La canzone d’autore resiste#4: Piero Brega con “Mannaggia a me”

Uno degli album italiani che più mi hanno sorpreso nell’anno in corso è stato sicuramente quello del cantautore romano Piero Brega, intitolato “Mannaggia a me” (edito da Squilibri).

Sorprendente non certo perchè dubitassi delle sue qualità, d’altronde il ricco curriculum parla per lui, che fu tra i promotori e maggiori esponenti di esperienze entusiasmanti tra recupero della tradizione, commistioni folk e prog e l’impronta della miglior canzone d’autore, quali il Canzoniere del Lazio in primis, poi nel progetto Carnascialia (con assoluta protagonista la musica etnica, world) e le fruttifere collaborazioni con la grande Giovanna Marini, anticamera di una esigua ma densa e ispirata carriera da solista.

Credit foto: Cristina Canali

Arriviamo dunque al punto: la sorpresa stava proprio nel fatto che in teoria non doveva dimostrare a nessuno, con questo nuovo lavoro autografo che segue di ben 12 anni il precedente “Fuori dal paradiso” (pubblicato da Il Manifesto, così come il suo album d’esordio “Come li viandanti”, di cinque anni prima), tuttavia Brega, lungi dall’essersi adagiato e per nulla arrugginito dal lungo periodo di assenza dalle scene, ha realizzato un disco veramente interessante, vivo, ricco al solito di suggestioni, ma anche molto solido e coeso da un punto di vista prettamente strumentale.

Già, se in precedenza infatti la lampadina della curiosità, approcciandosi alle sue opere soliste, si accendeva necessariamente sulle parole, ora invece procede di pari passo con la scoperta di sonorità coinvolgenti, quasi inedite, se pensiamo ai vari inserimenti delle chitarre elettriche suonate dal valente Ludovico Piccinini; valga come fulgido esempio la magistrale performance nell’evocativa “San Basilio”, che il Nostro aggiorna, ripescandolo dal debut-album, ma lo stesso si potrebbe dire della suadente “Tempo arido”, altro pezzo che albergava da tempo nella mente e nel cuore romantico e malinconico dell’autore.

Ecco che senza accorgermene, rapito dai rimandi e dalle tante impressioni piovutemi addosso sin dal primo ascolto e ora rimembrate per l’occasione, mi sono ritrovato quindi a parlare delle canzoni, la vera sostanza di questo ritorno, tanto atteso quanto appunto sorprendente.

Rimettendo in file le varie tracce, libretto alla mano, e assecondando l’istinto di premere subito play, viene naturale, pressochè automatico direi, farsi coinvolgere da ogni singolo episodio incluso nella prima facciata.

Scusate il linguaggio desueto.. ma d’altronde “Mannaggia a me” contiene dentro di se quel gusto antico dei lavori di una volta, l’immaginario tanto caro dei settanta, ottimamente però ri-attualizzato ai tempi odierni: insomma, ci siamo capiti, è un disco questo da assaporare pian piano, per non far disperdere ogni singola sfumatura e i diversi passaggi narrativi salienti.

L’apripista “Il sorriso di un pensatore” ha un affascinante andamento folkeggiante, pullula di quella consistenza perfetta che conferiamo alla canzone popolare per antonomasia e presenta un testo oltremodo interessante, in versi incisivi ed emblematici come: “E non mi importa dei quattrini/non m’importa del successo/tale difetto m’ha permesso/di evitare me stesso”.

Fondamentale l’apporto della talentuosissima Oretta Orengo, che qui suona il corno inglese (mentre altrove incanta con l’oboe e con la sua bella voce).

La successiva, caustica eppure lieve nel suo brillante incedere ritmico, “Triangoli quadrati”, affonda il suo focus narrativo su esperienze magari vissute, o comunque ben note, con la storia di un artista che vorrebbe mantenere una certa integrità al cospetto di un manager cinico e rivolto al successo con ogni mezzo. Il pezzo cambia tono e registro, e conseguentemente muta l’atmosfera generale, specie verso il finale, caratterizzato dal suono toccante della chitarra e da un cantato sofferto e consapevole della propria condizione: “Io che mi sento io/e passo giorni e mesi/per cantare un minuto/mi inchino e vi saluto/sogno il vostro perdono/alla mia normalità”.

Il livello si mantiene altissimo con l’irresistibile title track, che a livello di sonorità segue e insegue le (dis)avventure di un gruppo di senzatetto nei pressi della Stazione Termini, per un brano adattissimo anche alla forma teatro-canzone.

Vale la pena, a maggior ragione per questo brano dal risvolto dolce-amaro nel rispecchiare un particolare tessuto sociale, porre l’attenzione sulla grande cura per gli arrangiamenti, tutti a opera del già citato Ludovico Piccinini e di Luciano Francisci (impegnato nel disco anche alla fisarmonica), e mi pare doveroso citare anche Adriano Martire, col quale la canzone prese vita grazie a dei riff durante le prove.

Tutt’altro umore riscontriamo nella successiva “Strada scura”, elettrica e bluesy (sorretta dal basso di Emanuele Marzi e dalla batteria di Piero Fortezza), a contornare un pezzo che mescola un fatto preminente legato alla Città Eterna (la libreria incendiata a Centocelle) all’intimità (e universalità) delle storie di tutti i giorni: “Nella città bruciata/le storie sono chiodi/dopo la fiaccolata/due negozi vuoti….”Tu sotto le coperte/silenziosa dormi/dormi tranquilla/contro il mio viso e hai sorriso”.

La strada è così spianata per denudarsi e mettere in scena il proprio io, fragile e pieno di insicurezze, oltre che di speranze sopite, tra le pieghe della disarmante dolcezza di “Gelosia”: “Non mi guardare con quegli occhi/anche tu mon amour/anche tu mi dai giù/come fa il mondo che non s’ama/Voglio star con te/ma non dobbiamo più/farci male mai”.

Le tematiche esistenziali riaffiorano e prendono piede sin dalla successiva “Sono un vecchio marinaio senza mare”, nostalgica col suo apparato musicale acustico e così raffinato, e un testo dove, a braccetto con una ispirata prosa, fa felicemente capolino la poesia: “Adoro la metafora/mi attira il paradosso/sono schiavo della carne/solo quella intorno all’osso…. “Sono un campo di grano/una scintilla smarrita/Voglio bruciare dentro la vita/ogni giorno una fiamma nuova/che fuori piova o non piova”.

La seconda parte dell’album denota medesimi standard qualitativi, accentuando se vogliamo la componente ariosa e melodica e i tratti intimistici, resi comunque attraverso il linguaggio narrativo, che sa dare sempre nuovi impulsi dal punto di vista autoriale.

A iniziare da “In mezzo al mare”, che chiarisce sin dall’incipit questa natura ondivaga ma assolutamente autentica: “Sono un uomo/in mezzo al mare/nuoto con difficoltà/sferzo quest’acqua/amara e profonda/dove ho nascosto la verità” – canta Piero Brega con una voce roca e assai espressiva.

Prima di arrivare alla cruciale “San Basilio”, a mio avviso uno degli apici della sua poetica, ci si imbatte nella solare (a dispetto del titolo) e onirica “Tempo arido”, dove la parole catturano bene l’essenza di un dialogo interiore: “Noi disillusi al chiaro delle stelle/cercando nel mosaico sparso/che la vita ci ha dato…. Sarà un mondo riemerso/isole nell’universo/un sogno inesplorato/l’ombra di un volto amato”.

Il finale è appannaggio di due brani ancora dal forte imprinting cantautorale, dove la nostalgia si fa carburante per alimentare nuove realistiche aspettative in “Dal lago della giovinezza”, in passaggi come: “Fidando nell’effimera tua gioventù/dietro quel sorriso d’innocenza/hai continuato come volevi tu/a ridere della coscienza” e nei versi conclusivi in cui Piero Brega si riappropria dell’amato dialetto (“Diglielo luna e non me fa’ aspetta’/la forza se n’è andata/dimme che devo fa’/luna biancastra/quando che vieni qua/l’amore mio me lassa/si tu nun me vo’aiutà”).

In “Centomila pensieri fuggono” invece, mediante un ficcante racconto per immagini a mascherare una sorta di flusso di coscienza, l’io narrante (mai come in questo caso da identificare con il titolare del progetto) ci lascia in dote degli spunti di riflessione, senza la pretesa di insegnare ma con l’acutezza e il pudore di chi tanto ha raccolto e osservato, e ora può rivelare: “E io l’ho visti con questi occhi/l’ho visti affondare/mimetizzarsi nell’invisibile/là nella polvere del piazzale”… “Sentire il male che c’è nel vivere/quando non c’è più niente da fare/vedo sfuggire anche l’ultimo/anche l’ultimo andare… “Perchè alla fine prima o poi/sarà manipolato/irretito imbrogliato/spremuto e buttato”.

Parole che sembrano fare da preludio a scenari pessimistici, ma che invece sono il manifesto di un animo cosciente e profondo, e fungono da giusto compendio di tutto il significato sotteso dell’opera. Un’opera che senza remore mi viene da definire “classica”, nel senso più nobile del termine.

Non si tratta di essere o meno “di moda”, quanto di veicolare messaggi e storie, e in tal senso la missione di Piero Brega si può dire assolutamente compiuta.

La sua è una proposta senza tempo… certo, magari i cantautori emergenti si esprimono attraverso nuovi sound e linguaggi, ma mi fosse capitato un’opera prima di uno di essi dall’identica potenza espressiva di questo “Mannaggia a me”, avrei subito drizzato le antenne, poichè è assai raro ascoltare dischi così densi di contenuti e al contempo piacevoli, in cui non ci si debba sforzare per capirli.

Tuttavia, sono conscio che di artisti con le doti e la sensibilità di Piero Brega ne nascano pochi, per questo gli concediamo pure un ragionevole lasso di tempo tra un disco e l’altro, se poi gli esiti sono così fulgidi e preziosi.

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La canzone d’autore resiste#3: Giulio Wilson con “Storie vere tra alberi e gatti”

Ci sono album che, grazie al cielo, sanno ancora sorprendere. Nel caso specifico si è trattato di una rivelazione, di quelle vere, lo ammetto.

Conoscevo poco l’autore, Giulio Wilson, pur avendo già ascoltato qualcosa di suo, ma di questo “Storie vere tra alberi e gatti” ho subìto forte il fascino, che emanava chiaro da tanti particolari; se vogliamo sintetizzare, direi già a partire dal suggestivo titolo ma poi addentrandosi in mezzo alle canzoni, ecco che emerge facilmente tutto il resto, che è davvero tanto!

Sì, perchè Wilson in questo lavoro (di cui ha curato musica, testi e produzione artistica, coadiuvato da Valter Sacripanti) ha messo tanta carne al fuoco, riuscendo però nell’impresa di non disperdere mai il fuoco sacro dell’ispirazione, incanalando idee e rimandi (che figurano copiosi in ogni traccia) nella maniera giusta, elevando cioè i singoli episodi al medesimo rango. Rango che a volte è quello di capolavoro, e che si mantiene su nobili sentieri per tutto il suo percorso.

Credit foto: Francesco Nerone

Sono canzoni che si fanno apprezzare non solo per i contenuti, ma anche per il modo in cui questi ci vengono trasmessi, mediante cioè testi interessanti, ricchi, che non esulano il contesto narrativo – per non dire letterario – e che arrivano altresì diretti, scevri da ogni inutile (ai fini del messaggio) ermetismo, sorretti inoltre da sonorità cangianti, calde e ariose.

La forma, se vogliamo, è quella dei cantautori classici, ma guai a considerare tale appunto un difetto, poichè lungi dall’essere anacronistiche queste storie rappresentano bene l’animo di chi le ha scritte e composte, e in tal senso non assomigliano a nessun altro esponente della scena passata e contemporanea.

Il velo di nostalgia è certo presente, a iniziare dall’indimenticabile “I ricordi” (il cui sottotitolo storia già vissuta lascia tra l’altro pochi dubbi al riguardo), ma è più una polaroid di uno stato d’animo, di un mood autentico più che uno stile codificato.
Come anticipato, il disco ha la capacità di spaziare tra più registri e conseguenti differenti atmosfere, avvalendosi, oltre che dell’innato talento come cantastorie di Wilson (osservatore attento e studioso), anche di arrangiamenti deliziosi, curati in maniera certosina, tanto da riuscire a valorizzare appieno i brani, rivestendoli con gli strumenti di volta in volta più adatti.

Da evidenziare anche l’apporto dei collaboratori, pure prestigiosi, che si sono succeduti nei brani, conferendo in taluni casi un quid in più a una resa già soddisfacente, visto che la sostanza è ben presente e radicata.

Puntando l’attenzione sulle canzoni, tornando a quella che apre la raccolta, il Nostro vuole colpire subito dritto al cuore, presentando un’opera che sembra senza tempo. Ne “I ricordi”, infatti, il connubio tra parole e musiche è straordinario, emoziona l’ascoltatore sin dalla prima battuta, con note di pianoforte che arrivano a commuovere e versi che riguardano un po’ tutti noi. Ne è un esempio emblematico l’intenso ritornello: “Tutte le storie passate, chissà dove vanno a finire/ti hanno per sempre cambiato o sei sempre tu?/Sarebbe bello incontrarsi per strada/come fossimo due sconosciuti/per poi toccarci con vecchi ricordi/e non lasciarsi mai più”. Brividi!

La successiva “Fido” (con sottotitolo storia vera del cane di Borgo San Lorenzo), ha un andamento musicale vivace, così come la penna che mette in prosa una storia di amicizia pura e di fedeltà: “Carlo è morto sotto i bombardamenti/mentre Fido è ritornato tutti i giorni/si sa che un cane non cambia i sentimenti/e per questo l’ha aspettato per altri quindici anni”.

Dopo il veloce intramezzo “L’organetto”, si arriva a uno dei momenti più alti dell’intero album, se non proprio al suo zenit, rappresentato da “Budapest” – storia vera del gelataio Francesco Tirelli – in cui il cantautore nativo di Firenze alterna sagacemente il canto e uno spoken word carico di suggestioni, per una vicenda che andava raccontata: “Questa era la storia di Francesco Tirelli, una storia vera, di un italiano migrante in Ungheria che ha salvato nel magazzino della sua gelateria molte persone, che riuscirono a sfuggire al rastrellamento e alle deportazioni nel maggio del 1944”.

Si giunge quindi, con “Vale la pena”, al momento della poesia, per mezzo della quale raccontare (come chiarisce il sottotitolo), il sentimento mai sopito della speranza: “Abbiamo tutti dei sogni/sopra una stella cadente/come vecchi bagagli/le nostre speranze/più dei difetti/quelli che non vorresti/non sempre tutto si può scegliere/e costruire è meglio che distruggere”, per chiudere con una frase saliente quanto definitiva nella sua positiva esortazione come “Per chi ha dato/e mai preso/per chi non si è arreso/per chi sente il dovere di essere migliore/c’è una speranza infinita: la vita”.

In questa canzone spensierata e profonda al tempo stesso, è rilevante il peso degli Inti Illimani, per una naturale e riuscitissima commistione della lingua italiana e spagnola.

A seguire si incontrano altri due pezzi “forti” dell’album, entrambi caratterizzati da un ritmo solare, eccitante e assolutamente coinvolgente: dalla giocosamente amara “Finale all’italiana” (una storia nostrana dove svetta la tromba di Roy Paci), alla trascinante “Disamore”, sorta di summa delle influenze folk dell’autore.

Dopo la botta energica di due episodi che non suona strano definire ballabili, le onde tornano per lo più placide e sinuose nelle restanti tracce.

“I gatti di Magritte” tratteggia scenari lunari e tocca nuovamente picchi poetici in versi struggenti come: “il cielo sembra un quadro di Magritte/dipinto sopra i tetti/apri le finestre questa sera/puoi sentire che mi manchi/vivida la luce della Luna tra le antenne dei palazzi/luccicano gli occhi, piangono anche i gatti”.

Non è da meno in quanto a trasporto e spessore autoriale la successiva “Romanzo epistolare”, che parla ancora una volta della nostra Italia, partendo da presupposti differenti rispetto alla già citata “Finale all’italiana”: non c’è traccia stavolta di ironia, nessuno spazio a sarcasmi, qui c’è tanta consapevolezza e, perchè no?, un pizzico di fierezza… nel bene e nel male, siamo il risultato di un passato che ci ha condotti a un presente, che siamo ancora in tempo a cambiare. Collaborano qui i Musici di Francesco Guccini, gente dall’indubbio pedigree e dall’elevato valore artistico, come Flaco Biondini, Antonio Marangolo e Vince Tempera.

Ci si sta avviando verso il finale ma c’è ancora posto per le emozioni, quelle che maggiormente scuotono dentro, pongono domande e ti lasciano tanto tempo vuoto per riflettere sull’assurdità che, in circostanze simili, connota il genere umano, quando cioè si raccontano drammatiche storie vere di femminicidio. Il recitato di Sandra Landi in “Ottavia” non lascia spazio a interpretazioni, e sentire parole così dure e crude, fa male e lascia interdetti.

Dopo tanto dolore, il buon Wilson ci saluta all’insegna del romanticismo estremo, dell’amore tanto puro quanto irraggiungibile, che sgorga dalle soffuse note de “L’albero sognante”; infine dopo un prologo di violoncelli, il commiato arriva con “L’amore dei nostri difetti”, autentica ode amorosa, intrisa di nostalgia (stavolta sì, senza remore e maschere) e malinconia, ma con la convinzione che non tutto sia perduto: “C’è una forza più grande di noi/che va oltre i confini del tempo/supera i muri dell’uomo/e unisce due punti distanti/è l’amore dei nostri difetti”.

Cala così il sipario su uno dei dischi italiani più belli di questo 2021, e a volte mi chiedo: cosa dovrebbe fare un artista per essere riconosciuto in tutto il suo valore? Francamente non so darmi una risposta, però penso sia giusto che ognuno segua una propria strada, senza snaturarsi mai, perchè alla fine a contare è la buona musica, ciò che riesce a regalarti al suo ascolto. Questo è un dono meraviglioso, teniamocelo stretto.

Il cantautore Alessandro Rocca con “Transiti” ha realizzato uno dei migliori album di debutto dell’anno

Mi sono approcciato al disco d’esordio del cantautore Alessandro Rocca con molta curiosità e, lo ammetto, trepidazione, visto lo spessore che ero riuscito a intravedere anche solo collegandomi ad aspetti non esclusivamente musicali, quali la suggestiva copertina (opera dell’artista Andrea Tsuna Tomassini) e la minuziosa cura del lavoro, messo a punto nell’arco di addirittura dieci anni dal giorno in cui si era posta la simbolica “prima pietra” all’agognato approdo discografico.

La copertina dell’album “Transiti” di Alessandro Rocca è una vera opera d’arte

Oltretutto, l’autore stesso ha mostrato molta sensibilità anche semplicemente nel presentare la sua opera al sottoscritto, quasi muovendosi con pudore, laddove al suo posto tanti altri artisti o gruppi sgomitano a più non posso, talvolta ricorrendo alle parole più mirabolanti, pur di far arrivare la propria musica al maggior numero possibili di destinatari.

In un mondo per certi versi assai omologato come quello musicale attuale, anche piccoli particolari possono fare la differenza e tutto sembrava, almeno per il mio modo di intendere l’ascolto, convergere al meglio nel momento in cui ho fatto partire la prima traccia di “Transiti”.

Gli arpeggi delicati di “Stipiti” riecheggiano da subito potenti e ipnotici, delineando un’atmosfera che poi finirà per permeare e invadere tutta la mia stanza, quella di un’inquietudine mai opprimente, ma piuttosto in grado di metterti davanti ai quesiti e ai dubbi più preminenti e profondi della nostra esistenza, del nostro piccolo grande mondo.

E il tarantino Rocca (di stanza a Varese) è capace di trasmetterti le angosce e i saliscendi emotivi di un intero percorso di vita fin qui compiuto portandoti, senza far rumore, quasi cullandoti, laddove sente più forte il bisogno di condividere e comunicare i suoi stati d’animo.

Per curiosità avevo chiesto all’autore la sua età, sapendolo al debutto. Il fatto che da poco abbia passato la quarantina non cambia certo il mio giudizio ma se non altro mi conferma come sia importante, per arrivare a scrivere brani carichi di tale intensità e dolore, aver vissuto e provato magari sulla propria pelle alcune situazioni anche complesse, fino a portarne degnamente ancora le cicatrici.

E per quanto sia spesso assai criptico in alcuni punti della sua poetica, con immagini vivide quanto sfuggenti e misteriose, la forza evocativa dei suoi testi, spesso e volentieri somiglianti a monologhi, flussi di coscienza, schegge di memoria, ti giunge intatta e soprattutto chiara e intelleggibile.

Vorrei fugare presto però alcuni eventuali dubbi che vi possono essere giunti leggendo le mie considerazioni: l’album trasuda sì inquietudine e a tratti disperazione, ma è tutto fuorchè depresso e agghiacciante. Anzi, l’idea che mi sono fatto è che Alessandro ormai è un uomo fortificato, pronto a scendere in pista nella battaglia che è la vita, forte com’è di mezzi espressivi, efficaci e risolutivi, che risuonano da ogni canzone qui presente. E fra le pieghe dei testi si intravedono spiragli di luce positiva, dei segni di speranza a tenere viva la sua azione e la sua arte.

L’approccio artistico, giusto per provare a delinearne un tratto, è quello del Nick Cave maturo, di un giovanile Rimbaud, del De Andrè più “terreno”. Insomma, ovunque lo si provi a inquadrare, gira che ti rigira rimane in piedi il grande valore dell’opera. 

Dicevamo di “Stipiti”, la prima traccia è un credibile biglietto da visita di quello che andremo ad ascoltare e induce all’ascolto, fungendo quasi da ritratto programmatico dell’album. Musicalmente sobrio ma ficcante al tempo stesso, si dipana lungo oltre sette minuti e mezzo, tutti scanditi da versi pregni di significato, al più illuminati.

Il bisogno e una certa ansia comunicativa sono connaturati allo spirito di Rocca che già dalla traccia successiva, la più cruda (seppur ariosa a livello musicale, forte di un arrangiamento raffinato) “Nessuno”, affila i colpi, consegnandoci un testo tagliente e molto a fuoco, dove nullo è lo spazio per una riconversione, fin dal potentissimo – a livello visivo e concettuale – incipit: “di noi chi si ricorderà/quando tutti i nostri nipoti saranno morti e decomposti?…. non sai che cosa fare per renderti immortale”.

La seconda traccia del disco: “Nessuno”, tra i brani migliori di Alessandro Rocca

Questi tratti della sua penna, se da un lato mostrano una vena letteraria autentica, dall’altra possono intralciare l’ascolto di chi è meno disposto a lasciarsi andare alle confessioni del nostro.

In ogni caso è innegabile come concorrano alla felice riuscita del progetto, al di là di testi di spessore, quelle che sono musiche altrettanto ispirate e rivelatrici, in grado di addolcire parole spesso pesanti come macigni, proprio come accade mirabilmente nella già citata “Nessuno”, i cui rintocchi di pianoforte sono magnifici e il violoncello caldo e avvolgente.

Artefice di questa tavolozza musicale che si manifesta di volta in volta ora austera e cameristica, ora vivace e con scorci di luminosità, è Luca Gambacorta che ha curato gli arrangiamenti, oltre ad aver suonato pianoforte e altri strumenti, mentre un valido apporto in studio, a completare il suono della chitarra acustica su cui poggiano le basi i vari brani, ci sono Cecilia Santo al violoncello, Marco Di Francesco al contrabbasso e Paolo Grassi al clarinetto.

Ma non bisogna assolutamente dimenticare l’importanza di Andrea Cajelli, purtroppo morto prematuramente, titolare dello studio dove sono avvenute le registrazioni, a cui Rocca riconosce in modo commosso i meriti per la realizzazione di questo progetto.

Il risultato è un connubio assolutamente vincente, alla ricerca di un equilibrio di forma e sostanza finalmente ottenuto, dopo, si presume – visto il lungo arco di tempo trascorso prima della pubblicazione – diverso lavoro di rifinitura e cesello.

In un brano come “Pesci” ad esempio ogni aspetto è reso perfettamente, laddove un testo caratterizzato da immagini vivide e affascinanti, che raggiunge il suo culmine quando viene declamato: “i pesci presi nelle reti sono più liberi dei pescatori, gli uccelli chiusi nelle gabbie non hanno smesso mai di volare ed io cammino in spazi aperti, cristallizzati in dedali di regole…” è avvolto in un apparato musicale intimo e raccolto, che lo delinea al meglio, valorizzandolo nei suoi elementi.

“Licaone”, invece, ottava traccia del lavoro, riprende le atmosfere che avevamo sentite già particolarmente tese in altri momenti topici come “Sventrati” e inizia in modo perentorio, quasi un paradigma del Nostro per farci entrare subito nel mood del pezzo: ” Si può vivere così riducendosi a sputare sangue senza faticare? Il mio posto non è qui come un licaone in mezzo al mare che non sa più cosa fare“.

Non si riscontrano ad ogni modo degli episodi meno incisivi rispetto ad altri, ogni canzone – sintetizzata nel titolo da un vocabolo ogni volta assai efficace – è un tassello di un percorso esistenziale che culmina nell’invocazione (simile a una rassicurante constatazione) presente nell’ottima title track, la profonda e magnetica “Transiti”, che chiude il tutto dispiegandosi in un affresco sonoro di otto minuti: “Io voglio vivere, non l’ho scelto, sì, ma io voglio vivere”, ripetuto tre volte, come a ribadire una forte volontà e una rinnovata determinazione ad assaporare le cose belle che un’esistenza vissuta appieno sa offrirci.

E’ questo un album davvero sui generis nel tanto frastagliato novero dei cantautori italiani, che non strizza l’occhio a nessuno, se non a quelle persone che ancora, nel 2020, intendono un disco come l’approdo a qualcosa di più che un semplice ascolto di sottofondo, qualcosa che può magari anche turbare ma in grado soprattutto di regalare emozioni e sensazioni fortissime.

Alla scoperta di “Lost in the desert”, secondo album di RosGos

Dietro il nome RosGos si cela l’artista lombardo (di Crema, per l’esattezza) Maurizio Vaiani, che fu attivo alla guida dei Jenny’s Joke negli anni zero, pubblicando tre album di rock obliquo e notturno e suonando in concerto un po’ ovunque.

La voglia di scrivere e di mettersi in gioco non si è mai spenta però in lui e appropriatosi di questo curioso nickname (da un termine dialettale delle valli lombarde) ha dapprima realizzato un album in italiano (“Canzoni nella notte”) per poi tornare ad esprimersi in inglese con questo nuovo “Lost in the desert”, uscito a metà aprile, in piena emergenza Covid-19.

Vale la pena quindi soffermarsi su quest’ ultimo lavoro, anche perché nonostante i buoni propositi, come molti altri pubblicati nel medesimo periodo, giocoforza non ha potuto usufruire della giusta promozione, visto il lockdown cui siamo stati tutti necessariamente sottoposti.

La copertina di “Lost in the desert”, il nuovo album di Maurizio Vaiani, in arte RosGos

Messi da parte gli spunti cantautorali del lavoro precedente, alcuni in ogni caso molto interessanti, bisogna ammettere che RosGos pare sentirsi maggiormente a suo agio nei panni del folk rocker sedotto dall’epica e dalla tradizione musicale americana.

Basta mettersi all’ascolto dell’iniziale “Free to weep”, per immergerci nella giusta atmosfera: il brano, con i suoi tocchi acustici e sognanti ci fa inoltrare in un metaforico viaggio che si alimenta di canzone in canzone, andando a braccetto con il mondo di riferimento dell’autore.

Siamo già così predisposti dopo un solo assaggio ad assistere quindi al viaggio interiore dello stesso Vaiani, che ci viene tradotto in undici tappe che somigliano molto a un cammino disseminato nel deserto, dove si possono incontrare le luci abbaglianti del sole ma anche le fresche ombre notturne.

Nella prima specie vanno annoverate canzoni come la paradigmatica “Standing in the light”, accogliente e ammaliante con i suoi delicati arpeggi di chitarra, la countryeggiante “To daydream” e l’ode elettrica “Mary Ann”, mentre più ispide e urticanti appaiono la dilatata “Lost”, la dimessa “Misery” e l’evocativa “Sparkle”.

Una menzione a parte merita la dolce, sussurrata “Sara”, con la voce del Nostro che sembra provenire da scenari lontani. Ma sarebbe un po’ fuorviante incasellare questo lavoro unicamente alla voce folk, perché in realtà ci sono alcuni episodi dove emerge ancora prepotente l’anima rock, certo memore della lezione a stelle e strisce. Un esempio lampante è dato da “Telephone Song”, il cui solido e vivace arrangiamento mette in luce una vocazione da band, con sezione ritmica incalzante, la chitarra che apre squarci nella nebbia e la voce filtrata ma che emerge piena e forte in superficie.

Non è più un ragazzino Maurizio Vaiani ma questa improvvisa prolificità compositiva è giusto che sia alimentata, seguendo questa indole naturale, che magari non sarà quella che finisce nei piani delle classifiche, ma di certo è in grado di arrivare al cuore dell’ascoltatore, perché appassionata e viscerale.

 

Un Antonello Venditti memorabile per il tour celebrativo del disco capolavoro”Sotto il segno dei pesci”

Antonello Venditti ieri ha fatto tappa a Marostica, tra i colli vicentini, in questo lungo e fortunato tour celebrativo per i 40 anni (ormai compiuti l’anno scorso) di uno dei suoi dischi clou: “Sotto il segno dei pesci”.

La cornice era splendida, come gran parte di quelle scelte per l’occasione di questo tour che, in origine, doveva solo fermarsi all’Arena di Verona (a proposito di memorabili location), il pubblico pure, ma soprattutto a brillare in un cielo che fortunatamente ha tenuto a bada il pericolo pioggia, sono state le canzoni del grande cantautore romano.

Di solito, come critico, mi occupo di altro tipo di musica, più tendente al rock, tra l’altro di matrice alternativa, ma chi mi conosce è al corrente della mia passione per la musica italiana, quella con la I maiuscola. E il buon Antonello rientra di diritto tra i più grandi della storia della nostra musica, nonostante lui anche ieri regalando sinceri tributi e affettuosi ricordi dei colleghi/amici scomparsi Pino Daniele e Lucio Dalla, ne parli come se appartenessero a un’altra categoria rispetto a lui. Invece il campionato in cui da ben 47 anni si cimenta il Nostro (da quando nel 1972 uscì il suo primo album “Theorius Campus” in coabitazione con l’amico Francesco De Gregori) è lo stesso dei sopra citati, grandissimi artisti italiani, e Venditti nell’arco di questa lunghissima carriera, si è posizionato spessissimo in zona Champions League, vincendo diversi scudetti: pensiamo ai successi clamorosi di pubblico degli anni ’80 o all’affermazione piena come cantautore proprio con l’album che sta riproponendo in toto in queste date: “Sotto il segno dei pesci”.

A 70 anni belli che compiuti Venditti mostra una vitalità straordinaria, una resa artistica integra ma soprattutto una passione senza eguali: lo si capisce da molti gesti, da come si muove, da come è coinvolto in ogni singola parte del concerto, da come ama raccontare aneddoti, fatti, episodi curiosi, particolari, molto personali, dalla piena sintonia che mostra con i suoi fidati storici collaboratori sul palco… lo si percepisce chiaramente soprattutto da come interpreta, vive e ci trasmette le sue canzoni.

Non si è proprio risparmiato ieri sera, suonando per quasi 3 ore e mezza (dalle 21,30 a poco meno dell’una di notte), dando giusto risalto al disco che viaggia per i 41 anni in quest’estate 2019, il già citato “Sotto il segno dei pesci” – di cui racconta genesi e significati più profondi – e per cui chiama a raccolta la folk band romana Stradaperta (che con lui incise lo storico disco all’epoca) ma spaziando, come era nel desiderio dei numerosissimi fans accorsi da gran parte del Nord Italia, in lungo e in largo nel suo repertorio, con l’esecuzione di tantissimi classici e il ripescaggio di alcune canzoni molto datate ma che evidentemente, come da lui spiegato, hanno una valenza molto importante per la sua vita e il suo percorso.

In tutto ciò, davvero, non si assiste a cadute di tono, a momenti di stanca; l’energia, la vitalità e lo spessore rimangono elevati per tutta la durata dello show, con intermezzo simpatico del cantautore, prima di “Dalla pelle al cuore”, quando chiama sul palco delle “coraggiose” donne per aver alzato la mano alla sua domanda su chi avesse perdonato un tradimento del proprio partner. Poi si è scoperto che una di loro aveva bluffato per salire sul palco e abbracciare il suo idolo ma ormai il simpatico giochino era riuscito!

Come detto, il cantautore è andato a pescare da diversi album, non tralasciando nessuna fase della carriera. Risulta quasi pleonastico commentare ogni singolo brano, perchè ognuno avrà avuto i suoi momenti più intensi durante i vari ascolti, ognuno con un proprio vissuto ed emozioni da poter liberare in un canto liberatorio o anche semplicemente facendosi trasportare dalle note e dalle parole dei brani passati in rassegna.

Personalmente sono stati tre i miei momenti clou, se escludiamo una “Giulio Cesare” che per prima mi ha fatto salire l’effetto karaoke: il primo l’ho vissuto durante una struggente “Lilly”, in grado di commuovermi sempre; poi l’emozione è salita alle stelle nelle tre canzoni da lui eseguite da solo al piano e che hanno anticipato il set de “Sotto il segno dei pesci”, vale a dire una toccante “Compagno di scuola” (prima però si era soffermato sul significato dato al termine “compagno”, specie in quei ruggenti anni ’70), una “Ci vorrebbe un amico” dedicata a Lucio Dalla, del quale ci condivide la sua gratitudine e l’affetto sincero in un momento delicato della sua esistenza e la storica “Notte prima degli esami”, ormai evergreen della musica italiana tutta; infine ecco affiorare la pelle d’oca durante una straordinaria “Che fantastica storia è la vita”, giustamente riconosciuta come una delle poche hit rimaste dagli anni 2000 in poi.

Nota di merito, dalle parti del tripudio, per la mezz’ora finale, in cui Venditti ha sciorinato brani entrati nell’immaginario di moltissima gente di varie età – com’era composto il copioso pubblico – e di fatto “generazionali”, sia che si trattasse di temi ad ampio raggio (“Benvenuti in paradiso”, “In questo mondo di ladri”), sia che fossero le sue più celebri canzoni d’amore (è mancata giusto “Ogni volta” ma in compenso ha eseguito le immortali “Amici mai”, “Alta marea” e quella “Ricordati di me” con cui ha trionfalmente chiuso il concerto) tra migliaia di smartphone alzati.

Un tempo esistevano gli accendini, forse era più romantico allora, ma in fondo cambia poco: rimane intatta la voglia di partecipazione, di prendere qualcosa per sè che possa essere ricordato, fissato nella mente e nel cuore. E ieri di momenti indimenticabili Antonello Venditti ne ha regalati davvero parecchi a me, a mia moglie e all’intero pubblico.

(di seguito la scaletta dello show)

  1. Raggio di luna
  2. I ragazzi del Tortuga
  3. Giulio Cesare
  4. Piero e Cinzia
  5. Peppino
  6. Stella
  7. Non so dirti quando
  8. Lilly
  9. Compagni di scuola
  10. Ci vorrebbe un amico
  11. Notte prima degli esami
  12. Sotto il segno dei pesci
  13. Francesco
  14. Bomba o non bomba
  15. Chen il cinese
  16. Sara
  17. Il telegiornale
  18. Giulia
  19. L’uomo falco
  20. Dimmelo tu cos’è
  21. Dalla pelle al cuore
  22. Unica
  23. Cosa avevi in mente
  24. Che fantastica storia è la vita
  25. Amici mai
  26. Alta marea
  27. Benvenuti in paradiso
  28. In questo mondo di ladri
  29. Ricordati di me

Torna il mio programma Out of Time, giunto alla quinta edizione, in onda il giovedì dalle 17 alle 19 su www.yastaradio.com

Riprende Out Of Time, il mio programma in onda su http://www.yastaradio.com, splendida realtà diretta e ideata da quel genio dell’amico Dalse, nel quale in piena libertà, ho la possibilità di passarvi amabilmente la musica che amo, ma non solo.

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Una parte importante del nostro appuntamento radiofonico – giunto alla sua quinta edizione – riguarda infatti l’approfondimento, senza andare a discapito di quella “leggerezza” nel trattare vari temi che da sempre ci contraddistingue.

Non canzoni banali, però, quelle mai, ma piuttosto legate ad attualità, così come al passato o addirittura con un orecchio rivolto al futuro, con le scommesse sui nomi più accreditati.

E poi monografie e puntate speciali legate a particolari eventi e quant’altro.

Un po’ come è successo con l’episodio zero di questa edizione, andato in onda giovedì scorso e che potrete comodamente ascoltare in replica, da pc, smartphone o tablet che sia, già domani dalle 15 alle 17. Avrete così modo di ascoltare tante canzoni che hanno composto la griglia di “papabili” per le prestigiose Targhe Tenco, da cui sono poi scaturiti i nomi dei vincitori (ormai appannaggio di tutti), e già premiati nella giusta sede sanremese, all’Ariston la settimana scorsa (evento che mi ha coinvolto direttamente, visto che ero presente in sala, in quanto giurato della rassegna, in rappresentanza tra gli altri proprio di yastaradio)!

Non solo però Niccolò Fabi, Motta, Peppe Voltarelli, Claudia Crabuzza o Di Giacomo/Elio, vincitori rispettivamente delle Targhe per il miglior disco dell’anno,miglior esordio, miglior album di interpreti, miglior album in dialetto e miglior canzone, ma anche altri che a mio avviso si erano messi in luce, al punto da ottenere fra le altre, la mia preferenza.

Importante però rispetto a tutte le edizioni precedenti, è che la messa in onda sarà nella giornata di giovedì dalle 17 alle 19 (con replica appunto il venerdì dalle 15 alle 17).

Non mi resta che augurarvi buon ascolto, con la speranza che siate numerosi e che possiate apprezzare lo sforzo e la passione nel passarvi musica di qualità e in grado di prevaricare i confini, passando dal classic rock all’indie, dai cantautori alla canzone pop, dagli italiani alla musica estera, del passato fino ai giorni nostri.

vi aspetto!!!!

Nel disco d’esordio a suo nome, Giacomo Marighelli con “Il Cerchio della vita” lancia la sfida di cantare essenzialmente d’amore, lontano da ogni clichè

A colpire l’immaginario di un ascoltatore che volesse approcciarsi alla musica di Giacomo Marighelli –  che esordirà col suo nome e cognome dopo l’esperienza pregressa sotto pseudonimo Margaret Lee – il 21 settembre, potranno essere con ogni probabilità i suoi testi davvero lirici e intensi.

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L’album, dall’evocativo titolo “Il Cerchio Della Vita” (ed. La Cantina Appena Sotto La Vita), segue di ben due anni i primi esperimenti in chiave cantautorale (almeno in senso stretto, chitarra acustica, voce e poca altra strumentazione) de “La Ragazza Invisibile”, e in pratica mostra una crescita fisiologica del Nostro, originario di Ferrara, laddove le intuizioni prima erano solo abbozzate.  Nulla a che spartire comunque con il rock acido e diretto del suo alter ego passato Margaret Lee, dove si sentivano le influenze di Giorgio Canali, col quale aveva collaborato.

In questo disco invece la poesia e la profondità delle parole viaggiano di pari passo con una sorta di consapevolezza nuova, come se Marighelli intendesse veramente mostrarsi al pubblico, non lesinando in ambizione.

La sfida di rileggere in chiave nuova, o quantomeno personale, il tema che più di tutti ispira da sempre chi si accosta allo strumento: l’Amore. Un amore che non si nasconde, e che può essere filtrato sicuramente da esperienze personali (penso a uno degli episodi più convincenti, anche a livello musicale, con atmosfere oniriche, cupe e quasi spaziali: “Mentre tu mi cerchi”), ma che ha come fine il sentimento universale, qualcosa che possa riguardare proprio tutti.

Le tracce in genere si mantengono scarne in quanto ad arrangiamenti, ma una canzone come “L’Angelo Dalle Mani Di Tela” mostra soluzioni molto particolari, a iniziare dall’inaspettata esecuzione in coppia con il piccolo Tommy, un bambino che in sincrono al cantato di Marighelli si ritrova a declamare le stesse parole, intrise di immagini metaforiche e suggestioni, mentre via via tutta la canzone si dispiega in un brano urticante e molto sentito. Si tratta della canzone nettamente più interessante del lotto, dove l’aver osato qualcosa di più ha dato i propri frutti.

Non mancano comunque brani più solari e rassicuranti, come ad esempio ne “Il dio Denaro”, che in realtà nasconde un testo a tratti ironico e diretto, e la curiosa dedica d’amore “Il grillo che fischia”. Una menzione la merita anche l’iniziale “Avrei voluto masticare il tuo cuore”, dai toni un po’ blues, un po’ floydiani., della quale è stato realizzato un videoclip.

Un disco non facile, forse sin troppo teso e lento nell’incedere, ma da apprezzare se non altro per il tentativo di proporre brani tutti concentrati sull’amore,  affrancandosi dai clichè tanto in voga nel panorama italiano.

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Recensione di “Dalle vie di Milano”, esordio del cantautore Giovanni De Cillis

Giovanni De Cillis, trentaquattrenne milanese, di Bresso, ha da poco esordito con un ep di 4 brani tutti in italiano, dopo una lunga esperienza maturata con altri progetti. “Dalle vie di Milano” è una mini opera compiuta, dove il cantautore sfodera un’anima intimamente folk, declinata in canzoni dolci, calde, dal sapore d’inverno. Strano considerando il suo retaggio, fatto di tanti ascolti di musica rock e punk e tentativi, anche riusciti, di mettere in pratica alcuni degli insegnamenti dei padri putativi nei suoi lavori precedenti, quando stava alla guida di un trio e si esibiva in inglese. Ma è evidente come in Giovanni fossero presenti anche altre istanze, quelle care appunto ai tanti cantautori cui lo possiamo far ricondurre, nonostante sia alla ricerca sicuramente di un cammino personale. Folk, dicevamo, ma non solo nelle 4 tracce, introdotte dal miglior brano del lotto: “Punta di luna”. Anche la più pura e semplice canzone d’autore, specie quella di derivazione francese, più che altro nelle atmosfere. Piace il modo in cui veste le sue canzoni, affidandosi a strumenti acustici, pieni, in cui oltre alle chitarre compaiono banjo e mandolino, qua e là qualche tocco di fisarmonica e accenni di fiato.

Nella prima traccia, indubbiamente la più efficace e che a mio avviso andrebbe scelta come brano di lancio, si avverte una tensione poetica dell’autore e una delicatezza nell’interpretazione, supportata da una delicata voce femminile. Immagini magari stereotipate e quasi dissolte ma ben rese anche sul piano metrico. “Quando torno a casa” nella struttura è più immediata, introdotta da un bell’accordo di mandolino ma i toni si fanno crepuscolari. “Aspetto” mantiene l’atmosfera relativamente mesta, nonostante i fiati contribuiscano in realtà a conferire raffinatezza e classe, mentre la canzone che intitola l’ep parrebbe un tentativo di coniugare interpretazione introspettiva, grazie agli inserti di recitato, e atmosfera malinconica che ben si adatta al contesto descritto. Un esordio che lascia presagire una crescita, ma che forse è sin troppo omogeneo e “chiuso”. Visto lo spettro musicale certamente ampio del cantautore De Cillis, ci si poteva aspettare qualche variazione più contrastante tra un brano e l’altro ma almeno gli concedo una coerenza e una sincerità di fondo che traspare evidente tra le note. Sono tutte canzoni che si lasciano ascoltare piacevolmente, riuscendo anche a cullare e trasportare in una dimensione di rilassatezza. Il disco, promosso dalla Cococi di Monelle Chiti,  si può ascoltare interamente in streaming su soundcloud  https://soundcloud.com/jdecio/sets/dalle-vie-di-milano 

Venerdì 18 alle 21 torno in onda con il mio programma radio “Out of time” su Yastaradio!

 

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Sono molto emozionato nel ricordare che venerdì alle 21 tornerò in pista a Yastaradio.com con il mio programma “Out of Time”. Lo faccio dopo mesi di forzata attesa, visto che il 2013 l’ho passato alle prese con problemi vari di salute che hanno compromesso lì per lì diversi progetti che stavo ben portando avanti. Ora, visto che tutto va via risolvendosi, di conseguenza anche i vari progetti, professionali e di vita, hanno ripreso a marciare. Posso così dedicare ancora del tempo prezioso a un progetto che ritengo altrettanto prezioso, quello della radio, che 12 mesi fa, mi vide protagonista per alcuni episodi, anche dello storico programma “Monophono”: all’epoca contribuii con monografie su Marlene Kuntz, Smashing Pumpkins, R.E.M. e Radiohead, ma erano previste altre puntate che probabilmente andranno messe in onda. Ora che sto meglio, l’energia positiva è alle stelle, e di pari passo il mio entusiasmo che – a onor del vero – non è mai mancato, nemmeno nei momenti più bui della malattia che mi aveva colpito. Innanzitutto però riprendiamo da Out of Time che da settembre 2012 mi vide protagonista a Yastaradio per una quindicina di settimane, in cui passavo senza filtri la musica che amo, spaziando dai generi, pur privilegiando certe influenze indie rock, o folk, e andando dai classici a brani nuovi di zecca, considerata anche l’imponente mole di lavori, autoprodotti, indipendenti o meno, che mi arrivano da più parti. Mettere al primo posto la qualità della proposta musicale è da sempre mio impegno, magari condendo le puntate con spunti, aneddoti, con toni in ogni caso divulgativi – perché quella è la radio a cui in qualche modo mi ispiro, a me piace quando posso ancora “scoprire” qualcosa ascoltando una trasmissione! – ma mai “didascalici”, piuttosto mi piace essere scanzonato, leggero, non nel senso “becero” del termine: insomma, chi già mi segue dalla precedente edizione ormai avrà imparato a conoscere il mio stile.

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Non è mia consuetudine ma per il mio rientro mi va pure di condividere in anteprima la scaletta della puntata, ma sarà solo per questa ripresa, poi vi aspetteranno sempre delle sorprese che avrò in serbo in voi.  Vi aspetto numerosi allora venerdì 18 alle 21 su www.yastaradio.com e in replica il lunedì successivo alle 15 con il mio programma “Out of Time”… BASTA UN CLICK!

Sigla apertura: – R.E.M. “Shiny happy people”

–          Kings of Leon “Supersoaker”

–          Eleanor Friedberger “Stare at the sun”

–          Anna Calvi “Desire”

–          Bob Dylan “I want you”

–          The Doors “Touch me”

–          Virginiana Miller “Tutti i santi giorni”

–          His Clancyness “Machines”

–          Rufus Wainwright “Across the Universe”

–          Bruce Springsteen “I’m on fire”

–          Jeff Buckley “So real”

–          Caparezza “Non me lo posso permettere”

–          Daniele Ronda “La rivoluzione”

–          Loreena McKennitt “Skellig”

–          Franz Ferdinand “Eleanor put your boots on”

–          Sick Tamburo “La mia mano sola”

–          Tinariwen “Imidiwan Ahi Sigdim”

–          Boards of Canada “Reach for the dead (from Tomorrow’s Harvest)

 

Alla riscoperta di un disco molto interessante: “Anarchia Cordis”, esordio solista di Diego Nota

Giusto un anno fa esordiva nel mondo discografico da solista il cantautore frusinate Diego Nota, con l’interessante album dall’intrigante titolo “Anarchia Cordis”. Prima di allora l’artista trentacinquenne si era già fatto conoscere al pubblico come leader degli Ultimavera, con i quali aveva pubblicato ben tre dischi dalla seconda metà degli anni 2000 fino allo scioglimento dell’ensamble, giunto nell’estate del 2011.

E’ un autore quindi maturo quello che si muove tra le pieghe di questo lavoro, estremamente arguto e compiuto, purtroppo “persosi”, dimenticato nel novero delle tante, troppe, autoproduzioni (ma non solo) in cui è sempre più facile imbattersi in rete di questi tempi così confusi e convulsi. E proprio della realtà dei nostri tempi, con fervidi rimandi a un passato prossimo ancora recente e in grado di scottare, ci vuole parlare Diego Nota, attraverso 9 brani inediti (l’ultima traccia, l’insolita “Polvere di rospo”, seppur letteralmente stravolta a livello di arrangiamento, era invero già presente nell’ultimo lavoro edito con gli Ultimavera) diversi nelle atmosfere, eppure legate indissolubilmente da un filo conduttore e inequivocabilmente ascrivibili alla stessa penna, riconoscibile ad ogni attacco di brano.

Nell’inquadrare la realtà odierna Diego indaga su sé stesso, sul proprio vissuto, sulle proprie aspettative e su ciò che è stato. Lungi però dal voler essere uno dei tanti nuovi emuli di Vasco Brondi, laddove il ferrarese è solito usare toni cupi, plumbei, finanche apocalittici, Nota predilige toni ironici, talora sfocianti nel sarcasmo, fino a divenire manifesto invettivo in un brano dal forte impatto quale “San Pietro Calamitato”, dove a un certo punto riecheggia l’ombra di Clementi (ma forse è solo una mia suggestione!). C’è come la consapevolezza, presente in molti 35enni/40enni, di essere stati per così dire “traditi” nelle aspettative da una società che prometteva un futuro, se non florido, quanto meno solido, verso il quale poter aspirare con legittime aspirazioni e ambizioni. A colpire, nell’ambito di un disco tutto sommato “pop”, sono sia i testi, assolutamente non banali e caratterizzati da un profluvio di parole, tanto distanti da rime tipo “cuore/amore”, sia le atmosfere, che rimandano a stilemi cari a mostri sacri quali Joy Division (specie nell’efficacissimo intro del brano eponimo dell’album) o nella frizzante “Antropoteca”, in cui vengono snocciolati i temi più nelle corde dell’autore (l’attualità, la disillusione, la precarietà) e Smiths o primi R.E.M. in certe chitarre “jingle jangle” (che fanno capolino ad esempio in “Rupestre”).

Gli arrangiamenti sono il punto forte di questo disco, che rendono al meglio la bellezza e la profondità di brani come “Canzone per i nostri sei piedi” o di “Cosmonauta”, mentre “Scene dalla vita di provincia” o “Per un pugno di domeniche” sembrano le più a fuoco in quanto a immediatezza tematica.

Un lavoro che non pare azzardato inquadrare in quel filone, piuttosto scarno a dire il vero nel contesto musicale italiano, di un indie pop italiano ben congegnato che trovano nei Virginiana Miller dei validissimi interpreti. Un pop rock di qualità, insomma.

Vale la pena quindi andarsi a scoprire questo “Anarchia cordis” o a ripescarlo da qualche sperduta cartella di file mp3 compressa nei vostri hard disk, perché la bellezza, quando viene emanata in qualche forma, è giusto che emerga in superficie, anche se a distanza colpevole di un anno.