Uno degli album italiani che più mi hanno sorpreso nell’anno in corso è stato sicuramente quello del cantautore romano Piero Brega, intitolato “Mannaggia a me” (edito da Squilibri).
Sorprendente non certo perchè dubitassi delle sue qualità, d’altronde il ricco curriculum parla per lui, che fu tra i promotori e maggiori esponenti di esperienze entusiasmanti tra recupero della tradizione, commistioni folk e prog e l’impronta della miglior canzone d’autore, quali il Canzoniere del Lazio in primis, poi nel progetto Carnascialia (con assoluta protagonista la musica etnica, world) e le fruttifere collaborazioni con la grande Giovanna Marini, anticamera di una esigua ma densa e ispirata carriera da solista.
Arriviamo dunque al punto: la sorpresa stava proprio nel fatto che in teoria non doveva dimostrare a nessuno, con questo nuovo lavoro autografo che segue di ben 12 anni il precedente “Fuori dal paradiso” (pubblicato da Il Manifesto, così come il suo album d’esordio “Come li viandanti”, di cinque anni prima), tuttavia Brega, lungi dall’essersi adagiato e per nulla arrugginito dal lungo periodo di assenza dalle scene, ha realizzato un disco veramente interessante, vivo, ricco al solito di suggestioni, ma anche molto solido e coeso da un punto di vista prettamente strumentale.
Già, se in precedenza infatti la lampadina della curiosità, approcciandosi alle sue opere soliste, si accendeva necessariamente sulle parole, ora invece procede di pari passo con la scoperta di sonorità coinvolgenti, quasi inedite, se pensiamo ai vari inserimenti delle chitarre elettriche suonate dal valente Ludovico Piccinini; valga come fulgido esempio la magistrale performance nell’evocativa “San Basilio”, che il Nostro aggiorna, ripescandolo dal debut-album, ma lo stesso si potrebbe dire della suadente “Tempo arido”, altro pezzo che albergava da tempo nella mente e nel cuore romantico e malinconico dell’autore.
Ecco che senza accorgermene, rapito dai rimandi e dalle tante impressioni piovutemi addosso sin dal primo ascolto e ora rimembrate per l’occasione, mi sono ritrovato quindi a parlare delle canzoni, la vera sostanza di questo ritorno, tanto atteso quanto appunto sorprendente.
Rimettendo in file le varie tracce, libretto alla mano, e assecondando l’istinto di premere subito play, viene naturale, pressochè automatico direi, farsi coinvolgere da ogni singolo episodio incluso nella prima facciata.
Scusate il linguaggio desueto.. ma d’altronde “Mannaggia a me” contiene dentro di se quel gusto antico dei lavori di una volta, l’immaginario tanto caro dei settanta, ottimamente però ri-attualizzato ai tempi odierni: insomma, ci siamo capiti, è un disco questo da assaporare pian piano, per non far disperdere ogni singola sfumatura e i diversi passaggi narrativi salienti.
L’apripista “Il sorriso di un pensatore” ha un affascinante andamento folkeggiante, pullula di quella consistenza perfetta che conferiamo alla canzone popolare per antonomasia e presenta un testo oltremodo interessante, in versi incisivi ed emblematici come: “E non mi importa dei quattrini/non m’importa del successo/tale difetto m’ha permesso/di evitare me stesso”.
Fondamentale l’apporto della talentuosissima Oretta Orengo, che qui suona il corno inglese (mentre altrove incanta con l’oboe e con la sua bella voce).
La successiva, caustica eppure lieve nel suo brillante incedere ritmico, “Triangoli quadrati”, affonda il suo focus narrativo su esperienze magari vissute, o comunque ben note, con la storia di un artista che vorrebbe mantenere una certa integrità al cospetto di un manager cinico e rivolto al successo con ogni mezzo. Il pezzo cambia tono e registro, e conseguentemente muta l’atmosfera generale, specie verso il finale, caratterizzato dal suono toccante della chitarra e da un cantato sofferto e consapevole della propria condizione: “Io che mi sento io/e passo giorni e mesi/per cantare un minuto/mi inchino e vi saluto/sogno il vostro perdono/alla mia normalità”.
Il livello si mantiene altissimo con l’irresistibile title track, che a livello di sonorità segue e insegue le (dis)avventure di un gruppo di senzatetto nei pressi della Stazione Termini, per un brano adattissimo anche alla forma teatro-canzone.
Vale la pena, a maggior ragione per questo brano dal risvolto dolce-amaro nel rispecchiare un particolare tessuto sociale, porre l’attenzione sulla grande cura per gli arrangiamenti, tutti a opera del già citato Ludovico Piccinini e di Luciano Francisci (impegnato nel disco anche alla fisarmonica), e mi pare doveroso citare anche Adriano Martire, col quale la canzone prese vita grazie a dei riff durante le prove.
Tutt’altro umore riscontriamo nella successiva “Strada scura”, elettrica e bluesy (sorretta dal basso di Emanuele Marzi e dalla batteria di Piero Fortezza), a contornare un pezzo che mescola un fatto preminente legato alla Città Eterna (la libreria incendiata a Centocelle) all’intimità (e universalità) delle storie di tutti i giorni: “Nella città bruciata/le storie sono chiodi/dopo la fiaccolata/due negozi vuoti….”Tu sotto le coperte/silenziosa dormi/dormi tranquilla/contro il mio viso e hai sorriso”.
La strada è così spianata per denudarsi e mettere in scena il proprio io, fragile e pieno di insicurezze, oltre che di speranze sopite, tra le pieghe della disarmante dolcezza di “Gelosia”: “Non mi guardare con quegli occhi/anche tu mon amour/anche tu mi dai giù/come fa il mondo che non s’ama/Voglio star con te/ma non dobbiamo più/farci male mai”.
Le tematiche esistenziali riaffiorano e prendono piede sin dalla successiva “Sono un vecchio marinaio senza mare”, nostalgica col suo apparato musicale acustico e così raffinato, e un testo dove, a braccetto con una ispirata prosa, fa felicemente capolino la poesia: “Adoro la metafora/mi attira il paradosso/sono schiavo della carne/solo quella intorno all’osso…. “Sono un campo di grano/una scintilla smarrita/Voglio bruciare dentro la vita/ogni giorno una fiamma nuova/che fuori piova o non piova”.
La seconda parte dell’album denota medesimi standard qualitativi, accentuando se vogliamo la componente ariosa e melodica e i tratti intimistici, resi comunque attraverso il linguaggio narrativo, che sa dare sempre nuovi impulsi dal punto di vista autoriale.
A iniziare da “In mezzo al mare”, che chiarisce sin dall’incipit questa natura ondivaga ma assolutamente autentica: “Sono un uomo/in mezzo al mare/nuoto con difficoltà/sferzo quest’acqua/amara e profonda/dove ho nascosto la verità” – canta Piero Brega con una voce roca e assai espressiva.
Prima di arrivare alla cruciale “San Basilio”, a mio avviso uno degli apici della sua poetica, ci si imbatte nella solare (a dispetto del titolo) e onirica “Tempo arido”, dove la parole catturano bene l’essenza di un dialogo interiore: “Noi disillusi al chiaro delle stelle/cercando nel mosaico sparso/che la vita ci ha dato…. Sarà un mondo riemerso/isole nell’universo/un sogno inesplorato/l’ombra di un volto amato”.
Il finale è appannaggio di due brani ancora dal forte imprinting cantautorale, dove la nostalgia si fa carburante per alimentare nuove realistiche aspettative in “Dal lago della giovinezza”, in passaggi come: “Fidando nell’effimera tua gioventù/dietro quel sorriso d’innocenza/hai continuato come volevi tu/a ridere della coscienza” e nei versi conclusivi in cui Piero Brega si riappropria dell’amato dialetto (“Diglielo luna e non me fa’ aspetta’/la forza se n’è andata/dimme che devo fa’/luna biancastra/quando che vieni qua/l’amore mio me lassa/si tu nun me vo’aiutà”).
In “Centomila pensieri fuggono” invece, mediante un ficcante racconto per immagini a mascherare una sorta di flusso di coscienza, l’io narrante (mai come in questo caso da identificare con il titolare del progetto) ci lascia in dote degli spunti di riflessione, senza la pretesa di insegnare ma con l’acutezza e il pudore di chi tanto ha raccolto e osservato, e ora può rivelare: “E io l’ho visti con questi occhi/l’ho visti affondare/mimetizzarsi nell’invisibile/là nella polvere del piazzale”… “Sentire il male che c’è nel vivere/quando non c’è più niente da fare/vedo sfuggire anche l’ultimo/anche l’ultimo andare… “Perchè alla fine prima o poi/sarà manipolato/irretito imbrogliato/spremuto e buttato”.
Parole che sembrano fare da preludio a scenari pessimistici, ma che invece sono il manifesto di un animo cosciente e profondo, e fungono da giusto compendio di tutto il significato sotteso dell’opera. Un’opera che senza remore mi viene da definire “classica”, nel senso più nobile del termine.
Non si tratta di essere o meno “di moda”, quanto di veicolare messaggi e storie, e in tal senso la missione di Piero Brega si può dire assolutamente compiuta.
La sua è una proposta senza tempo… certo, magari i cantautori emergenti si esprimono attraverso nuovi sound e linguaggi, ma mi fosse capitato un’opera prima di uno di essi dall’identica potenza espressiva di questo “Mannaggia a me”, avrei subito drizzato le antenne, poichè è assai raro ascoltare dischi così densi di contenuti e al contempo piacevoli, in cui non ci si debba sforzare per capirli.
Tuttavia, sono conscio che di artisti con le doti e la sensibilità di Piero Brega ne nascano pochi, per questo gli concediamo pure un ragionevole lasso di tempo tra un disco e l’altro, se poi gli esiti sono così fulgidi e preziosi.