in alcuni casi delle emozioni nate da musiche adatte a me, a parte forse proprio “Terra rossa”, un brano di Claudia Fofi che avevo già cantato e che era stato inserito nel progetto “Le Core” ma che sentivo l’esigenza di inserire qui, perchè avevo la necessità di un pezzo che parlasse di una terra effettiva, rappresentando bene la Sardegna, la quale ha una parte di terra rossa e una parte di terra nera. Parla della voglia di non avere una sola radice insomma:“voglio essere senza radici”, canto a un certo punto”.

“Infatti, quella frase lì è molto forte, arriva diretta, e sembra quasi una contraddizione in termini anche se non lo è…”

“No, non lo è perchè è vero che sono radicata, ma di fatto sono radicata in due terre”.

“Ecco, il meticciato di cui ti chiedevo prima riflette musicalmente questa tua ambivalenza delle radici. Volendo lo si può catalogare nel macro genere del folk ma poi ascoltando “Torrendeadomo” (che significa appunto Ritorno a casa) ci si imbatte in brani che si collegano alla tradizione (la splendida “Pitzinna deo”), in dialetto sardo (l’intensa “Bentu Lentu”) altre in dialetto eugubino (“Solo ‘nna vita”); ci sono delle  filastrocche, delle canzoni in italiano e un irresistibile strumentale come “Già gioca”. E’ stata voluta questa cosa di “spiazzare” un po’ l’ascoltatore?”

“E’ stata voluta questa cosa, perchè la ricerca del sound non è stata casuale. Io credo comunque che il suono di questo disco sia omogeneo, a prescindere che poi ci siano canzoni magari in dialetto umbro e in dialetto sardo. C’è stato inoltre un lavoro di rilettura di queste filastrocche, con arrangiamenti molto particolari e utilizzando oltretutto degli strumenti che non siano tradizionali, anzi, io mi sono in un certo senso molto allontanata dall’utilizzo degli strumenti tradizionali, ricercando un sound che sia più attinente alla world music, che è quella che a me appartiene di più. Ho inserito così le percussioni mediterranee ad esempio in un brano come “Staccia minaccia”, oppure in “Solo ‘nna vita” ci ho messo i Krakeb marocchini e il Daf iraniano”.

“C’è a monte un grande studio e anche tutti questi strumenti particolari che vanno a impreziosire indubbiamente l’intero lavoro”

“Sì, è stato molto pensato e ricercato il suono, attraverso strumenti diversi ma che, anche grazie al contributo importante del percussionista Francesco Savoretti, alla fine è risultato omogeneo e riconoscibile. Lui, insieme a Goffredo Degli Esposti e a Paolo Ceccarelli hanno fatto un grande lavoro, ognuno col proprio strumento ha reso tutto molto caratteristico, anche se poi ti rendi conto che lo strumento principe è in ogni caso la chitarra. Una chitarra che può essere classica come acustica, e alla quale poi si aggiungono armonicamente il colore dell’organetto, il pianoforte di Lorenzo Cannelli, il basso di Franz Piombino, tutti insomma hanno contribuito alla riuscita del progetto”.

“Il pianoforte in effetti risalta molto nello strumentale (“Già gioca”), ti da’ quel giusto stacco laddove il brano potrebbe sembrare un classico strumentale come lo potresti trovare, chessò?, in un album di musica irlandese (che io adoro!). Invece il suono di quel pianoforte, che sorregge il tutto, lo definisce al meglio e finisce per caratterizzarlo, rendendolo molto originale”

“Sì, “Già gioca” è un brano di Goffredo che assomiglia a una tarantella, se lo vogliamo pensare alla maniera tradizionale; in realtà ha un sound molto moderno, per l’utilizzo appunto del pianoforte che si sposa bene anche con strumenti tradizionali come la zampogna e il tamburo a cornice, però lì c’è proprio un suono che porta a una visione moderna. E’ stato un lavoro di arrangiamento sensato, omogeneo, volevamo non riproporre brani tradizionali nella maniera tradizionale, anche perchè penso che sia stato già fatto egregiamente come tipo di lavoro, se pensiamo a una Elena Ledda in Sardegna e a una Lucilla Galeazzi in Umbria”.

“Infatti, questo ti ha portato a cercare una tua via?”

“Una nostra chiave, io preferisco riferirmi al plurale, perchè io ho pensato a tutto e negli anni ho elaborato questo lavoro come una sorta di viaggio fra queste due isole e ai miei musicisti ho voluto trasmettere il frutto della mia ricerca”.

“Già, perchè tu per isola intendi anche l’Umbria che, anche se non ha sbocchi sul mare, al contrario essendo avvolta dalle montagne, risulta comunque isolata e quindi possono esserci delle affinità tra le due terre?”

“Esatto, questo è proprio un concetto fondamentale del disco, le due isole Umbria e Sardegna, che volevo riuscire a trasmettere. Io ho raccontato ai musicisti proprio quello che volevo ottenere, e loro hanno trasformato in musica insieme a me, a mia zia, quelle parole. Volevo realizzare qualcosa e in pratica ho detto: “voglio che questo album racconti di me e che però che non sia noioso e abbia un sound moderno!” Allo stesso tempo i testi non sono scontati, e ciò non è per niente facile… devo dire che sono soddisfatta del risultato finale”.

“Direi che fai bene, visto quanto è bello e piacevole il disco e quanto stia piacendo anche tra gli addetti ai lavori. Tornando a te, guardandoti indietro, quand’è che è scattata la molla della musica world? Cos’è che ti ha portato ad approfondire i tuoi studi, le tue ricerche al punto da realizzare album che andassero in quella direzione lì?”

“Guarda, la scelta di rimanere su questa linea è perchè sono stata influenzata sempre da tante cose. Ho avuto un maestro, Bruno De Franceschi, gli sarà sempre grato, che mi ha indirizzata verso questa musica, studiavo tecnica vocale e lui mi disse: “tu devi assolutamente riscoprire la musica sarda, la musica umbra…”.

“E questo poteva aiutarti anche a valorizzare la tua vocalità e il tuo modo di cantare immagino”

“Sì! Assolutamente! E’ iniziato tutto un po’ da lì, nel 2009, questa cosa, e io ero già abbastanza grandicella voglio dire, venivo già da un’esperienza vocale di un certo tipo. Avevo un background intenso, perchè già cantavo, da autodidatta poi, e dall’incontro con questo maestro, ma anche con Claudia Fofi, sono entrata a far parte di un quartetto vocale dove cantavamo proprio di emigrazione, di radici. Da lì ho scoperto una vocalità che per me era abbastanza sconosciuta, ho deciso di approfondire e in pratica non mi sono più fermata. Non solo metaforicamente, perchè ho fatto anche tanti viaggi, sono un’appassionata di musica sudamericana, quindi sono andata in Brasile, ho scoperto la loro musica tradizionale. Attraverso questi viaggi, ho avuto modo di conoscere bene Paesi come appunto il Brasile, l’Uruguay, l’Argentina e mi sono resa conto che lì la musica folk viene molto alimentata anche dai Festival: c’è veramente tanta attenzione, tanto fermento e sono molto bravi pure a esportarla, perchè la musica brasiliana, spagnola, il tango, riscuotono tanto interesse, è una cosa molto rilevante. Ho capito che anch’io ero portata per questo e ho voluto in tutti i modi approfondire questo tipo di musica, poi io sono anche molto curiosa, ho studiato tanto e mi sono affiancata anche ai più grandi, la già citata Elena Ledda per la musica sarda, per quella napoletana Nando Citarella, poi Giovanna Marini, secondo me a livello italiano mi sono accostata ai più grandi”.

Foto di Isabella Sannipoli

“Hai visto che anche in Italia, nonostante la musica folk e world non abbiano la stessa risonanza e visibilità mediatica che hanno in Sudamerica, c’è un retaggio storico e culturale che vale la pena riscoprire e divulgare?”

“Certo, dici bene! Penso però che forse si dovrebbero aprire di più le Regioni. Se tutte le Regioni facessero ad esempio come la Puglia, impegnata in questi progetti ambiziosi di divulgazione, sarebbe l’ideale e avremmo anche tutti la possibilità di attingere a questo tipo di musica più facilmente. Probabilmente dico questo alla luce del grande successo che ha avuto la Notte della Taranta che, vuoi o non vuoi, è un evento che attira moltissima gente”.

“Che poi, adesso è vero che è diventato anche un business in un certo senso, ma ha mantenuto la sua funzione e la sua autenticità. Arrivare in prima serata Rai amplifica tantissimo il tutto e da’ un’esposizione enorme ai musicisti”

“E’ un mondo che mi piace, mi rappresenta, infatti da dieci anni ormai mi ci dedico e sin dal primo disco ci divertimmo a rielaborare e riarrangiare brani anche famosi, avevo già studiato con Francesca Breschi e ho sentito sempre più la voglia e la necessità di esprimermi in questo modo. Poi tante altre esperienze, in duo in cui cantavamo musica etnica, insomma, le ricerche in questo campo continuano, non si fermano. Un lavoro di questo tipo, con questo approccio, comporta molta ricerca. Ci vuole costanza, passione, ci vogliono anche i viaggi: non è sempre facile, ma se affrontati in un certo finiscono per arricchirti con le musiche di luoghi diversi, vieni attraversato da ritmi, suoni, culture, sensazioni e questo diventa un bagaglio molto importante che poi uno si porta dietro. E’ fondamentale infine riuscire a comunicare questo bagaglio di esperienze”.

Parole sante quelle di Sara Marini, che mi sento di condividere pienamente. Le chiedo, in dirittura d’arrivo della nostra chiacchierata, qualcosa sui suoi progetti, e lei torna a soffermarsi sull’importanza di portare in giro le sue nuove canzoni.

“Ho molta voglia di far ascoltare questo album che è ancora nuovissimo in pratica: come detto non ho avuto modo di presentarlo ufficialmente dal vivo e al momento quello è il primo obiettivo che, per fortuna a breve si realizzerà. C’è stato tanto lavoro dietro da parte di tutti e va assolutamente valorizzato. Voglio parlare delle mie radici, della ricerca che ho fatto. E’ vero, si nomina sempre la globalizzazione, è un aspetto importante ma lo è altrettanto per l’uomo riconoscersi in qualcosa che gli appartiene. E’ la mia missione in questo momento!”.

“E tu ti sei completamente riconciliata con la tua parte sarda?”

“Sì, nel modo più assoluto, altrimenti non sarebbe potuto uscire niente di tutto ciò”.

“Ti confermo che sei riuscita con “Torrendeadomo” a trasmettere tutto il tuo amore e la tua passione per le due Terre da cui provieni”

“Il mio legame è molto forte con entrambe, mi rappresentano allo stesso modo. Sono due Regioni anche ostiche se vogliamo, non sempre è stato facile, da una parte c’è tanta bellezza, dall’altra anche una certa chiusura, specie nei centri più piccoli, non solo per i musicisti. I legami sono profondissimi ma non sempre facili da gestire, ecco. Con la musica ho trovato però la mia via e il modo, la voglia di comunicare la mia autenticità”.

E questa autenticità, questi legami emergono egregiamente fra le pieghe di questo album che, cari miei lettori, vi consiglio caldamente di ascoltare, non solo se già predisposti a un certo tipo di musica: fidatevi, non ne resterete delusi!

Intervista a Brando Madonia, in attesa del suo primo album da solista

Il cantautore Brando Madonia, già attivo discograficamente con i Bidiel, sta muovendo ora i primi passi in veste solista. Lo scorso anno il suo nome era comparso anche a fianco a quello del padre Luca, col quale aveva duettato in un brano dell’interessante album “La Piramide”.

E’ venuto quindi il tempo di proporre al pubblico le proprie canzoni; dopo i buoni riscontri ottenuti da “I pesci non invecchiano mai”, ha replicato con “La festa”: entrambi i brani sono caratterizzati da fresche e raffinate sonorità pop.

Avendo trovato molto interessante il suo percorso, mi è venuta voglia di saperne di più direttamente dalle sue parole.

Raggiungo telefonicamente il giovane artista catanese (nato nel 1990) e decido di partire subito dal presente, dalle sue sensazioni in merito a questa nuova avventura.

Foto di Michele Maccarrone

“Ciao Brando, ascoltando le tue nuove canzoni, ho notato uno scarto stilistico rispetto al tuo passato con i Bidiel. Tu sei ancora giovane ma hai già maturato diverse esperienze significative (tra cui una partecipazione col suo gruppo al Festival di Sanremo nel 2012 tra le Nuove Proposte, in quell’edizione chiamata sez. Sanremosocial), eppure immagino che esordire da solista sia ben diverso. Che differenze hai rilevato tra il pubblicare con i Bidiel e uscire con un disco a nome tuo? Quali sensazioni stai provando al riguardo?”

“Ciao Gianni, io sono partito con i Bidiel, con loro è stato un bel percorso lungo, col quale sono entrato in contatto con la realtà professionale della musica, fatta quindi di un primo album in studio, di un vero contratto discografico e soprattutto di tante esperienze. Sanremo certo, ma non solo, penso ai tanti concerti, alle migliaia di km in macchina su e giù per l’Italia, ai tour. La nostra è stata la classica gavetta, una cosa che reputo molto importante in tutti gli ambiti, non solo nella musica. Eravamo la rock band che è partita dal basso e, strada facendo, è arrivata a togliersi le sue soddisfazioni”

“Direi proprio di sì, e rimangono due album di interessante pop rock a testimoniarlo. Hai messo in piedi una tua discografia, maturato esperienza ma poi hai sentito altre esigenze?”

“Guarda, io sono molto contento dei miei lavori con i Bidiel. Sono passati tanti anni, otto per l’esattezza dal nostro primo album ufficiale, che, se mi guardo indietro, faccio fatico a rendermi conto. Era il 2012, poi dopo quattro anni siamo arrivati al secondo e in seguito, come purtroppo succede a tanti gruppi, ci siamo sciolti anche noi. Io però ben presto ho sentito che mi mancava qualcosa, la musica è la mia vita e ho ripreso a scrivere con mio fratello Mattia (talentuoso scrittore di romanzi, nda), col quale ho sempre collaborato sin dai tempi della band. Mi sono detto che io voglio continuare a fare musica, quella è l’unica cosa che conta, così ho iniziato a registrare qualcosa nel mio piccolo studio casalingo. Solito giro di provini, fino all’approdo felice alla Narciso Records (etichetta fondata da Carmen Consoli nel 2000, nda). Qui è stata la mia fortuna, perchè loro hanno ascoltato i miei pezzi, li hanno apprezzati e hanno creduto nel progetto, facendo un investimento. Sappiamo com’è ormai il mondo della musica, è molto difficile fare dischi, tutto è diverso anche solo rispetto a otto anni fa quando debuttammo come Bidiel. Per questo ringrazierò sempre la Narciso che ha creduto di me, dandomi questa opportunità.

Non mi sono dimenticato la tua domanda! Certamente, esordire da solista è un gran passo per me. Mi fa piacere tu abbia evidenziato uno stacco dalla mia precedente esperienza con il gruppo, perchè nel corso degli anni c’è stata anche una crescita umana”

“E di pari passo con questa crescita personale, mi pare ci sia stata anche quella dal punto di vista artistico, no?

“Sì, perchè poi la crescita umana si riflette inevitabilmente nella musica che fai. Il mio modo di scrivere è diverso, è un’evoluzione naturale in fondo, oltre che una questione anagrafica. Voglio dire, quando hai vent’anni vivi certe cose, e in un certo modo, e così le esprimi. Arrivati quasi a 30, difficilmente si pensano le stesse cose, di conseguenza anche quello che si crea artisticamente ne risente, lo spettro dei temi diventa più ampio e anche la maniera di raccontarsi cambia”

“Da solista si hanno anche delle responsabilità diverse immagino, è cambiato il tuo modo di porti, di vivere la professione?”

“Le responsabilità aumentano, c’è poco da fare. Ogni cosa nel bene o nel male ricade su di te. Con il gruppo in un certo senso hai sempre il tuo supporto psicologico, non sei solo, nelle difficoltà finisce che ci si sostiene a vicenda. Però sentivo che ero pronto per questo passo, sono felicissimo di mettermi veramente in gioco, con canzoni a nome mio. Ora sono più maturo per farlo, è il momento giusto e lo vivo con molta naturalezza”

“Vorrei soffermarmi su “I pesci non invecchiano mai”, singolo che mi ha colpito molto. Qual è l’idea che sta alla base della canzone?”

“Sono legatissimo a questo brano: “I pesci non invecchiano mai” è il mio primissimo pubblicato da solista, rimarrà per sempre l’inizio della nuova avventura. Il primo singolo non lo scordi… C’è un messaggio nella canzone, quello di non dimenticare il passato. Al giorno d’oggi siamo letteralmente bombardati da input di vario tipo, video, immagini, notizie. Un flusso continuo senza sosta. Ascolti una notizia e un minuto dopo è già vecchia, non riesci umanamente a star dietro a tutto, non puoi farcela. Si vive l’istante ma ci si è già dimenticati di quello che è successo ieri, e magari era una cosa importante sulla quale non ci siamo soffermati. Capita anche nel mondo della musica. La mia canzone vuole esaltare il passato: sfruttiamo le esperienze del passato per costruire il nostro futuro, facciamolo diventare il nostro solido mattone. Codifichiamo le nostre esperienze per trarre dei veri insegnamenti che ci verranno utili, se non dimentichiamo ciò che è stato e che fa parte, volente o nolente, di noi, della nostra storia”

“Concetto molto interessante, indubbiamente! Discograficamente ci troviamo in una fase di passaggio, gli anni dieci sono caratterizzati da una musica sempre più fluida. Tu stai lavorando con la Narciso, e il fatto che dietro ci sia Carmen è un po’ una cartina di tornasole sul fatto che ci sia qualità, già il suo nome da’ credibilità. Hai voluto quindi mantenere i contatti con la realtà discografica, ma hai mai pensato di buttarti a capofitto nella musica liquida, come fanno tantissimi cantanti emergenti?”

“Per come sono fatto io, per la mia visione della musica, mi sono trovato benissimo con Carmen, ed è una scelta che rifarei mille volte quella di appoggiarmi a un’etichetta, visto soprattutto la sintonia che si è creata in primis proprio con lei. Musicalmente l’ho sempre ammirata, è oltretutto una persona fantastica, con la quale confrontarsi su tanti aspetti. Abbiamo lavorato senza fretta, un po’ vecchio stile. Stavamo in studio tutto il tempo che serviva, quello necessario.. ore e ore alla ricerca di un suono particolare, per dire. Per me è molto importante questo approccio, è quello che cercavo onestamente. Spesso le cose si fanno in maniera velocissima, io invece non mi sono dato e non avevo scadenze, sono proprio felice di come si è svolto tutto il processo creativo, dalla scelta di determinati strumenti al lavoro in studio. Io vivrei in studio, mi piacciono le macchine, i microfoni, i cavi, gli strumenti, poi ovvio bisogna arrivare a un punto, sennò non c’è mai una fine”

“Quello è un bel rischio, in effetti, quando si rimaneggia, si aggiungono idee e quant’altro. Mi confermi quindi che la Consoli, con la quale mi pare abbiate delle affinità non solo geografiche ma anche elettive, non ha ancora smarrito la scintilla che la anima, che la muove in questo mondo musicale?”

“Carmen ha una passione e una grinta incredibili, invidiabili. In lei la fiamma è perennemente accesa! La chiave che fa andare avanti le persone è sempre la passione, senza quella credo sia molto difficile che escano cose interessanti”

“Questa passione, sento dalle tue parole, ce l’hai anche tu. Volevo venire al rapporto che hai con tuo padre. Ho recensito il suo recente disco su Indie For Bunnies ( http://www.indieforbunnies.com/2020/01/15/luca-madonia-la-piramide/ ), al quale anche tu hai collaborato. Notavo che i vostri timbri si somigliano molto, e si mescolavano egregiamente nel vostro duetto (uno dei più riusciti dell’intero disco). Mi era piaciuto il contatto, quella sintonia naturale. Come hai vissuto quell’esperienza? E’ nata casualmente o tuo papà da principio voleva coinvolgerti in questo suo progetto?”

“Come hai detto tu, quello era un progetto particolare e di fatto l’abbiamo preparato insieme, perchè c’era un continuo scambio fra noi, un chiedere consigli; l’idea stessa di un intero album di duetti si è sviluppata strada facendo, dopo aver coinvolto i primi artisti. Quella di coinvolgermi direttamente non è stata una scelta nata a tavolino ma molto naturale. Quando si stavano delineando i vari duetti, a un certo punto mio padre mi fa: “Ma perchè un brano non lo canti anche tu?”. E così, sono intervenuto anch’io con la mia voce nell’album “La piramide”: di fatto “A volte succede” è il primo featuring ufficiale con mio padre. Abbiamo suonato tante volte insieme ma a livello discografico questa è stata la nostra prima collaborazione, e ne sono molto orgoglioso”

Foto di Michele Maccarrone

“E il Brando bambino, adolescente, come vedeva Luca Madonia? Volevi anche tu fare il musicista, seguire le orme di tuo padre? Ti affascinava quel mondo?”

“Sono in pratica cresciuto con la sua musica, per me era normale ascoltare musica live, in casa, avere strumenti intorno ecc. Crescendo però ho iniziato anch’io a voler e scrivere e cantare le mie canzoni, e già a dieci anni mi piaceva registrare le mie prime canzoncine. Devo dire che mio padre non mi ha spinto in questa direzione, anzi, ogni tanto faceva considerazioni su quanto fosse difficile, complesso, questo mondo di cui lui da tanti anni fa parte, però a conti fatti è molto felice della mia scelta, perchè fare musica è la cosa più bella del mondo! Sa lui benissimo per primo che significa appassionarsi alle sette note. Continuare su quella strada per me fu una cosa ovvia, e così da adolescente ho formato i miei primi gruppi e iniziato tutta la trafila”

“Quando invece ti sei approcciato alla musica di tuo padre in modo critico, con orecchie da ascoltatore? Che pensavi dei suoi dischi, di quelli realizzati con i Denovo soprattutto, che negli anni ottanta furono tra i gruppi italiani più importanti e influenti?”

“I Denovo quando sono nato si erano in pratica già sciolti, quindi ho ascoltato in presa diretta soprattutto i dischi da solista di mio padre. Come detto prima, per me con lui tutto accadeva in modo naturale, le cose di mio padre le sentivo praticamente sempre a casa. Mi ricordo quando componeva le sue canzoni, la musica era onnipresente”

“Quindi si può dire che tu l’abbia assorbita facilmente?”

“Proprio così, da bambino senza rendermene conto quelle canzoni che sentivo sempre ti entravano sotto pelle in modo molto spontaneo, poi man mano che anch’io iniziavo a cimentarmi con la musica, è nato il confronto tra noi su questioni artistiche. Ho iniziato così ad aiutarlo a registrare, intervenivo anche negli aspetti tecnici. Dal punto di vista artistico, le sue idee le condividevo, si sono impresse in me. Sono sempre stato un ascoltatore della musica di mio padre!”

“Come avete vissuto la notizia che il disco “La Piramide” era entrato tra i finalisti delle Targhe Tenco per il miglior album dell’anno?”

“Era felicissimo, non ce l’aspettavamo proprio! Una bellissima notizia, tra l’altro era stato avvisato da un amico tramite un messaggio. Credo sia un bel riconoscimento del lavoro fatto, una testimonianza della bontà del disco”

“Prima abbiamo accennato alla tua esperienza sanremese con i Bidiel, dove portaste in gara il brano pop rock “Sono un errore”. Era il 2012, vinse nella vostra categoria Alessandro Casillo e in quella edizione gareggiavano artisti validi come Erica Mou, Marco Guazzone e un’altra band oltre ai Bidiel, gli Iohosemprevoglia. Voi avevate già fatto un po’ di gavetta ma quella rimane un’esperienza molto importante. L’avete vissuta con una certa incoscienza, concedimi il termine, o per voi quello era un vero obiettivo ed esservi arrivati rappresentava già un traguardo?”

“Eravamo davvero giovani, si può dire che come Bidiel siamo nati lì, ci siamo fatti conoscere al grande pubblico partecipando a Sanremo. Suonavamo già da anni, ma avevamo un altro nome, cantavamo in inglese, quindi ci siamo trovati quasi dal nulla a calcare quello splendido e prestigioso palco. Dai concerti, dai locali in città, dai vari festival e contest ai quali avevamo preso parte, ritrovarsi lì è stato assolutamente pazzesco! In quella settimana ti senti come in una bolla. E’ un’esperienza che ricorderò per sempre, lì sopra ti fai veramente le ossa, una settimana a Sanremo equivale a un anno di esperienze! Sei alle prese con un vero e proprio tourbillon che ti travolge”

“E da solista ci torneresti al Festival?”

“Perchè no? Francamente non c’ho pensato ma non mi dispiacerebbe affatto, sarebbe una vetrina molto importante. Inutile, nonostante la rete, i talent, spotify, Sanremo rimane unico nel suo genere e l’esposizione che ti dà, la possibilità di farti conoscere da un grande pubblico è una cosa a cui è difficile rinunciare, fermo restando che non è certo facile arrivarci, anzi. Poi credo che per affrontare un Festival simile, devi portare una determinata canzone e devi principalmente essere molto convinto, perchè sono dell’idea che le cose forzate possono forse funzionare ma solo fino a un certo punto. Insomma, ci fossero tutte le condizioni, un pensierino lo farei. Dipende da tanti fattori ma mai dire mai”

“Tornando all’attualità, dopo questo periodo segnato dal covid-19, che ha rimesso in discussione le priorità di ognuno e sconvolto piani e vite intere, come hai intenzioni di muoverti? Farai della promozione dei singoli, quali sono i tuoi progetti in attesa dell’uscita del tuo primo album?”

“Intanto ho avuto la fortuna di aprire i concerti di Max Gazzè nelle tre date del 2,3 e 4 luglio all’Auditorium di Roma. Una cosa inaspettata e anche per questo sono doppiamente felice. Suonare dopo tanto tempo forzatamente chiusi in casa, farlo con Gazzè poi, wow!”

“Il pubblico di Max come ha accolto le tue canzoni? Lui è uno di quelli che fa del pop di qualità, chi lo ascolta è solitamente molto esigente”

“Beh, aprire i concerti di nomi grossi non è mai facile, tutti vanno giustamente per ascoltare le canzoni del grande artista, poi arrivo io solo chitarra e voce… Però è andata molto bene, il pubblico è stato caloroso con me, ha ascoltato attentamente il mio repertorio, un’esperienza stupenda in tutti i sensi. Adesso sono nella mia città, Catania. Mi auguro che il peggio sia passato e che andando avanti sia meno dura per chi fa il mio mestiere. C’è stata una timida ma coraggiosa ripartenza, non è facile gestire l’aspetto live, nel frattempo mi dedicherò ad altri aspetti del mio progetto, e mi ritengo a maggior ragione fortunato ad aver avuto la possibilità di suonare davanti a un pubblico a Roma, in un evento simile, per me una vetrina bellissima”

“E con il tuo album a che punto sei? Hai pronte delle canzoni nuove?”

“Il grosso del disco è stato fatto, le canzoni sono state registrate, il singolo “La festa” è uscito da pochissimo, più avanti ne usciranno altri fino ad avvicinarsi alla pubblicazione dell’album. Ovviamente il periodo è quello che è, vediamo cosa succede, pian piano, un passo per volta, l’importante è che, non solo riferendomi alla musica, le cose vadano bene”

Nel salutare Brando, mi riprometto di tenerlo d’occhio nelle sue prossime uscite, con la speranza di assistere a qualche suo spettacolo che mi confermi le buone sensazioni.

Quelle da lui pronunciate in questa intervista sono parole decise e appassionate. Mi sembra di aver colto lo spirito giusto per affrontare un percorso importante come quello da cantautore.
E io non posso che fargli un grande in bocca al lupo per la sua avviata carriera.

 

 

Intervista al cantautore Stefano Fucili, tornato in pista con un nuovo singolo. Artista poliedrico, su PelleECalamaio ripercorre tutta la sua storia

Il nome di Stefano Fucili a molti della mia generazione (quarantenni o…su di lì!) non dovrebbe suonare nuovo, in quanto fu protagonista di un periodo fulgido nell’ambito della canzone pop italiana a cavallo del nuovo millennio. Esordì a fine anni ’90, vincendo il Festival di San Marino, ed ebbe modo di entrare nel roster della Pressing, etichetta di Lucio Dalla attiva per qualche anno. Una sua canzone, “Anni luce”, è stata interpretata dal grande artista bolognese e inserita nell’album “Luna Matana”, del 2001.

Fotografia di Andros Pugolotti

Molta acqua è passata da allora sotto i ponti ma il cantautore pesarese (di Fano, per l’esattezza) non ha mai smesso di suonare, raccogliendo variegate esperienze musicali, fino ad avvertire nuovamente forte il desiderio di proporre le sue canzoni. Lo scorso anno si è legato all’international indie label RNC Music, col quale ha dapprima pubblicato il singolo “Ballare Ballare” nell’estate 2019, per poi replicare (questione di pochi giorni fa) con un altro episodio dal titolo vagamente assonante: “Bella Bella Bella”, che ne conferma la ritrovata vena melodica, con una spruzzatina latina a spalancarci le porte dell’estate dopo i faticosi mesi di lockdown cui siamo stati tutti necessariamente esposti.

Per chi, come il sottoscritto, aveva amato la semplicità e la buona fattura di un singolo come “Bonsai” – vero esempio di itpop dell’epoca – l’occasione di scambiare qualche chiacchiera con lui e saperne di più del suo progetto (è in previsione un intero album di inediti) era troppo ghiotta. Nel mezzo si è parlato del suo percorso e di altri aspetti legati al mondo delle sette note.

Stefano mi raggiunge telefonicamente mentre ha terminato il suo lavoro d’ufficio, confermando che in ambito extra musicale non ha mai in pratica smesso di lavorare, occupandosi tra l’altro di qualcosa di molto utile a maggior ragione in questo periodo, ma allo stesso tempo ha saputo cogliere l’opportunità per dedicarsi ancora di più alla musica, scrivendo, suonando e registrando. L’entusiasmo con cui mi accoglie e mi presenta il suo nuovo progetto è tangibile ed io decido di lasciare spazio alla sua presentazione.

“Ciao Stefano, è un piacere per me che ti seguivo tanti anni fa con interesse, ritrovarti alle prese con delle nuove canzoni così fresche e pimpanti. Come sono nate e come ti è tornata la voglia di rimetterti in gioco?”

“Ciao Gianni, piacere mio! In tutti questi anni sostanzialmente non ho mai smesso di fare musica, in diversi contesti, ma la molla per rimettermi a scrivere è scattata l’anno scorso. “Ballare Ballare” è un po’ contaminata con la dance, un po’ per mia curiosità di approcciarmi a quei suoni lì, un po’ è dovuto all’incontro, con la RNC Music, un’etichetta di Milano di Nico Spinosa (un discografico importante, ha curato per quasi dieci anni la parte estera della EMI e ha contribuito a lanciare all’estero nomi grossi come ad esempio Tiziano Ferro).

Nico nel lanciare la sua etichetta, ha mantenuto tanti contatti nell’ambiente, anche all’estero (ti parlo di etichette indipendenti ma anche major) e ha improntato un taglio dance, dedicandosi all’elettronica, la lounge ecc. Il contatto con lui è avvenuto tramite Giordano Donati, un producer dance di successo, un amico, e anche il mio manager che ha fatto da tramite facendo partire questa nuova avventura. Avevo iniziato a scrivere dei brani già l’anno scorso, e il fatto di essere dovuto rimanere a casa in questi mesi mi ha aiutato a scrivere altri nuovi pezzi e quindi, vedendo il bicchiere mezzo pieno, è stata un po’ un’opportunità questa per lavorare a un nuovo album”

“Sono molto curioso perché mi sembra tu stia tentando una strada diversa, anche se resta il marchio di fabbrica del pop italiano.  Tuttavia appunto lo stai contaminando con altri suoni e altri generi. Questo tuo avvicinarti a un sound più moderno è stata una mossa studiata, per entrare dentro un certo filone magari vicino a certa musica reggaeton piuttosto in voga, con i suoi tormentoni, oppure in realtà tu hai sempre apprezzato la dance e i tuoi ascolti vertevano da sempre su un pop più ampio rispetto a quello cantautorale con cui avevi iniziato?”

“Di certo io sono sempre stato molto curioso musicalmente, poi il mio background è sicuramente da ricercare nel pop rock degli anni ottanta: quella è la mia formazione da un lato, e dall’altro lato i cantautori, anche se poi mi piacciono tanti artisti dei più svariati, come ad esempio Bjork. E’ un po’ come in cucina dove mi piace assaggiare tutto, anche nella musica mi piace ascoltare più roba possibile per scoprirne la bellezza. Che può essere presente ovunque: tu puoi sentire un pezzo di liscio, con un assolo di clarinetto strepitoso ed è bellissimo, pur essendo una musica principalmente da ballo, per dire.

La musica secondo me è universale, le etichette non mi piacciono. Tipo il discorso del reggaeton cui accennavi prima… il reggaeton viene spesso, come dire, trattato male o considerato poco, paragonato alla musica da ballo e chiusa lì, quando in realtà è un genere musicale come un altro, anzi, tra i più popolari al mondo, segno che ha del valore se arriva a far muovere gente in tutto il mondo. Forse in questo momento è addirittura il linguaggio musicale più popolare in assoluto”

“Direi di sì, basta vedere anche le visualizzazioni di certi artisti di là dell’Oceano, si va sul miliardo, quindi il successo di massa è tangibile”

“Esatto, al di là del boom di “Despacito”, che ha certificato l’esplosione del genere, ci sono molti artisti che hanno avuto un impatto mondiale, arrivando primi in Russia, come in Thailandia e ovviamente in Sud America e negli Stati Uniti. Quindi, è un genere che merita dignità perché arriva ovunque. Partendo dal presupposto che io sono un curioso musicalmente, in questo caso, per i nuovi pezzi che ho scritto, il mio avvicinamento con l’elettronica avviene in realtà con degli ascolti fatti un po’ prima del 2018 e ispirati a un certo indie pop italiano che mi ha proprio stimolato in termini di suoni e scrittura.

Sono stati cinque anni davvero ottimi per il movimento, dove l’indie italiano era un pozzo di ispirazione, penso a nomi come Thegiornalisti o Frah Quintale ma anche qualcosa del nuovo rap italiano, di cui mi piacevano per lo più i testi. Vi ho sentito una tale freschezza, che mi ha fatto venire voglia di scrivere cose nuove e come sonorità ho voluto un po’ avvicinarmi a questo mondo qua. Che poi, nel mio passato, penso al mio primo album autoprodotto nel 2006, subito dopo l’esperienza con la Pressing di Lucio Dalla (con cui produssi due singoli, ma non uscì l’album), ecco, quel mio lavoro lo misi all’epoca su MySpace, quindi ho iniziato già allora a usare il web, e a mischiare nelle mie canzoni il pop con l’elettronica e le chitarre acustiche. Era già stata quella una prima evoluzione per me, visto che il mio mondo originario di riferimento è magari più il folk, addirittura di matrice irlandese (ho fatto un album tutto celtico, “Tristano e Isotta”, ispirato alla nota storia composto con Francesco Gazzè fratello di Max), quindi sicuramente è più nelle mie corde, la chitarra acustica rappresenta le mie origini, però mi volevo cimentare di nuovo, a distanza di anni, con la musica elettronica, ed è stato proprio l’indie italiano a ispirarmi in tal senso.

Dopo quegli ascolti, ho iniziato a scrivere dei pezzi nuovi nel settembre 2018 e nei mesi successivi ho iniziato a sfornarne uno dietro l’altro e da lì, tramite Giordano Donati, abbiamo preso contatti con la RNC Music e alla fine è venuto fuori il brano “Ballare Ballare”, che in realtà è stato prodotto da Raf Marchesini, un producer di successi a livello internazionale, ed è merito suo se i suoni hanno avuto un ruolo importante in quel pezzo lì, come anche nel nuovo “Bella Bella Bella”. I titoli suonano un po’ simili, lo so, qualcuno si confonde anche, ma è un po’ ironica la cosa, ho voluto giocare con le parole. Tornando alle canzoni nuove, io da sempre sono uno che fa i provini a casa, registro tutto nel mio studio, suono le chitarre, inserisco i loop, poi però come detto in quei due singoli soprattutto Raf ha avuto un ruolo importante, perché è un professionista di questo mondo, e poi mi ci trovo bene perché lui ascolta per dire molto anche i Queen, quindi è un producer dance ma con una mente molto pop rock, per cui ci siamo incastrati perfettamente. D’altronde se ci pensi, l suono di una cassa ti cambia il pezzo, e di conseguenza il ruolo del producer anche nel pop è ormai rilevante, i risultati sono sotto gli occhi tutti, basta vedere le hit in classifica, quello che più passa in radio, dove i suoni spesso ormai fanno la differenza. Lui in tal senso è stato fondamentale e sono molto felice perché siamo riusciti a creare una squadra eccezionale con me, Raf e Giordano, (che anche lui è molto importante, mi ha dato un sacco di consigli da produttore, lui ha prodotto dischi di successo internazionale) e Nico Spinosa, in particolare. Il nostro progetto vuole cercare di andare all’estero e una serie di risultati li abbiamo già ottenuti e siamo contenti. Tutto questo disco nuovo vuole avvalersi di un sound internazionale, voltato all’elettro pop”

“Da questi primi assaggi mi sembra che tu, nel cercare una strada diversa musicalmente, sei riuscito a essere lo stesso personale e a metterci il te stesso di adesso. Poi, come dici tu il producer è sempre più importante per la resa del disco, e proprio alcuni degli artisti contemporanei che hai citato prima si sono avvalsi del tocco sapiente di chi sapeva armeggiare i suoni. Tra l’altro non capita molto spesso di sentire un artista di una generazione precedente elogiare così apertamente i nuovi esponenti, laddove solitamente si tende o a essere paternalisti o al peggio a sparare zero, considerando sempre migliori i nostri anni. Direi che questa cosa denota anche una grande apertura da parte tua, proprio mentalmente. Ci sono altri nomi che ti hanno ispirato e influenzato?”

“Mah, non vedo in realtà perché non dovrebbe essere così, in fondo. Io sentivo in certi pezzi delle buone vibrazioni e a un certo punto ho voluto approfondire, mi sono proprio messo all’ascolto tramite Spotify di interi dischi di questi nuovi artisti e gruppi di area indie italiana che più mi ispiravano e che magari avevo sentito la prima volta da delle classiche playlist. Tornando ai nomi, dicevo i Thegiornalisti perché Tommaso Paradiso mi piaceva molto a livello di scrittura, specie nel suo momento d’oro. Lui ha molte radici negli anni ’80, nel cantautorato di un certo tipo, quindi è inevitabile che io mi ci ritrovi. Con la produzione fatta tra l’altro da un marchigiano, Dardust, che in questo momento va per la maggiore”

“Dario Faini, che vanta una lunga esperienza e che è esploso proprio nelle vesti di producer e adesso è un numero 1 nel suo campo”

“Dario è uno dei più bravi davvero, e la miscela con Tommaso Paradiso all’epoca ha prodotto qualcosa di molto interessante: come dicevo il suo tratto distintivo prende elementi anche dagli anni ’80 e ’90. Ultimamente non trovo più in Paradiso questa freschezza, ma in quegli anni lui, Frah Quintale, Carl Brave suonavano forti”

“Sì, dischi di qualche anno fa, adesso l’evoluzione in musica viaggia velocissima e anche tutti questi artisti sono alla prova del nove, perché dovranno dimostrare sul campo le loro qualità. Uno come Carl Brave, che citavi, adesso è sdoganatissimo, collabora con chiunque e c’è il rischio che diventi paradigma quello che fa”

“Ti dirò, forse è un discorso un po’ trito e ritrito e sarà anche banale dirlo, ma secondo me non è solo un calo di ispirazione a cui possono andare incontro; per carità i momenti capitano a tutti, ma credo dipenda anche dalle major che magari vanno a rovinare alcune caratteristiche. Finchè stai in una label indipendente, anche se magari distribuita dalla major, hai grande libertà di esprimerti, hai una fame enorme, una voglia di fare le cose e di emergere, fare concerti dappertutto. Nel momento in cui poi raggiungi la popolarità, entri in un meccanismo più grande e istituzionalizzato, a quel punto forse la freschezza viene meno e ti si spegne un po’ la fiamma. Però in quegli anni ho veramente consumato di ascolti certi dischi. Mi avevi chiesto altri nomi che possono avermi ispirato. Calcutta è uno di quelli con uno stile più definito, magari mi ha influenzato di meno, però mi piace, è indubbiamente bravo, ma anche certe cose di Coez e di Gazzelle le ho trovate molto interessanti.

“C’era indubbiamente grande fermento, la musica italiana grazie a questi esponenti indie, e grazie anche alla trap, giusto dirlo, è tornata clamorosamente in auge”

“Sì, anche nel rap ci sono cose che non mi dispiacciono tipo Salmo, anche se è uno molto lontano dalla mia cultura e dal mio genere. Io sono per un linguaggio rap diverso, a me piace Jovanotti, anche quello di “Oh, vita!”, è un tipo di artista che ha tante cose da dire”

“Jovanotti credo sia l’esempio di prodotto mainstream ma che a differenza di altri cantautori non si è fossilizzato nel suo successo e a 54 anni è ancora lì che vuole e riesce a spiazzare il suo pubblico e la critica. Riferendoci all’ultimo album, prodotto da Rick Rubin, era tornato ad esempio a sonorità acustiche, dopo che in precedenza aveva invece proposto un sound anche molto elettronico, eterogeneo, la sua forma canzone è assolutamente trasversale. Per quanto spesso sia attaccato o criticato per l’attaccamento a certi temi socio politici, se ci soffermiamo solo sulla musica, ecco, lui credo abbia ancora la fiamma accesa, e sia come te attento a quello che sente attorno, non trovi?”

Fotografia di Andros Pugolotti

“Sì, verissimo, poi lui mi incuriosisce anche per come gestisce la sua comunicazione, lui è da sempre un grandissimo comunicatore, si inventa delle nuove forme pur essendo come dici tu mainstream, nazionalpopolare… è un po’ il Gianni Morandi dei tempi nostri, chiaramente in modo diverso. Poi è bravo perché è super trasversale, quindi lui va dalla canzone d’autore al pezzo super danzereccio però come tipo di mood è uno di quelli che mi stimola, non dico che voglio cavalcare quell’onda, perché lui è un personaggio completamente diverso da me però mi da’ delle buone sensazioni, e anche certi suoi ascolti mi hanno stimolato, in particolare il suo album del 2015 (“Lorenzo 2015 CC.”) contiene delle cose che davvero mi hanno colpito molto”

“E per i testi come ti sei mosso? Anche in quel caso hai avuto, magari in maniera inconsapevole, qualcuno o qualcosa che ti ha ispirato nel rimetterti a scrivere?”

“Beh, per i testi devo dire che mi ha ispirato, mi ha aiutato tantissimo, cantare dal 2012 per diversi anni le canzoni di Lucio nei concerti. Fare questo lungo omaggio a Lucio Dalla, con i concerti del progetto “Piazza Grande” è stato qualcosa di molto importante, nonostante non sia mai stato un suo vero fan almeno fino al 1994. Io mi posso considerare un vero fan del Lucio di minor successo, quello degli anni ’90 di “Henna” per dire, un album che ho amato. Poi, è chiaro che ci sono brani memorabili tipo “4 Marzo 1943” o “Piazza Grande” ma ci arrivai con gli ascolti. Però in qualche modo è sempre stato presente.

Il primo album di Lucio che acquistai fu “1983”, in vinile, oppure mi colpì ad esempio la prima volta che ascoltai “Se io fossi un angelo”, avrò avuto 16 anni e mi ricordo perfettamente la prima volta che la sentii alla radio. La scintilla vera scattò come detto con “Henna” e da lì andai ad approfondire. Quando poi lui se n’è andato, è nata la voglia e il desiderio sincero di omaggiarlo con questo progetto che abbiamo portato avanti (“Piazza Grande”), che poi doveva essere un unico concerto e poi grazie alla grandezza delle sue canzoni è andato avanti e siamo arrivati a suonare davanti davvero a un sacco di persone.

Cantare le sue immense canzoni a un pubblico numerose nelle piazze e nei teatri, in qualche modo “costringendomi” ad entrarci dentro, è stato molto importante per la mia crescita. Quando tu ti cimenti a cantare simili brani, cercando di farli tuoi, come lui stesso mi ha insegnato, (ed io infatti cerco di cantarle vivendole), entri nella canzone in maniera diversa da come fai quando l’ascolti. Ecco, tornando alla tua domanda, senza voler assolutamente paragonarmi al suo genio, questa cosa mi ha aiutato e credo si sia riflettuta nell’approcciarmi ai nuovi testi, alle nuove canzoni. Qualcuno me lo dice anche, soprattutto riferendomi a brani che troverai nel disco”

“Immagino! Io non ho avuto modo per il momento di assistere agli spettacoli di “Piazza Grande”, ma so che in questi concerti tu spazi in lungo e in lago nel repertorio di Lucio Dalla. Qual è la canzone che più senti tua, come se l’avessi scritta tu in un certo senso?”

“Tu non mi basti mai”! Mi viene subito da risponderti questa, mi emoziona sempre molto cantarla, poi mi dicono sia una di quelle che riesco a interpretare meglio. C’è anche una versione che avevamo fatto, dal mio album del 2014, con Iskra Menarini ospite in un duetto con la band di “Piazza Grande”, rivisitata un po’ in maniera acustica”

“Oltretutto tu hai avuto modo di conoscere Lucio Dalla da vicino, collaborandovi a più riprese, vuoi ricordarci quei momenti?”

“Sono ricordi indelebili. Il primo disco ufficiale nel 1998 lo pubblicò proprio Lucio con la sua etichetta Pressing, distribuita dalla BMG, quindi l’attuale Sony: direi che sono partito con un talent scout mica male! Avere un mentore come Lucio Dalla non era poco, voglio dire. C’era una macchina dietro e i miei singoli venivano distribuiti, avevano avuto un buon riscontro nelle radio italiane, prima “Chiara” e poi “Bonsai” ma per una serie di motivi la cosa sul più bello si arenò. Un po’ perché in quel momento l’album di Lucio (“Ciao”) non stava andando benissimo nelle vendite, soprattutto se rapportato al clamoroso successo del precedente “Canzoni”, che nel 1996 vendette un milione e duecentomila copie. Era un bel disco anche “Ciao” ma purtroppo non ha avuto il successo che si prevedeva, e capirai che il confronto con il disco prima era impietoso, parlo a livello commerciale ovviamente. Questo portò la Pressing, l’etichetta con cui Lucio provava a dare una mano a dei giovani come me, a sospendere alcuni investimenti. La mia situazione quindi era partita benissimo ma poi si è fermata all’improvviso. Sono andato avanti, ho avuto le mie esperienze anche felici di autoproduzione, raccogliendo delle varie soddisfazioni e pubblicando vari album ecc, cercando di usare anche il web e poi, è storia recente, dallo scorso anno ho ripreso questo rapporto con una label, è una seconda grande possibilità che mi concedo”

“Bello ripercorrere la tua storia con Lucio, che credette comunque in te, d’altronde “Chiara” e “Bonsai” erano dei pezzi bellissimi in ambito pop italiano. Ti confesso che io e un mio caro amico, che adesso collabora fra gli altri con Rockerilla, andavamo pazzi per “Bonsai”, la sapevamo a memoria, era un po’ l’equivalente del britpop inglese”

“Grazie delle tue parole! “Bonsai” è collegato agli Oasis, era il mio tentativo di ricreare quelle atmosfere, un po’ come faceva Daniele Groff, no?”

“Certo, ci piaceva un sacco anche lui infatti. Ho avuto modo di intervistarlo in passato, avevate un background molto simile e in effetti stavate cercando una strada nuova del pop italiano sul finire degli anni ‘90”

“Io e lui ci riferivamo a quel mondo lì, perché rientrava nei nostri ascolti. Pensa che io ho fondato una band al liceo e facevamo cover degli Oasis, dei Police, dei R.E.M., quelle sono le mie origini, il mio humus musicale, poi la curiosità e la passione mi hanno spinto altrove, la musica non ha confini. Con la casa discografica, orientata come detto alla dance, siamo partiti con delle cose che avessero comunque una linea corrispondente alle loro richieste, loro lavorano molto all’estero. Una scelta certo non forzata, l’ho voluta anch’io, altrimenti non lo farei, però dentro l’album ci sarà spazio per ampliare lo sguardo anche su altre cose. In particolare nell’album ci sarà un pezzo a cui tengo tantissimo (e che forse sarà il singolo di uscita dell’album, a ottobre, oppure l’anno prossimo, adesso vediamo come si sviluppano le cose), che ha una sonorità più vicina a quella che stiamo dicendo adesso, sempre però contaminata con l’elettronica, ed è un pezzo secondo me molto importante”

“Vorrei passare a un’altra tua esperienza musicale, davvero singolare ma che ti sta dando una certa notorietà. Io non ho ancora figli purtroppo ma in compenso ho diversi nipotini, e quindi ti lascio immaginare che mi capita spesso di vedere video per bambini. Mi ha stupito positivamente vederti all’opera in questo contesto. Io poi sono un fan della storia dello Zecchino d’oro, e ho sempre apprezzato quegli autori che si sono cimentati in queste vesti. Come è nata la tua collaborazione con il canale tematico “Coccole Sonore”? Come ci è finito Stefano Fucili a comporre canzoni per bambini e a diventare di fatto un idolo per moltissimi di loro?”

“Scrivere canzoni per bambini mi ha dato la possibilità di mettermi ulteriormente alla prova. Anche in questo campo, come dicevi tu, ci sono stati degli esempi, dei maestri, pensiamo al grande Bruno Lauzi. E’ un piacere rapportarmi con questo mondo, sto ottenendo soddisfazioni e di fatto è per me una grande opportunità perché “Coccole sonore” è una realtà importante nel settore. Io ho sempre amato le colonne sonore dei film d’animazione, dei cartoni animati a partire dai film della Disney, ero un fan da bambino ma comunque in generale è un mondo che mi ha sempre affascinato. Tra l’altro anche certi miei progetti mostravano questa mia passione, tipo nell’album “Peter Pan” c’è il pezzo più importante da cui prende il nome l’intero disco, il secondo brano che ho scritto con Dalla nel 2006, che è un po’ fiabesco. Oppure prendi una canzone come “Lullaby”, la ninna nanna che ho scritto per “Coccole Sonore”, è diventato un classico dell’Antoniano che si chiama “Ninna Mamma”, ed è stato interpretato tante volte anche in occasione dello Zecchino d’oro, per le loro campagne. Il testo è stato riscritto per loro da Salvatore De Pasquale (noto col nome d’arte Depsa) autore della musica italiana degli anni 80 – ha fatto un sacco di hit pazzesche per la Oxa e un sacco di altra gente – ; lui ha ideato questo testo sulla musica mia originale di “Lullaby”. La collaborazione è nata abbastanza causalmente: in pratica ho la fortuna di essere amico del proprietario di “Coccole Sonore”, uno tra i canali per bambini più importanti che ci sono in Italia.

“Infatti vedo filmati con milioni di visualizzazioni, anche tu mi pari che viaggi benone in questo senso”

“Sì, certo, pensa che ho fatto quasi 50 milioni di visualizzazioni, un dato pazzesco, numeri non dico da big, ma assolutamente rilevanti”

“E che danno gratificazione. E’ cambiata un po’ la prospettiva e con essa ovviamente il tuo modo di scrivere ma i consensi sono in effetti enormi. Ti è capitato di sentire bambini che cantano le tue canzoni?”

“Sono cambiate molte cose, tanto che paradossalmente sono molto più popolare ora in queste vesti che non con il mio progetto pop, perché come ti dicevo loro sono i leader in questo settore, hanno superato il miliardo di views come canale, e io sono uno dei tre cantanti che stanno dentro i loro cartoni, un po’ come il Bert di Mary Poppins. E’ nato tutto in realtà per gioco, loro hanno la sede a Pesaro, io sono di Fano, e di fatto mi ha sempre conosciuto come cantante e mi stimava. Quando mi è giunta la proposta conosceva “Lullaby” che era stata tradotta per lo Zecchino d’oro, siamo partiti da lì e poi il riscontro da parte del pubblico di “Coccole Sonore” è stato da subito molto buono. Da allora abbiamo realizzato varie canzoni, con un buon ritmo, a volte sono delle cover dei classici per bambini, altre volte tiriamo fuori con lui delle idee, delle canzoni originali che poi proponiamo in puntata. In generale stanno andando davvero bene, poi c’è quella che arriva di più al pubblico e quella meno, come in tutte le cose ma non posso che ritenermi soddisfatto. Io mi ritrovo a vivere una condizione nuova, tipo che mi trovano per strada, ad esempio è successo a Napoli con gente che mi ferma e mi chiama per nome, è una sensazione bella e una grande emozione per me regalare un sorriso a dei bambini. Inoltre mi arrivano un sacco di lettere, oppure le mamme e i babbi che mi mandano i filmati dei loro bimbi che guardano il video dove ci sono io. Si crea un nuovo pubblico vero e proprio, perché dietro i bambini ci sono i genitori, un’intera fascia di età”

“E anche gli zii appunto, perché anch’io spesso e volentieri con i nipoti ci mettiamo a guardare quei video e a cantare e ballare”

“Sì, poi loro come canale hanno un trend bello, con dei messaggi sempre positivi, il taglio di “Coccole Sonore” mi piace, c’è anche una parte educational. Sono davvero molto felice di farne parte”

“Tornando alla tua esperienza passata, tu avevi tentato anche la carta Sanremo? Avevi preparato dei brani per le selezioni delle Nuove Proposte?”

“Diciamo che Lucio Dalla ogni anno presentava i suoi artisti alle selezioni per Sanremo, nel mio caso per due volte ci sono andato vicino all’essere preso. Un anno con “Anni luce”, che poi però se la prese lui per l’album “Luna Matana”. Lì eravamo arrivati a un passo, del tipo che eravamo rimasti in 24 e ne passavano 12. Poi con “Peter Pan” ero andato a fare le ultime selezioni, alla sede della Rai – era il 2001 mi pare – a Roma davanti a Pippo Baudo, nell’anno che c’era il figlio di Morandi e quello di Celentano… vabbeh, anche quella volta per un pelo non entrammo ma va bene così”

“Anche perché tu a differenza di Marco Morandi e Giacomo Celentano sei ancora qui a scrivere e proporre nuove canzoni”

“Marco Morandi in realtà fa un sacco di date… “

“Io lo ricordavo nei Percentonetto, ma non lo conosco molto artisticamente, in ogni caso in quel periodo il Festival di Sanremo sembrava una vera fucina di talenti, peccato tu sia arrivato solo a un passo…”

“Cosa vuoi Gianni, doveva andare così, faceva parte di un percorso, all’epoca come detto le cose si stavano mettendo bene. Smaltita le delusione, si era ripartiti come sempre”

“Io ti ho sempre percepito come una persona molto solare e positiva, e me lo stai confermando anche in questa lunga intervista, però alla luce del tuo curriculum, del percorso che hai fatto e di tutto quello che ci siamo detti, c’erano per te delle possibilità importanti di svoltare e arrivare al grande successo. Per questo volevo chiederti: c’è spazio anche per i rimpianti? Ci sono delle cose che se tu potessi tornare indietro faresti in modo diverso oppure manterresti tutto come è andato, musicalmente parlando?”

“Sai Gianni, io mi ritengo assolutamente fortunato, anche perché sono riuscito a realizzare un sacco di sogni che avevo da ragazzino. E’ chiaro che all’inizio, dopo tanti tentativi, concorsi, provini mandati in giro alle case discografiche, approdare alla casa discografica di Lucio Dalla, quando avevo 25/26 anni, fu un segnale importante di fiducia, lì sì c’è stato un momento in cui sembrava che le cose dovessero andare bene. I pezzi in radio funzionavano, anche tu te li ricordi, poi purtroppo ci sono stati dei motivi per cui la Pressing non proseguì, magari forse, ma lo dico con tutto il dubbio, fossi stato in un’altra casa discografica le cose sarebbero andate diversamente, o forse non sarebbe successo nulla comunque, chi può dirlo? Io mi tengo stretto quello che ho realizzato, mi sono tolto molte soddisfazioni e molti dei sogni che avevo sono riuscito a realizzarli.

Ringrazierò sempre Lucio, sia per l’opportunità concessa, e anche perché grazie alle sue canzoni sto realizzando il sogno di cantare in giro per l’Italia anche in collaborazione con la Fondazione Lucio Dalla. Il nostro è un omaggio, c’è un’interpretazione rispettosa ma non siamo una semplice tribute band: noi prendiamo soprattutto l’ultima parte di tour che fece con De Gregori, il “Work in Progress”. Questi risultati che ho ottenuto li porterò sempre con me, ma le soddisfazioni sono anche quelle di pubblicare le mie canzoni, che possono essere ascoltate in tutto il mondo, perché poi la Rete ti da’ questa possibilità, e difatti alcuni miei brani sono finiti in serie americane, delle CBS o della ABC; un altro brano mio è stato utilizzato  in uno spot televisivo in Olanda, dove ho fatto vari concerti, perché ho creato una rete di relazioni là e ogni tanto riesco a stare alcuni giorni a suonare.

Quindi io sono molto felice, vado avanti giorno per giorno, pian piano e questa nuova opportunità di portare avanti il mio progetto, le mie cose, mi stimola tantissimo. Uno dei miei desideri era provare a esportare le mie canzoni all’estero e sono finito nel posto giusto! Con l’etichetta con cui mi sto rilanciando siamo entrati in classifica in Danimarca, poi sono entrato in una compilation fra le più importanti in Polonia, distribuita dalla Universal, c’è insomma molta attenzione sul mio progetto da parte dell’etichetta. Spinosa della RNC Music crede nel mio progetto, pensa che sono l’unico artista che canta in italiano dell’etichetta e sento proprio la loro fiducia nei miei confronti. Tutto questo mi stimola ad andare sempre avanti. Stanno lavorando molto bene sul singolo, anche se sappiamo bene che ci sono certi meccanismi ormai e non è semplice fare breccia nelle radio italiane e altro. Alla fine dipende sempre dal tipo di pezzo che fai”

“Infatti, a proposito di strategie e meccanismi, se tu fossi più giovane, affronteresti un talent show o sei fra quelli che dici che quella uscita dai talent in tv non sia musica?”

“Sinceramente no, credo che farei come quegli artisti indie, proverei cioè sul campo a farmi notare. Se ci pensi, tutti i nomi che abbiamo fatto prima non vengono dai talent. Poi ovvio, anche dalla tv sono usciti dei bravi artisti, ma in genere non è un mondo che mi stimola, quindi non credo avrei tentato quella strada”

“Anche perché poi si entra appunto in quel meccanismo, per cui molti fenomeni dei talent durano esattamente una stagione per poi farsi sostituire da quelli della nuova edizione e per gli artisti che credono nella propria musica, bisogna ripartire in pratica da zero, quindi direi che non è tutto oro quello che luccica”

“Infatti, la penso esattamente come te, per questo ti rispondo che fossi in questi ragazzi, cercherei di suonare in giro, nei club, di fare sentire i miei pezzi. Gli artisti indie magari c’hanno messo anni, penso a Lo Stato Sociale, o allo stesso Calcutta, però poi hanno raccolto i frutti del loro lavoro e ora possono contare su un pubblico vero, che è quello che più conta. E’ come in pratica mi metto in gioco oggi, con l’apporto di Marco Stanzani di Red & Blue che sta ampliando i propri servizi, stiamo pianificando delle date di presentazione dell’album. Sento sia questa ancora oggi la strada migliore, ho proprio voglia di andare nei club per presentare questo disco, queste nuove canzoni perché credo abbiano il linguaggio simile a quello dell’indie pop di adesso. Al di là dei singoli usciti che sono più adatti a far ballare e rivolti più forse un pubblico anche estero, gli altri pezzi penso possano costituire un terreno fertile in tal senso, staremo a vedere, faremo delle presentazioni quando uscirà l’album”

Fotografia di Andros Pugolotti

“Una curiosità per finire, da appassionato invece qual è il concerto più bello a cui hai assistito e che ti ha coinvolto particolarmente?”

“Quello di Paolo Conte! Fu il suo primo grande successo italiano, con questa orchestra meravigliosa, avevo 14 anni, e poi Sting, devi sapere che io sono sempre stato un grande fan dei Police e di Sting, lo sono ancora adesso perché è un grande artista: quel live con l’orchestra per il “Symphonicity Tour”, al teatro dell’Arcimboldi a Milano, è stata una cosa pazzesca”

La nostra lunga chiacchierata termina qui e ciò che ne ho ricavato è che Stefano Fucili, pur avendo messo in fila una lunghissima serie di esperienze, è rimasto quel ragazzo armato di chitarra che muoveva i primi passi in musica, animato da tanta genuina passione. Soprattutto è motivatissimo per questa nuova avventura discografica iniziata l’anno scorso e immagino che, mentre mi parlava delle sue canzoni, i suoi occhi da dietro lo schermo del telefonino brillassero.

Salutandolo non posso che fargli sinceramente un grosso in bocca al lupo per i suoi nuovi progetti, in attesa di sentire il suo nuovo album.

 

Una piacevole chiacchierata con Olden, autore con “Prima che sia tardi” di uno dei dischi italiani più belli dell’anno

Ho conosciuto personalmente il cantautore Olden (il cui vero nome è Davide Sellari) nell’ottobre scorso, in quel di Sanremo. Era giunto tra i finalisti nella categoria “miglior album di interprete” e, benché la sua (interessante) rivisitazione di brani anni sessanta (intitolata emblematicamente “A60”) non si fosse aggiudicata la prestigiosa Targa relativa, era riuscito comunque una volta di più a farsi notare e far arrivare la propria musica, anche mediante brevi ma intense esibizioni durante la giornata che andavano a intervallare momenti strutturati come le conferenze stampa della Rassegna del Premio Tenco.

Foto di Flavio Ferri

Io come giurato della manifestazione gli avevo dato fiducia, votandolo con convinzione, e in quel contesto ebbi modo di scambiare qualche chiacchiera con lui (e col suo fido produttore Flavio Ferri, che conoscevo molto meglio per via della sua militanza nei Delta V, band assurta al successo e alla popolarità tra la seconda metà degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio), con la promessa di continuare a seguirlo nel suo nuovo progetto previsto per l’anno a venire.

L’idea che ci facemmo io e mia moglie Mary fu quella di due artisti che credevano moltissimo nel proprio lavoro e che riuscivano a trasmetterti tutta la loro passione.

Quel disco tanto atteso, intitolato “Prima che sia tardi” si è rivelato alla fine davvero notevole, mantenendo di fatto le promesse.

Ne ho scritto per Indie For Bunnies, una delle testate musicali con cui collaboro, ma l’occasione è diventata propizia per scambiare qualche chiacchiera a proposito del disco e più generalmente sulla sua musica e sul significato che questa ricopre.

Lui perugino di nascita da tempo vive in Spagna, catalano ormai d’adozione, e alla fine ci si è accordati per sentirci via whatsapp: nonostante l’insolito espediente (almeno per me), quel che ne è uscita è un’intervista ricca di contenuti in cui in modo molto naturale e spontaneo ci si è aperti su molti argomenti, bevendoci su fra l’altro una birra (seppur a distanza).

“Ciao Davide, come prima cosa vorrei chiederti dove ti trovi in questo momento e com’è la situazione dalle tue parti. Come stai? Lo so, sembra la classica domanda rompighiaccio ma in periodi come questo assume il suo reale significato.

“Ciao Gianni, in questo momento sono a Barcellona che è casa mia ormai da undici anni; sono nel mio appartamento qui vicino al mare, siamo chiusi ormai da due mesi. Purtroppo a Barcellona ancora non si è avanzati dalla fase 1, che è quella dove si riapre qualche bar coi tavolini fuori, un momento di socialità che è ora che torni presto perché mi manca ed è una cosa a cui sono un po’ abituato. La frustrazione ormai è un po’ cronica, è diventata meno acuta ma spero che finisca presto perché non è molto produttiva. Non sono uno di quegli artisti che in questo periodo stanno scrivendo. Sto provando a scrivere ma con grande difficoltà, ho bisogno di prendere l’aria, di vedere un po’ la strada, di sporcarmi i piedi e le mani, altrimenti non so se riuscirò a creare cose nuove, insomma. La situazione è un po’ questa, poi la differenza va da città a città, da Regione a Regione, noi siamo quelli un po’ indietro insieme a Madrid”.

“So che abiti da tanti anni in Spagna, a Barcellona per l’esattezza. Nella mia recensione (lusinghiera, questo te lo posso anticipare, io non mi sbilancio mai con i 10 ma 8, 8/5 per me sono già voti altissimi), ho scritto magari in maniera azzardata che la tua formazione musicale, anche se era iniziata ovviamente in Italia, si è sviluppata principalmente in Spagna attraverso il contatto che hai avuto con alcune istanze del luogo, non soltanto dal punto di vista ambientale ma anche sociale (che non significa necessariamente per la tua vicinanza alla Catalogna e tutto quello che sappiamo riguardo il movimento per l’autonomia). E’in Spagna che sei venuto in contatto con certo tipo di musica che poi ha indirizzato i tuoi gusti e il tuo modo di comporre, giusto? Se non è così, puoi spiegarmi meglio?”

“Intanto grazie per il voto, io più di 8 non l’ho mai preso, quindi per me 8 è già 10! Sono contento perché quando il disco fa centro è sempre una soddisfazione, poi essendo un album anche abbastanza atipico mi fa molto piacere. Guarda, la mia carriera solista è cominciata in Spagna, il mio primo disco l’ho fatto nel 2011 con un’etichetta catalana che era Daruma Records; quindi sono entrato in contatto con questo produttore: Marc Molas (molto giovane che aveva e ha ancora un’etichetta), il quale dopo aver sentito i miei provini produsse il mio primo disco, in inglese. Dopodichè si è sviluppata la mia carriera, anche se io venivo già da parecchi anni di gavetta come cantante di varie band a Perugia: la prima band si chiamava “Roarrr”, la seconda “Zonaplayd” (con citazione di “Balle Spaziali” per chi è fan di questi film) e infine i “Figli di John”, più o meno mantenendo la stessa formazione con qualche cambio. Quindi ho scritto le mie prime canzoni in Italia quando avevo tipo 16/17 anni, diciamo forse anche 18, Olden in pratica è nato tra l’Italia e la Spagna, durante il mio viaggio in questa transizione mi sono trasformato e sono entrato in contatto qua non tanto con la musica locale, quanto con delle persone che mi hanno permesso di conoscere nuovi ambiti. Uno dei casi più importanti è stato incontrare Sergio Sacchi del Club Tenco, attraverso Steven Forti, che ora fa parte anch’egli del Tenco ma è prima di tutto uno storico e appassionato di musica. Forti faceva un programma radiofonico a Barcellona per italiani, dove mi ha invitato, così ci siamo conosciuti e gli ho fatto sentire le mie cose. Ricordo che a quei tempi Sergio Sacchi (che ancora non credo fosse direttore artistico del Tenco ma solo presente nel Direttivo) aveva ascoltato le mie cose, gli era piaciuto molto la mia voce e mi disse: “Ma perché non canti in italiano?”: era curioso di sentire come scrivevo.

Questa cosa un po’ mi ha stimolato, già avevo voglia di tornare a scrivere in italiano perché è quello che avevo fatto sempre in Italia – questo episodio in inglese era stato uno spartiacque, una pausa –  e da lì ho ricominciato a scrivere nella mia lingua, ho fatto il mio primo disco poi ne sono usciti altri tre (questo che è appena uscito è il quinto). Quindi sicuramente l’atmosfera e l’ambiente di Barcellona anche inconsciamente qualcosa mi hanno lasciato, ma musicalmente forse meno di quanto si possa immaginare perché comunque sono rimasto fedele ai miei mondi e ai miei gusti: il rock britannico soprattutto, la musica d’autore italiana, nonostante abbia potuto negli anni conoscere delle cose nuove, anche in catalano, che mi hanno sicuramente lasciato dei segni”.

(Grande la citazione di “Balle Spaziali”, l’avevo visto che ero poco più che un bambino!)

“Tornando alla domanda precedente, mi riferivo non esclusivamente al fatto che tu fossi stato influenzato dalla musica spagnola in sè; sapevo però che avevi avuto modo di partecipare al programma di Steven Forti e intendevo dire che in Spagna eri stato coinvolto per la prima volta in qualche progetto legato alla canzone d’autore: avevi interpretato Leo Ferré, anche De Andrè e quindi in qualche modo eri entrato in contatto diretto con quel tipo di musica.

“In quel senso hai ragione riferendoti al mio incontro con le realtà locali, perché io comunque – sempre tramite Steven che è stato veramente cruciale – ho partecipato a degli spettacoli di Barna Sants (una sorta di Tenco catalano), un Festival sulla musica d’autore. Avevamo fatto anche uno spettacolo scritto da Sergio Sacchi e da Joan Isaac sulla storia dell’Anarchia (e tra l’altro venimmo anche al Casinò di Sanremo; poi a Carrara al Primo Maggio facemmo un concerto della Cgil con gente come Staino e Guccini presenti). Si chiamava “Canzoni d’Amore e d’Anarchia” ed era molto bello, erano presenti canzoni anche in catalano, in spagnolo, in tutte le lingue; poi ho preso parte anche a un disco, sempre di Barna Santz (“Cuba Va”) stavolta dedicato a Cuba e alla Rivoluzione Cubana, insieme a cantanti sia cubani che spagnoli. Anche in quell’occasione cantai in catalano e in spagnolo, c’è anche la mia versione di “Cohiba” di Daniele Silvestri tra l’altro. Quindi sì, direi che in effetti ho preso parte a diversi spettacoli qui a Barcellona, con esperienze spesso legate al Tenco, a “Cose di Amilcare”(l’Associazione di Steven Forti e di Sergio Sacchi), la costola catalana del Tenco, il Barna Sants, dove sono entrato in contatto con artisti locali”.

Foto di Flavio Ferri

“Venendo alla tua musica, io ti avevo conosciuto con il tuo album precedente ad “A60”. Era già un bel disco secondo me, ma meno a fuoco rispetto a quello già citato candidato alla Targa Tenco e molto diverso da quello che ci hai presentato in questo 2020. Già “A60” aveva delle buone premesse, perché sembrava un album “tuo”, nonostante contenesse solo cover. Tante volte i dischi di interprete sono più o meno fedeli agli originali, oppure cambiano con risultati modesti o quantomeno azzardati. Nel tuo caso invece, sembrava come detto proprio un disco personale, un po’ perchè forse le canzoni scelte non erano poi così note, ma soprattutto perché sei riuscito a far trasparire la tua anima musicale.

Adesso tutto questo si è ampliato in un disco come “Prima che sia tardi”, volevo chiederti: da dove è partita l’idea che sta alla base del lavoro?

Non è da tutti realizzare un album che (come ho definito nella recensione), parla di una realtà distopica ma non troppo in fondo: è una realtà sinistra quella che descrivi ma che è un po’ lo specchio, la paura di quello che ci vediamo davanti quando sentiamo parlare alcuni esponenti politici. Tu hai fatto riferimento a una proiezione scurissima della realtà odierna, oppure volevi fare un disco che andasse in qualche modo a trasfigurare l’Olocausto, il Nazismo? Perchè io nelle canzoni ci rivedo molto quel periodo lì, nei “Quartieri di Lavoro”, nella figura del dittatore…”

“Parlando dei miei dischi, “Ci hanno fregato tutto”, quello a cui ti riferisci, è un lavoro che secondo me è venuto bene a metà, perché segna temporaneamente la fine di un collegamento ad un mondo più pop, o per lo meno pop rock; lì ci sono degli episodi del quale non sono neanche tanto contento (tipo “Gianni”, proprio quello che porta il tuo nome, non è uscito fuori come volevo) e da allora ho voluto appunto staccarmi dal contesto pop (anche se i testi cercavano già allora di essere poco pop, con dei contenuti non solo di evasione ma anche di riflessione) e l’incontro con Flavio Ferri (il mio produttore a partire dal successivo “A60”) è stato molto importante, direi fondamentale, perché anche con le sue critiche, l’idea che aveva di quel disco, mi ha fatto capire tante cose: che non bisognava giocare sul sicuro ma che dovevamo provare a rischiare. Disse che avrei dovuto provare a valorizzare diversi aspetti, come ad esempio la mia voce, senza riempire il disco di troppi suoni, e renderlo invece minimale. Voleva mettere in luce soprattutto la voce, la melodia e i testi.

Il progetto sul nuovo disco è venuto dopo una chiacchierata con lui in un bar e dopo un po’ di birre, quando lui mi ha suggerito: “trova un’idea, pensa a qualcosa, raccontiamo una storia!”. Sembra una banalità ma quella conversazione mi ha fatto scattare la voglia di mettermi a scrivere come veramente non avevo mai fatto prima; buttai giù così una sorta di romanzo (una sessantina di pagina), dove ho creato poi questa storia che ascoltate nel disco. Ed è stato facile trovare l’ispirazione, perché in quel periodo, in Italia (ma non solo) si stava assistendo sempre di più a un certo ritorno di politiche populiste e che in certi casi, diciamolo, ricordano dei regimi passati, neo fascisti (anche se ovviamente non siamo arrivati a quello in Italia). Sappiamo ad esempio quello che succede in Turchia, pensiamo inoltre a personaggi come Bolsonaro e Trump, che non saranno neo fascisti ma comunque calcano certe ideologie populiste che spesso sfociano nella xenofobia e nell’intolleranza, lo abbiamo visto purtroppo in tanti casi.

In quel periodo non ne potevo proprio più di assistere a questo spettacolo indegno dei “pollai social” nei quali si sfogava tutta la rabbia e la frustrazione di persone che giravano intorno soprattutto a Matteo Salvini. Mi è venuto una sorta di rigurgito di questa destra italiana populista che sull’immigrazione ci ha lucrato e ci campa da anni, tanto che in tempi non sospetti dicevo ai miei amici italiani: “ma vi rendete conto che in Italia si parla solo di immigrazione, solo di stranieri?”. Da molti anni stanno preparando questo tipo di politica. Leggere tanti commenti di odio, vedere – anche se da lontano – tanta superficialità in giro nelle persone, mi ha portato a creare una reazione interna che poi è scaturita nella scrittura di questa storia. E’ un disco dedicato alla libertà e all’uguaglianza, che va contro ogni tipo di intolleranza. Racconto nel disco una dittatura, tu dici che è distopica ma in realtà non è appunto così lontana dalla realtà, infatti spesso la definisco una realtà parallela o comunque purtroppo prossima, ed è anche un modo quindi per “avvisare”: “Prima che sia tardi” intende proprio quello, avvisare che il passato nero può tornare, ed è compito anche degli artisti trasmettere dei messaggi che non siano solo di intrattenimento. Conte dice che lo facciamo divertire, e forse ha anche ragione, perché molti artisti si sono dimenticati che la musica oltre che intrattenimento può essere molto di più, è anche contenuto”.

(In effetti è un’analisi molto lucida. E’un pericolo reale quello che Olden descrive o ipotizza nelle sue canzoni, seppur in modo allegorico, anche se avevo intuito ci fosse da parte sua piena consapevolezza e non fosse soltanto una profezia… come in quei film tipo “Contagion” che visto oggi mette i brividi).

“Il tuo non è un messaggio profetico, almeno mi auguro, è più un monito reale che ci stai dando con la tua musica: prima che sia tardi, cerchiamo tutti di drizzare le antenne.  L’uscita di Conte è stata molto infelice ma è un po’ lo specchio dei tempi, perché purtroppo per l’ascoltatore occasionale o distratto, sembra che ci siano spazi ridottissimi per la canzone con dei contenuti.

Tu con il tuo disco sei riuscito benissimo in questo, e un tempo album del genere riuscivano ad arrivare ai primi posti in classifica. Adesso non è più così e io non sono sicuro che un disco seppur dal valore intrinseco come il tuo, possa ottenere il successo che spettava ai grandi cantautori negli anni 70, però mi auguro che tu abbia un riconoscimento giusto in quelle sedi competenti, perché oltre ad avere un’idea tu ci hai sommato una grande qualità proprio dal punto di vista musicale.

Ci sono canzoni che, chiaramente, vanno seguite dalla prima all’ultima (mai come in questo disco, perchè c’è un continuum seguendo il viaggio della protagonista Zahira e del suo amico che l’aiuta a distanza), però diciamo che tu hai saputo nei momenti topici del racconto valorizzarli al massimo con degli spunti degni dello spessore delle liriche. “Aquilone” ad esempio, uno dei momenti importanti del racconto, è accompagnato da una canzone che spicca (non a caso primo singolo), però mi viene in mente anche “Mare tranquillo”, una canzone che mi ha colpito molto, oppure “Il clown” che sinceramente è il brano che più fa emozionare. Come sei riuscito ad adattare in questo caso le parole alla musica? E’ stato difficile, visto che è la prima volta che ti cimentavi in un concept album, oppure ti è venuto naturale creare quel climax giusto in base alle diverse fasi del racconto?”

“Gli spazi per la musica con dei contenuti non sono molti però ci sono, ma soprattutto confido che forse, dopo quello che è successo, ci siamo finalmente resi conto delle cose importanti. Ci sono due futuri che io vedo, che ipotizzo: o dopo questa epidemia, dopo questo momento terribile, si ritorna a una sorta di anni 60 nel quale c’era bisogno di evasione e di divertimento ancora più frivolo (e non solo ovviamente, perchè poi gli anni 60 hanno creato cose meravigliose, c’era una grande gioia, un’esplosione di vitalità), oppure ci si renderà conto che il sistema capitalista e un certo tipo di consumismo e di edonismo forse è il momento che si fermino, perchè ci stiamo rendendo conto che le cose importanti sono ben altre. Io auspico un ritorno ai contenuti, spero ci sia la voglia di riassaporare cose più concrete, più vere, con più sostanza.

Riguardo la musica del disco, stavolta ho scritto prima di tutto le parole, quindi dopo il romanzo ho adattato i testi e di giorno in giorno li mandavo a Flavio che poi mi dava un parere. Mi diceva cose tipo: “questo sviluppalo, questo è bello, questo è brutto, qui lavoraci di più…”. Io gli ho dato retta quasi sempre perché di lui mi fido molto, perché mi ha capito profondamente e questa è una grande fortuna. Mi ha permesso di scegliere una decina di testi, sul quale poi ho iniziato a scrivere delle musiche. Le ho scritte in casa e poi in studio con Flavio ci abbiamo lavorato; lui le ha arrangiate soprattutto, io ho dato qualche idea ma ho lasciato spazio a Flavio perché ha delle idee molto belle, molto giuste: lui capisce come valorizzare le cose (non solo con me ma con tutti i quali lavora) e quindi in fondo è stato abbastanza facile devo dire arrivare al prodotto finito, perché le musiche e le melodie poi mi sono venute abbastanza velocemente e per l’arrangiamento,come detto, Flavio ha dato un contributo veramente importante. E poi ci tengo a ricordare anche l’apporto musicale di Ulrich Sandner, chitarrista che ha impreziosito con delle idee il lavoro”.

“Non sapevo che gran parte del merito dell’arrangiamento fosse di Flavio, pensavo avesse svolto più un ruolo da produttore. Io lo apprezzo da sempre nei suoi dischi con i Delta V e credo sinceramente sia una fortuna quando un artista trova un produttore che diventa qualcosa di più di un produttore, una persona davvero fidata. Mi sembra di capire che lui sia uno che vuole il bene dell’artista, una cosa che non è sempre così scontata quando si comincia a lavorare, invece voi avete creato un bel binomio e credo che ci sarà soltanto da guadagnarci, vista anche la sua grande esperienza”.

“Flavio è un pezzo importante di Olden, è ormai parte integrante, non riesco neanche a chiamarlo produttore perché è prima di tutto un amico, una persona che mi vuole bene e mi stima, e che a dispetto di quello che sembra è una persona che si commuove quando riceve bellezza, quando sente qualcosa che ritiene bello. A me è servito molto perché, come dici tu, lui vuole il bene dell’artista o quanto meno vuole che l’artista tiri fuori quello che è. Se questi non ha niente da dire, lui te lo ribadisce senza mezzi termini; se sente invece che tu hai qualcosa da dire cerca di farti capire come dirlo, e questo è veramente preziosissimo, senza mai secondi fini ma solo appunto per la bellezza”.

“Prima avevo fatto riferimento a “Il Clown” ma anche “Non tu, noi” è una canzone che mi piace tanto e la prima volta che l’ho sentita mi ha emozionato. Ne “Il Clown” lì si arriva in pratica al compimento, alla fine del Regime, però non è una canzone di rivalsa, di rabbia: questo mi ha colpito molto, perché sembra quasi il Popolo essere compassionevole nei confronti del dittatore, o meglio non va a infierire, tanto che il dittatore, l’Oca Nera, si è ormai ridicolizzato da solo. Insomma, il popolo anziché schiumare ancora rabbia, preferisce lasciarsi alle spalle il brutto periodo e guardare già avanti, pensando finalmente a un nuovo futuro. Mi è piaciuta tantissimo questa cosa ma non so se è una chiave di lettura giusta, dimmi tu”.

“Sì, dici bene, il clown è esattamente questo, è una canzone che vuole sostanzialmente svelare, togliere la maschera al dittatore che in realtà è un buffone, perché ne abbiamo avuto esempi nel passato, no? E’ banalissimo forse citare Hitler o Mussolini ma il discorso se vogliamo vale anche per Stalin: erano personaggi che sembravano delle caricature, tu li vedi adesso nei loro comizi ed erano sommamente ridicoli, nella loro foga, nella loro retorica assurda. Sono delle persone che fondamentalmente nascondono qualcosa di tragico e di ridicolo allo stesso tempo, sono personaggi grotteschi. Quindi non è necessario infierire, soprattutto se chi condanna quel tipo di persona si ritiene differente. Infierire è comunque sempre un atto violento: condannare la violenza con la violenza sarebbe poco coerente. Il senso è allora: “si lasci pure il clown al proprio destino”, che poi in realtà quello che fa è praticamente uccidersi, ciò che dice la canzone. Il problema è che questo succede sempre dopo aver lasciato morti e tragedie alle proprie spalle. “Non tu, noi” è invece una delle poche canzoni prettamente non politiche, è molto personale nel raccontare un sentimento, che ci voleva in quel preciso momento del disco, dove lui scrive a Zahira dicendole che le manca, le manca quello che sono, non tanto lei (ovviamente è una provocazione dialettica) ma quello che sono loro insieme”.

“La nostra lunga chiacchierata è giunta al termine, vorrei chiudere chiedendoti quali sono le tue prospettive. Un po’ mi hai risposto prima ma mi piacerebbe sapere quali sono le tue aspettative personali su questo lavoro. Cosa ti aspetti da questo disco, Covid 19 permettendo?” 

“Questo disco come dici tu purtroppo è stato bloccato quasi sul nascere, a causa di questo terribile virus. Noi siamo riusciti a fare la presentazione, la conferenza stampa a Milano e dei concerti tra gennaio e febbraio. Siamo arrivati a un po’ di persone, anche fra gli addetti ai lavori e ad aprile maggio saremmo dovuti tornare probabilmente con un numero ancora più importante di date, perché come dico sempre questo è un disco che va raccontato direttamente. Le persone andrebbero prese una per una e “costrette” in un certo senso ad ascoltarlo, perché solo se ti permetti di accostarti ad esso in una certa maniera, di essere immerso in una particolare atmosfera e di seguirlo attentamente, puoi coglierne l’essenza, sennò probabilmente rischia di sfuggire. Quindi il fatto che siano mancati i live è stata una grande pecca, perché avremmo potuto raccontarlo veramente bene alla gente.

In quei pochi live eseguiti, ho visto che la reazione del pubblico è stata molto emotiva, si notava che la gente presente ai concerti era molto colpita ed era rimasta intrigata dalla storia. Il messaggio del disco era arrivato! In questo mondo, in questa società di oggi, dove tutto è rapidissimo, tutto è veloce e quasi tutto virtuale, oggi che al momento mancano anche i contatti reali purtroppo è un problema. Ma sono fiducioso, perché convinto che con “Prima che sia tardi” abbiamo fatto una cosa bella e sincera, che verranno fuori sempre più persone che lo ascolteranno e lo apprezzeranno. Per il futuro speriamo di riprendere qualche live se possibile da qui a fine anno, sto provando a scrivere delle cose nuove che potrebbero essere anche collegate a questo disco, perché forse non ho ancora detto tutto”.

PS –  Comunque la canzone “Gianni” mi aveva colpito molto, non ci sono poi molte canzoni col mio nome… è famosa “Gianna” di Rino Gaetano ma non è proprio la stessa cosa! Non mi riconoscevo ovviamente nel tuo pezzo, per come lo descrivi, però era un brano con un ritmo particolare. E’chiaro che sembra lontanissimo da quello che stai facendo adesso, direi che sei molto maturato come autore e credo sinceramente che sia questa la tua strada”.

“Chiudiamo volentieri con “Gianni” allora e torniamo un po’ indietro nel tempo. Devo dire che mi piace il testo di questa canzone, perché credo abbia un’ironia bastarda. Testo che in realtà è serio, ironico, dove descrivo un personaggio squallido che condanno. Il problema è che poi è risultata una canzone allegra e spensierata, l’ascoltatore medio magari nemmeno ci fa caso a qual è il vero senso della canzone. Non la rinnego ma forse l’arrangiamento, come è venuta fuori nell’insieme, non mi convince più ed ora non farei mai una cosa del genere.”

Credo sinceramente che possa dormire sonni tranquilli, dubito infatti che alla luce di questo lavoro ci sia qualcuno che ancora fraintenda le sue reali intenzioni: Olden adesso fa sul serio e ha tutte le carte in regole per durare a lungo.

 

La mia intervista a Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione, gruppo che ha appena dato alle stampe il loro atteso nuovo album: “Le storie che ci raccontiamo”

Condivido con gli amici del blog la mia intervista a Tommaso Cerasuolo, cantante dei Perturbazione, gruppo a cui con grande piacere farò da moderatore col pubblico al loro prossimo incontro alla Feltrinelli di Verona in via Quattro Spade (Giovedì 28 alle ore 18). Oltre a parlare del disco nuovo “Le storie che ci raccontiamo”, uscito ieri, 22 gennaio, si esibiranno in un mini set acustico di 4 pezzi nuovi.

http://www.troublezine.it/interviews/20580/perturbazione

Abbiamo avuto modo di chiacchierare col frontman dei Perturbazione Tommaso Cerasuolo, raggiungendolo al telefono per quella che si è rivelata una discussione ricca e piacevole. Un nuovo album è alle porte (“Le Storie che ci raccontiamo”, esce il 22 gennaio per Mescal) e le cose da dire sono decisamente tante.
Tommaso è ancora leggermente convalescente da un’influenza, ma pieno di entusiasmo per l’uscita del singolo anticipatore “Dipende da te”, diffuso proprio il giorno fissato da noi per l’intervista.
Il ghiaccio è stato prontamente rotto, parlando simpaticamente della sua situazione forzatamente “casalinga”…

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Ciao Tommaso, nel farti un grosso in bocca al lupo per una pronta guarigione, ti chiedo se hai avuto modo di tastare “in diretta” il polso della situazione sul nuovo singolo: reazioni, pareri ecc, che idea ti sei fatto a proposito?
Ciao Gianni, beh, mi sembrano buone come prime impressioni…

Appena sentito il brano, ho immaginato potesse essere un singolo perfetto: un bel testo, una melodia ficcante e soprattutto questo suono, molto moderno, o meglio contemporaneo. Che non significa esservi snaturati, però avverto un’attitudine diversa. Ci vuoi dire qualcosa al riguardo?
Grazie delle tue parole. In realtà siamo sempre noi, anche se credo sia naturale cambiare, anzi, sia una cosa necessaria, fisiologica. Di pari passo va anche quella nuova forma di “leggerezza”, derivata anche qui molto semplicemente da un fatto biologico. Siamo invecchiati e si tende a lasciare un po’ da parte la pesantezza, o a dargli un significato diverso, magari accettandola come un fatto a volte connaturato, senza farsi più paranoie. Lo diciamo a chiare lettere nella canzone che anticipa il disco, una sorta di prologo.  Il concetto è proprio quello: ogni cosa dipende da noi. Crescendo non si hanno più alibi o costrizioni, possiamo determinare noi molte situazioni. E’ l’atteggiamento che fa la differenza, il desiderio di giocarsela sempre. Non deve influire il risultato ma come ti piace vivere la tua vita.  Non abbiamo perso la vena malinconica, credo emerga da alcuni testi, canzoni di quel tipo fanno sì che molte persone che ci ascoltino, ci si possano specchiare, immedesimandosi, ma specie nei concerti abbiamo bisogno di dare e ricevere benessere. Credo che anche questo conti col fattore “biologico” (ride, ndr): ci piace scrivere anche pezzi “da lunedì mattina”, che diano forza e carica!

E poi ci sono quei brani dove il mix è particolarmente riuscito, che fanno da sempre parte del vostro repertorio…
Sì, ci sono sempre piaciute quelle canzoni in cui a una melodia vivace, allegra, si sposa un testo che non lo è propriamente, in questo caso penso che il contrasto tra una storia di un certo tipo e un’attitudine musicale diversa sia riuscito in brani come Trentenni, al quale abbiamo omesso l’articolo femminile davanti, anche se è riferito in special modo alle ragazze, o Cinico.

Proprio quel brano, Trentenni, mi pare di aver capito che ti stia a cuore, racconta però una generazione che ormai non ci riguarda (mi ci metto anch’io dentro, visto che vado per i 39…), è già intrisa di nostalgia anche questa?
Riguarda la generazione precedente, però tutto sommato alcune dinamiche sono sempre valide e si ripetono nel tempo. E’ una di quelle canzoni che ha racchiuso il senso del disco. Ci piace molto, ma è un brano forse meno immediato all’ascolto, cucinato a fuoco lento.  Crediamo che la gente vi si possa riconoscere e capirla. Trasmette empatia, lasciando una piccola sorta di inquietudine perché ti accorgi che i conti non tornano. Io e Rossano specialmente abbiamo sempre avuto questa “mania” dell’osservazione, di guardare la realtà attorno e dentro di noi. Uno spunto, un dettaglio, molte canzoni prendono la loro origine da ambientazioni molto vicine, quasi dirette. Possono riguardare non solo noi stessi, quindi essere biografiche, ma anche in modo indiretto le persone che ci sono accanto, o semplicemente leggendo le notizie, annusando l’aria. Amori finiti, il tempo che scorre, tu che ti vuoi rimettere in gioco, riguadagnando il terreno, storie con cui ti ritrovi a fare i conti. E’ la vita stessa, e qui subentra di nuovo quella leggerezza, che non è negativa ma che diventa una misura per sopravvivere, quasi una forma di necessità.

E poi c’è il tema della identità, che mi pare emergere prepotente nella simpatica ma anche triste (a me è venuto da sentirmi solidale col protagonista maschile!) Cara rubrica del cuore. Sono queste le conseguenze di quelle “storie che ci raccontiamo”?
Vedi, sono punti di vista molto diversi a seconda di chi ascolta. Probabilmente le ragazze odieranno quella canzone, e il protagonista verrà additato come il classico stronzo! Alla fine dei brani ci siamo resi conto che era un album mai come stavolta fatto di storie. La canzone che dà il titolo al disco in fondo è venuta tardi ma ha rappresentato il filo conduttore, ha legato assieme tutto il resto. Alla fine ciò che conta è la misura nelle cose. Tema del disco è proprio quello: scoprire la misura tra chi siamo e chi ci raccontiamo di essere. Purtroppo molta gente non è in grado di farlo e finisce quasi inconsapevolmente per essere un immagine non reale di sé stessa. Già a scuola basta poco per essere classificati, se ci pensi. Ti mettono in una casella, ma non è così. Ci sono tantissime sfumature, ti dovrebbero insegnare che non esistono solo il bianco e il nero, ma anche molti tipi di grigio. Gli esseri umani tutti dovrebbero sistemarsi in quella fascia, perché l’animo umano è molto più complesso, ti ritrovi a scoprirlo spesso a tue spese.

Passando a questioni più tecniche, per la prima volta siete “usciti di casa” per registrare il disco, lavorando con Tommaso Colliva a Londra. In qualche modo questo fatto ha influito sull’umore del disco?
Colliva è un produttore che ci è sempre piaciuto. Al di là dei suoi importanti lavori, l’avevamo apprezzato per quanto fatto con Ghemon (che collabora, rappando nella traccia Everest, ndr) e grazie a lui lo avevamo contattato per il nostro disco. Lui ci conosceva e ha risposto subito positivamente, solo che in un primo momento non c’erano i tempi per poterci vedere e mettere al lavoro. Noi in realtà avevamo già da un po’ di tempo iniziato a lavorare sui pezzi, dando loro una direzione piuttosto precisa. Quando Tommaso ci ha ricontattati per dirci che si era liberato, ci ha chiesto espressamente di volare a Londra, visto che lui è di base lì, lavorano molto per i Muse da qualche anno e così, con spirito rinnovato, ci siamo ritrovati nella metropoli londinese. Lui non è uno di quei produttori che arrivano e stravolgono, è invece un che si mette al servizio delle canzoni. Abbiamo lavorato in piena sintonia, Londra c’ha influenzato soprattutto da un punto di vista “dell’energia”!

Nella carriera di un gruppo, specie quando comincia a diventare duratura come la vostra, si sente spesso il bisogno, arrivati a un certo punto, di tirare in ballo il discorso sul “nuovo inizio”. Nel vostro caso poteva essere accaduto con Sanremo, che ha rappresentato una svolta, dandovi ampi consensi di pubblico generalista e grande popolarità. La temuta (per i fans storici) svolta “mainstream” c’è stata in parte, nel senso che avete mantenuto comunque il vostro spirito, ma è indubbio che rivedervi in quattro, senza Gigi e Elena, dà l’idea, anche visivamente parlando, che siamo sì davanti al disco del “nuovo inizio”. Un nuovo percorso che sembra insolitamente sereno…

E’ indubbio che qualcosa sia cambiato, ma quando ci sono questi grandi scossoni non è sempre detto che poi non si possa ripartire ancora meglio. Accade nelle migliori famiglie, non è una frase fatta, lo so per esperienza personale. E noi non solo eravamo percepiti come famiglia, lo eravamo in effetti. Moglie e marito (appunto Gigi e Elena), due fratelli (Rossano e Cristiano), e poi io, Gigi e Rossano che per tantissimi anni eravamo di fatto un tutt’uno, sempre assieme, a condividere mille esperienze, non solo “professionali”, sul palco a suonare, ma proprio di vita, di crescita. E’ andata così, non possiamo rimproverare nessuno. Una frattura come quella familiare, prima che artistica non può non lasciare strascichi, e sono sicuro che Gigi e Elena ora sono più sereni. In realtà qualche sentore che qualcosa di grosso in seno al gruppo si stesse spezzando, era nell’aria da ben prima di Sanremo, però questo lo voglio dire con forza: tutti hanno dato il massimo, senza risparmiarsi. Abbiamo affrontato prima il Festival, poi quel lunghissimo tour e le altre esperienze correlate con grandissima intensità, l’abbiamo presa benissimo. Abbiamo avuto occasione, nello stesso anno, di suonare in contesti diversissimi fra loro, raggiungendo persone tra le più diverse. E questo era una cosa che tutti avevamo sempre sognato di raggiungere. Poi alla fine, qualcuno ha detto basta, ma ci sta, è la vita!
So che può sembrare strano, per chi ci ascolta da sempre, vederci in 4, ma noi abbiamo solo voglia di andare avanti e suonare il più possibile. Ci siamo ritrovati in piena armonia, per questo disco le cose sono filate molto lisce e mi fa piacere che l’ascoltatore possa avvertire una nuova aria. Stefano Milano, il bassista che è stato con noi fino al 2007 (poi sostituito da Alex) di recente ci ha visti e ci ha detto che sembravamo un gruppo “pacificato”. Credo che corrisponda al vero. In 6 sicuramente poteva esserci più varietà ma forse anche meno coesione. Ora siamo più compatti, c’è più unione.

Nel disco compaiono diversi ospiti, una delle quali, la bravissima Andrea Mirò, vi seguirà in tour come musicista aggiunto. Mi puoi dire qualcosa di questa fruttuosa collaborazione?
Andrea è un’artista eccezionale, non solo un’ottima cantante, ma anche una autrice e una polistrumentista preparatissima. Aveva già diretto per noi l’orchestra a Sanremo, ha collaborato al nostro disco, suonando e duettando con me.  Si era creata una grande e naturale intesa tra lei e tutto il nostro gruppo. L’anno scorso avevamo ripreso a suonare qualche data di rodaggio, noi 4, in una versione “garage” dei Perturbazione, giusto per toglierci un po’di ruggine. C’eravamo accorti però che dal vivo mancava qualcosa. Abbiamo chiesto a Andrea se avrebbe avuto piacere di condividere con noi i palcoscenici in vista del prossimo tour e lei c’ha dato piena disponibilità, rispondendo con entusiasmo. E siamo molto soddisfatti di queste prove, non vediamo l’ora di suonare dal vivo tutti insieme.

Un’ultima cosa, se ti va di rispondermi… Ma è vero che avevate proposto un pezzo per partecipare anche all’imminente edizione del Festival di Sanremo? Non vi era bastata la prima volta?
Ti posso rispondere tranquillamente, so che per molti musicisti l’argomento dell’esclusione è un argomento tabù ma noi non ci vergogniamo certo a dire che avevamo presentato un pezzo, proprio Dipende da te: era piaciuta anche molto, ma non è stata selezionata. Pazienza, passano solo poche canzoni, stavolta è toccato ad altri, l’abbiamo presa con molta filosofia. Non avevamo paura di tornare su quel palco… Cioè, la giusta apprensione è normale che ci sia, ma come tanti hanno sottolineato, l’altra volta c’eravamo proprio divertiti, soprattutto perché da lì in poi abbiamo avuto modo di suonare per platee diverse, in contesti molto differenti fra loro, dal Tenco a programmi tv, a Festival anche molto particolari. Noi non abbiamo mai avuto preclusioni, non abbiamo tradito nessuno, a partire da noi stessi e cerchiamo di fare la musica che ci piace. E ora abbiamo una grande carica per questo nuovo tour.

Beh, nell’augurarti una prontissima ripresa, rinnovo l’appuntamento con i nostri lettori, non solo per il tour ma anche per i vari incontri nelle librerie del circuito Feltrinelli…
Certo Gianni, per me sarà un piacere rivederti presto nella tua città. Quella serie di date saranno un ottimo antipasto in vista del vero tour estivo. Avremo modo di parlare col pubblico del nuovo disco ma anche di suonare un piccolo live set acustico. Vi aspettiamo!

E noi saremo presenti a Verona. Un grazie a te Tommaso per la splendida disponibilità e un grosso in bocca al lupo per i vostri progetti futuri
Ecco le date degli incontri alla Feltrinelli:
ROMA
Via Appia Nuova, 427 – Venerdì 22 Gennaio ore 18
TORINO
Stazione Porta Nuova –  Lunedì 25 Gennaio ore 18,30
MILANO
Piazza Piemonte,2 –  Martedì 26 Gennaio ore 18,30
FIRENZE
Piazza della Repubblica – Mercoledì 27 Gennaio ore 18,30
VERONA
Via Quattro Spade, 2 – Giovedì 28 Gennaio ore 18
BOLOGNA
Piazza Ravegnana, 1 –  Venerdì 29 Gennaio ore 18
GENOVA
Via Ceccardi, 16 – Giovedì 4 Febbraio ore 18

INTERVISTA A LUCA SCICCHITANO, EX TALENTO DELLA JUVENTUS CHE A 27 ANNI NON HA ANCORA SMESSO DI SOGNARE.

Come auspicato al termine di un mio recente articolo su Chiumiento e Scicchitano, entrambi ex giovani calciatori della Juventus nei primi anni del duemila, finalmente sono riuscito a intervistare il secondo, anch’egli autentico talento forgiato nella squadra bianconera, dove ha militato sette anni.

Ringrazio  Luca Scicchitano per la bella e interessante chiacchierata telefonica che ne è susseguita, nella quale il calciatore si è davvero aperto su tanti argomenti, non tralasciando temi “scabrosi”.

D’altronde, quello che ho percepito al telefono è un ragazzo di quasi 28 anni giunto ormai a una piena consapevolezza di sé e delle sue doti, con la maturità acquisita, nonostante la giovane età, di uno che nel calcio ne ha viste tante e di conseguenza non ha più nessun pelo sulla lingua.
Curioso il fatto che uno dei giocatori più talentuosi visti all’opera negli ultimi anni nelle giovanili bianconere sia transitato anche a Cerea, squadra della mia città, per disputare due ottimi campionati di Eccellenza! Il ricordo di Luca è vivido e non nasconde una certa emozione

“Mi sono trovato benissimo a Cerea, sotto ogni punto di vista, la società è sana, forte e la famiglia Fazion mi ha sempre trattato bene. In Veneto sono stato bene, assolutamente, e non è detto che se ci sono le condizioni non possa ritornare. Dopo quei due anni sono tornato in Calabria, ma qui la mentalità calcistica è diversa, sono tornato nella squadra del mio paese, a Cirò Marina, nella Cremissa, in Promozione ma è una soluzione temporanea, mi sento bene e ho molte motivazioni per riprovarci”

Dopo aver appreso questa bella notizia, e speranzoso di rivederlo con la maglia granata del Cerea in una stagione, la prossima, che potrebbe vedere la squadra veronese protagonista in D dopo la bella esperienza di quest’anno, Luca mi confida subito una cosa che in parte mi lascia senza parole. Alla mia domanda sulle emozioni che ha vissuto in carriera, risponde così:

“Guarda Gianni, ho letto con piacere il tuo articolo e ti ringrazio, tuttavia devo rettificare una cosa. Hai parlato più volte di infortuni gravi che mi hanno condizionato la carriera ma purtroppo questa è una diceria, una delle tante, che sono state dette, inventate sul mio conto. Sono stato fermo per pochissimo tempo nelle giovanili della Juve, ma a parte quello l’unico infortunio un po’ serio è stato a Ravenna. In altre circostanze invece queste voci si rincorrevano per mascherare altre verità. E così mi sono ritrovato fuori rosa o ai margini della squadra”

Riavvolgiamo il nastro della memoria e proviamo a capirne di più

“Alla Juventus sono stato 7 anni, molto fruttuosi a livello di risultati e di prestazioni. Giocavo bene, e lo dico con tutta l’umiltà possibile, ero protagonista nel contesto di un gruppo che avrebbe fatto carriera ad alti livelli, ho vinto due tornei di Viareggio, assaggiato la prima squadra, andato in panchina in serie A. Franco Ceravolo aveva una forte influenza in quella Juve e molti passarono al Crotone che in quegli anni era quasi una succursale della Juventus. Ci andarono Mirante, un mio grande amico, Gastaldello, Konko, Paro, Guzman e a gennaio, dopo un breve passaggio all’Avellino, vi finii anch’io. Fui accolto bene, i tifosi mi incitavano, d’altronde ero del posto”

Ricordo che nei forum dei tifosi crotonesi, tu risultavi uno degli idoli e in allenamento parlavano di autentiche prodezze da parte tua

“Difatti andavo bene, capitava però che l’allenatore mi facesse giocare fino al venerdì con la prima squadra e poi mi ritrovavo puntualmente fuori per la partita, nemmeno convocato. Avevo debuttato con l’Avellino ma poi sorsero dei problemi. Andai al Crotone in comproprietà ma rimasi deluso quando scoprii all’ultimo momento di essere stato ceduto del tutto. Speravo di rimanere nell’orbita Juventus, come tanti altri miei compagni ma le cose non andarono così”

Viste le potenzialità e le qualità tecniche dimostrate con la Primavera direi che il tuo pensiero era più che legittimo.

“Invece il mio cartellino divenne tutto del Crotone. Purtroppo il mio procuratore non ebbe molta voce in capitolo, in squadra arrivò anche Nocerino, l’attuale centrocampista del Milan e, quindi, nonostante un buon inizio di stagione, condita da mie belle prestazioni in Coppa Italia come contro l’Empoli, mi dissero che non c’era posto per me e a gennaio passai al Ravenna dove, a causa di quell’infortunio, in pratica l’unico della mia carriera di una certa gravità, giocai pochissimo. L’anno dopo si era in piena bufera Calciopoli, fui a un passo dal firmare per il Modena, poi alla fine non si fece nulla, anche col Pavia la cosa sembrava certa e invece non mi acquistarono più. Cominciarono a girare voci incontrollate su di me, sul fatto che mi allenassi poco e male, per non dire molte altre sciocchezze che riguardavano la sfera personale. Rimasi di sasso quando Bozzo mi disse che c’erano certe voci sul mio conto, assolutamente false! La goccia che fece traboccare il vaso fu quando rifiutai di passare al MartinaFranca, allora in C/1 ma che riversava in gravi condizioni economiche. In pratica, senza tanti giri di parole, mi dissero che non mi avrebbero pagato! E allora dissi no, la dignità non volevo perderla e in fondo possibilità concrete pensavo di averne ancora, visto le mie qualità e la mia esperienza juventina. Purtroppo col senno di poi quel rifiuto mi procurò molti danni, aumentavano le voci negative su di me e feci una prima scelta di vita, ritornare vicino a casa, a Rossano Calabro, in serie D. Purtroppo però la situazione economica non era delle migliori. L’anno successivo fui vicino a tornare nel calcio dei professionisti più volte: mi allenai duramente e per circa 20 giorni con il Manfredonia, squadra di serie C, ma pure con la Pro Patria”

In tutti e due i casi si tirarono sempre in ballo questioni fisiche più che tecniche per giustificare i rifiuti

“E’ vero, Gianni, anch’io leggevo i giornali e rimanevo sbigottito, credimi. A livello fisico ormai stavo bene, avevo recuperato pienamente dall’infortunio ed ero pronto. I provini andarono bene ma non mi presero purtroppo. Ormai ero senza procuratori, senza conoscenze particolari e a certi livelli di professionismo è difficile rientrare nel giro, me ne sono accorto sulla mia pelle. Anche gli stessi giocatori, con alcuni dei quali ero legato da rapporto di amicizia, cominciarono a voltarmi le spalle. Qualcuno si è montato la testa, con altri invece l’amicizia è rimasta inalterata nel tempo, come ad esempio con il portiere Mirante, che sento ancora. E’ stato difficile scegliere, ma a quel punto, pur di giocare accettai di scendere ulteriormente di categoria, sempre qui in Calabria, a Cutro, fino all’incontro col presidente del Cerea Fazion, con cui legai subito. Sono stati due anni molto belli. Poi ci siamo lasciati, sono tornato a casa ma non nego che mi farebbe piacere risentire la dirigenza per parlare del mio futuro. La squadra ha disputato un’ottima stagione, al primo anno di D”

Certo, sentire queste parole da parte di Luca mi fa piacere ma dall’altra ancora non mi capacito che uno con le sue qualità tecniche si ritrova a bazzicare tra i dilettanti.

“Io non sono mai sceso a compromessi, lo posso dire senza problemi. Non ho mai accettato cose che non condividevo. Ormai nel calcio le cose sono state scoperte, sono venute a galla certe schifezze, e io di quel mondo non voglio farne parte. Per questo non direi di no a un eventuale mio passaggio all’estero. Ora è tutto più difficile, perché è da qualche tempo che sono uscito dal grande giro ma a 27 anni mi sento ancora forte, molti arrivano tardi a certi livelli. Ho tante motivazioni, vengo da alcune buone stagioni, io non mollo”

Il pensiero va quindi a Chiumiento, al quale avevo dedicato belle parole in un mio recente articolo

“Davide era veramente fortissimo, il migliore di tutti noi nelle giovanili. Ho sempre pensato sia anche più forte di Giovinco, anch’egli paragonato poi a Del Piero. Io e Chiumiento eravamo legatissimi, lui è svizzero ma i suoi sono campani. E’ un giocatore dalle qualità tecniche straordinarie ma anche molto umile, davvero. E’ andato a giocare in Canada, buon per lui che ha trovato un buon ingaggio e la possibilità di esprimersi ancora ad alti livelli”

Parlando di giocatori esplosi tardi, viene in mente invece il caso di un altro ex talento juventino, Marco Rigoni.

“Rigoni lo ricordo bene, lui era alla Primavera e io agli Allievi. Un giocatore dalle ottime qualità tecniche che sembrava perso in serie C e invece a 32 anni è arrivato in A e dopo una bellissima stagione col Novara, ora si vocifera di un interessamento addirittura del Milan, quindi questo insegna che non bisogna mai smettere di crederci”

E dei tuoi compagni alla Juventus, di quel ciclo fantastico, quali giocatori non hanno fatto quella carriera che era lecito aspettarsi? Mi viene da pensare ad esempio a Fumasoli…

“Mah, se ci pensi quasi tutti esplosero a buoni livelli. Fumasoli credo sia ancora a Pizzighettone, dopo la retrocessione… è vero, anche lui è uscito dal grande giro. Ricordo Gerardo Clemente, anche lui svizzero, credo si sia addirittura ritirato. Benjamin invece era finito in Grecia, però come vedi tutti gli altri hanno raccolto soddisfazioni nel calcio”

Come hai detto tu, oltre alle doti tecniche, a una certa dose di fortuna, contano anche altre componenti

“Esattamente, senza nulla togliere a coloro che ce l’hanno fatta (erano in fondo tutti bravi calciatori) ci sono anche tante situazioni spinose da affrontare. Io invece, arrivato ad oggi, conto di farcela con le mie sole forze”

Hai avuto buone soddisfazioni negli approcci con la prima squadra? Chi tra quei campioni ricordi maggiormente con affetto?

“Come detto, ho avuto modo di allenarmi più volte con la prima squadra, di andare in ritiro e anche in panchina più volte, purtroppo senza debuttare. Ricordo bene Montero, era veramente bravo nell’accogliere noi giovani, gli piaceva scherzare. Era, ed è, davvero una grande persona”

A livello tecnico, hai giocato sia da mezzapunta, sia da interno/mezz’ala fino a retrocedere già nell’ultimo anno della Primavera come playmaker davanti alla difesa. Ricordo una tua bellissima partita d’agosto tra Juve A e Juve B con te maglia numero 4 in cabina di regia! Qual è il ruolo a te più congeniale?

“Sicuramente il regista arretrato alla Pirlo! Ricordo benissimo quella partita, nel primo tempo chiudemmo avanti di due gol, poi entrarono campioni come Del Piero e Trezeguet e perdemmo 7 a 2! Da regista ho la possibilità di costruire gioco, mi ci trovo bene e in pratica sono diversi anni che giostro lì”

Un ruolo alla Pirlo dove Scicchitano può davvero far valere le proprie qualità tecniche e la sorprendente visione di gioco.

Al termine della lunga chiacchierata ciò che mi porto dietro è il ritratto di un giovane e sfortunato calciatore, dotato di grande talento, con ancora tanta voglia di emergere e di prendersi le sue rivincite. Un uomo con la testa sulle spalle, a cui auguro davvero di rientrare presto in pista nel contesto di un progetto serio che possa esaltarne le qualità.

In bocca al lupo Luca!

Intervista ad Alex Astegiano, primo cantante dei Marlene Kuntz ma soprattutto persona sensibile e artista a tutto tondo

PELLEeCALAMAIO è lietissimo di avere oggi con noi Alex Astegiano, famoso fotografo e artista ma anche, come sanno bene tutti gli amanti del rock, il primo vero cantante dei cuneesi Marlene Kuntz.

“Ciao Alessandro, è un piacere particolare per me ospitarti nel mio blog, perché sono uno dei tanti fan del gruppo che purtroppo non ha avuto occasione di vederti dal vivo sul palco con la band. Eppure sono riuscito a scovare in rete qualcosa con te alla voce e devo farti i complimenti per la grande energia e passione che mettevi nel canto. So però che già da quei primi tentativi tu eri più attento e interessato alla performance tout court e nei concerti c’era tanto spazio per la “fisicità”. Puoi ricordarci qualcosa di quei concerti? Se non erro suonavi strumenti, come dire, poco convenzionali, no?”

Piacere mio,

dunque…bisogna sempre premettere che si parla di 22 anni fa…e  i “condizionamenti” musicali erano diversi e noi poco maturi, per quanto mi riguarda i Marlene sono nati unendo (per tentativi) musica, teatro e arte, sono sempre stato attratto da Antonin Artaud e da Alfred Jarry prima e Carmelo Bene poi; per questo i primi concerti erano più performance teatrali non solo musicali. E anche per questo il mio cantato era più un recitato (non mi sono mai reputato un buon cantante).

In più, nel marzo del 1989 quando si formò il gruppo, fummo molto affascinati dal concerto che gli Einsturzende neubauten tennero a Torino nella storica sala presse del Lingotto. Da lì…le nostre sperimentazioni sonore si svilupparono.

Fino alla mia uscita dal gruppo usavo spesso una caldaia in acciaio (per distillare grappa) come campana, una sirena e varie “suppellettili”.

“La tua scelta di lasciare il gruppo è maturata dopo pochi anni dalla fusione dei Jack on Fire (da cui, oltre a te proveniva pure il futuro leader Godano) con il gruppo di Tesio, Bergia e Ballatore. Quando e come hai capito che la musica non sarebbe stata la tua strada principale? Avevi comunque la percezione che i Marlene, cambiando registro musicale, sarebbero arrivati lontano?”

La mia scelta di lasciarli è dipesa da motivi lavorativi, non c’è mai stato nessuno screzio tra di noi.

Io e Cristiano arrivavamo dai Jack on Fire, Luca e Riccardo provavano per conto loro e conobbero Cristiano al quale proposero  il loro progetto, Cristiano mi chiamò per dirmi che mi voleva nel gruppo , non più come batterista, ma come cantante….accettai.

Mi sono sempre fidato di lui ho sempre avuto stima del suo impegno costante, voleva arrivare…dove è ora.

“Ultima di area “nostalgica”. Mai pentito di quella scelta? Nemmeno quando avresti potuto duettare con l’immensa Patti Smith a Sanremo (mi rifaccio a un tuo commento)?

Forse è l’unico rimpianto che ho…averli lasciati, ma a quei tempi non potevo fare altrimenti, sicuramente oggi sarei più disponibile (senza guardare dove sono arrivati).  Ma è andata così, e ci incontriamo sempre volentieri, Cristiano ed io ci frequentiamo oramai da 27 anni.

Il vederli suonare con Nostra Signora Patti Smith mi ha davvero commosso ed emozionato, conoscendoli bene so cosa hanno provato sul palco di Sanremo.

“Veniamo alle tue numerose esperienze come fotografo e ritrattista. Dico così perché penso che una foto astratta sia ben diversa da quella inerente visi e corpi umani. Sei stato anche un bravo tatuatore? Come riesci meglio a plasmare, fissare e modellare i corpi? Le due professioni sono correlate tra loro o appartengono a due momenti distinti della tua vita?”

Il lavoro di tatuatore è stata una parentesi durata sei anni, quando viaggiavo molto (soprattutto in Asia),  e nelle stagioni invernali facevo il Soccorittore in montagna. Sono momenti molto diversi del mio passato ma sempre uniti dal conoscere…i rapporti con le persone che fotografi o tatui sono importantissimi,  creare un rapporto di fiducia con chi hai di fronte è fondamentale, non basta saper fare delle belle linee sulla pelle o essere un bravo tecnico con le luci.

“L’elenco dei tuoi lavori come fotografo per musicisti o persone legate al mondo della musica è sconfinato! Hai ritratto Julian Cope, Robert Wyatt, Shane McGowan, New Order ma anche tantissimi esponenti di una scena alternativa che, emersa negli anni ’90, di strada ne ha fatta parecchia (Carmen Consoli, Manuel Agnelli, Vinicio Capossela, Perturbazione o gli stessi Marlene). Insomma, la musica ha ancora un peso rilevante nella tua vita e nella tua ricerca. Quali artisti riescono maggiormente a scuoterti l’anima, a trasmetterti delle sensazioni forti?”

Sono dell’idea che non si vive senza musica, qualunque essa sia. Ho solo cambiato posizione..dal palco sono sceso e faccio fotografie dal sottopalco 🙂

Tanti sono gli artisti che mi regalano emozioni, viventi e non. Sento musica molto diversa, dal rock al jazz alla classica. L’elenco sarebbe infinito.

“In Piemonte hai lavorato anche con Alberto Campo e il regista Guido Chiesa, che ho avuto modo di apprezzare ai tempi di Materiale Resistente e che ho conosciuto di persona a un cineforum per il lancio del suo stupendo film “Io sono con te”. Parlaci di come sono nate queste due collaborazioni”

Sono collaborazioni legate dall’amicizia prima di tutto, non ci si incontra solo per lavorare insieme ma anche per farsi una bella cena, il meglio di un desco per scambiarsi pareri e collaborazioni. Con Alberto Campo ho iniziato a collaborare nel 2003, ma lo conoscevo già da tempo per amicizie comuni, ed è anche stato uno dei primi a scrivere dei Marlene, per me e Cristiano era un vate della musica hai tempi di Rockerilla, se scriveva che un disco era “buono”, lo compravamo a  scatola chiusa.

Con Guido Chiesa ci siamo incontrati tramite Giuseppe Napoli (che purtroppo ci ha lasciato 2 anni fa) ai tempi del suo primo lungometraggio (Il caso Martello). Ho poi seguito vari lavori che sono venuti anni dopo. Non ci vediamo quasi più, vive a Roma da anni con la sua bella famiglia, ma resto molto affezionato a lui.

“Negli anni ’90 sei stato protagonista di un’avventura assai affascinante e penso pure impegnativa: documentare elementi della cultura e religione indiana e buddista, spingendoti fino all’Himalaya. Cosa hai scoperto con quel lavoro e cosa ti porti ancora dentro di quell’esperienza”.

Sono stato in India dal 1993 al 1998, l’ho vista quasi tutta, ho vissuto per mesi in Rajastan e seguito il pellegrinaggio che parte dalle pianure dell’Himmachal Pradesh fino alle sorgenti del Gange a 4.000 metri, sotto la maestosa cima dello Shivling (6.500 metri) al confine tra India, Nepal e Tibet. Ho poi seguito l’ultimo Kumbha Meela del millennio (una sorta di giubileo induista) ad Haridwar, nel giro di tre mesi si sono radunati circa 7 milioni di persone, un immenso ritrovo di Sadhu (sacerdoti) Shivaiti. Sicuramente un bella esperienza, faticosa ma fatta di incontri fantastici, specialmente in Himalaya. Forse per il fatto che in montagna sono cresciuto e continuo a frequentarla…è come la musica…non potrei mai farne a meno.

Mi rendo conto che avrei tante altre cose da chiederti e curiosità da soddisfare ma direi che carne al fuoco ne abbiamo messa parecchia. E’ stato un piacere per me conoscerti e mi auguro di passare presto dalle tue parti per scambiare altre chiacchiere dal vivo.

Grazie di tutto Gianni, spero di poterti incontrare…da qualche parte.  Un abbraccio 

ciao Alex

Grazie ad Alex per l’estrema disponibilità e gentilezza.

(nella foto qui sotto un ritratto fotografico di Alessandro a John Cale)