Dischi italiani da (ri)scoprire: “La grande notte” – Michele Mingrone

Nell’andare finalmente a scrivere di questo disco – che da un bel po’ di mesi è presente fra i miei ascolti – mi pare doveroso fare una premessa: si parla tanto di crisi della discografia, un argomento anche da me più volte tirato in ballo, ma mi sembra che non manchino certo le etichette che ancora ci tengono a proporre prodotti di qualità, dove non si guarda alle mode del momento e si preferisce piuttosto lavorare di fino, scegliendo appunto chi abbia qualcosa da dire.

Fra queste non posso non considerare la Vrec Music Label, da anni impegnata a far emergere nomi che, al di là di generi più o meno codificati, sono portatori tutti del vissuto e dell’autenticità del loro autore.

Senza andare troppo a ritroso nel tempo, attenendomi quindi agli ultimi anni posso citare in ordine sparso i casi di Olden, Nicola Lotto, Flavio Ferri, Marco Ongaro, Andrea Chimenti o Talèa, già protagonista recente di questa rubrica, tutti usciti sotto il marchio dell’illuminata label veronese.

A questi legittimamente si può aggiungere il nome di Michele Mingrone, nato a Firenze nel 1971, e che davvero si fa fatica a incasellare come “esordiente”.

E questo non per un mero fattore anagrafico o per la copiosa esperienza maturata non solo in ambito musicale (è stato chitarrista e autore degli interessanti Scaramouche), visto che è anche scrittore, avendo pubblicato libri per ragazzi, “strane” guide turistiche e romanzi, ma proprio perché mettendosi all’ascolto delle sette tracce che compongono “La grande notte” si scorgono tante componenti tutte miscelate al posto giusto, al punto da far impallidire navigati artisti di casa nostra.

Proprio per il suo background è difficile poi stabilire se siano più rilevanti gli aspetti narrativi (in testi molto incisivi ma che allo stesso tempo non disdegnano calzanti passaggi poetici) o quelli musicali, poiché entrambi colpiscono nel segno, dimostrando grande maestria e competenza, oltre che una genuina passione.

Il tutto incanalato in brani dove confluiscono reminiscenze folk, cenni biografici, escursioni felici nell’attualità (con forte taglio sociale nelle parole e nelle tematiche), e un retaggio blues e cantautorale che ce lo fa accostare più a epigoni a stelle e strisce che non ai mostri sacri della canzone d’autore, dei quali comunque mi sento di dire sia debitore.

Erano stati rivelatori dell’alto tasso qualitativo dell’album già i singoli che ne avevano promosso l’uscita, cosicché scorrendo la tracklist da cima in fondo diviene difficile riscontrare pezzi meno significativi rispetto ad altri: vanno citate almeno la sanguigna “Figli del grano”, l’altamente lirica “Ombre del mare – La tempesta perfetta”, dai riuscitissimi cori e controcanti di Elisa Barducci e Michele Lombardi, quest’ultimo già con lui negli Scaramouche, una “Castiglioncello” intrisa di dolce malinconia, e “La peste scarlatta”, forse la summa della poetica del Nostro.

Una ricetta semplice, se vogliamo, quella di Michele Mingrone che però, coadiuvato in studio da un pool di ottimi musicisti, è riuscita ad arrivare dritta al cuore degli ascoltatori, che facilmente possono comprendere la natura umana e “urgente” di queste canzoni.

Dischi italiani da (ri)scoprire: “L’amore giallo” – Gabriele Priolo

Cantautori, nel senso più classico del termine, come Gabriele Priolo ne nascono sempre di meno, perché è adagio comune che ormai la stessa canzone d’autore si sia fortemente contaminata con altre espressioni musicali, mutando forma ma spesso e volentieri anche sostanza.

Negli album dell’artista ligure invece è facile riconoscere certi stilemi che hanno fatto la fortuna del cantautorato nostrano e pazienza se il Nostro sta vivendo un’epoca dove sembra ci sia sempre meno spazio per chi ancora racconta storie e fa con la musica anche un’opera di ricerca.

In questo “L’amore giallo” Priolo omaggia nel vero senso della parola il parente Gigi Comolli, pittore lombardo che, nato sul finire dell’ottocento, intraprese la sua attività specie dopo il termine del primo conflitto mondiale, dedicandosi per lo più ai paesaggi e alla natura morte.

Mediante otto canzoni che si avventurano lungo territori che comprendono riferimenti alla storia e alla letteratura, e ovviamente all’arte, Priolo riesce nell’intento di far affiorare tratti di vita dell’illustre parente, a iniziare dalla prima traccia, “Gigi”, piuttosto programmatica nei suoi cenni biografici, fino ad arrivare a “Mostre” che somiglia a un divertissement nel suo elencare gli indirizzi delle gallerie dove Comolli espose le sue opere, mentre una canzone come “I funerali dell’anarchico Galli” oltre ad essere intrisa dello stesso spessore storico e culturale si distingue per un apparato musicale coinvolgente totalmente appannaggio di un guizzante pianoforte.

Insomma, “L’amore giallo” di Gabriele Priolo merita un ascolto attento perché niente è lasciato al caso o affrontato in maniera superficiale: solo così si potranno cogliere quei dettagli che denotano un amore autentico da parte dell’autore per l’arte in tutte le sue sfaccettature.

Targhe Tenco 2023 – Al via il primo turno di votazioni: i primi 5 di ogni categoria si contenderanno l’ambito riconoscimento

Tempo di Targhe Tenco e, come ogni anno, da giurato cerco di assolvere al meglio il mio compito, in primis provando ad ascoltare più dischi possibili (ma quello lo faccio abbondantemente già durante l’anno, quindi non c’è il rischio di arrivare impreparati a questo punto: lo dico a tutti i musicisti e uffici stampa che fino all’ultimo giorno ti ricordano di ascoltare il tal disco, ma li posso capire in fondo), e poi nell’operare delle scelte che, al di là degli inevitabili gusti personali, riflettano anche una condizione di oggettività.

Musica buona ne è uscita parecchia nel periodo preso in esame, che va dal primo giugno 2022 al 31 maggio 2023, di tutti i tipi e generi, e come in ogni Rassegna dove si assegnino dei riconoscimenti (e il Premio Tenco rimane indiscutibilmente quella più importante riguardo la canzone d’autore) viene naturale al di là dei nomi a cui ognuno darà la propria preferenza anche imbattersi in pronostici.

Nel mettere in fila pertanto diversi titoli tra cui quelli che conto di indicare in questa prima fase di votazioni (ricordo che da regolamento per ogni categoria è possibile indicare fino a tre preferenze da cui usciranno i cinque finalisti che si contenderanno le Targhe: in quel caso si dovrà assegnare un voto unico), mi sbilancerò pure nei miei pronostici categoria per categoria.

MIGLIOR ALBUM IN ASSOLUTO

Tanti i titoli in lizza ovviamente, e due almeno che a mio avviso dovrebbero passare al turno successivo in scioltezza: mi riferisco alla lanciatissima Madame (che già ai tempi del disco d’esordio fece il botto in questo contesto, portandosi a casa ben due Targhe) e al “solito” (in senso buono) Vinicio Capossela.

In entrambi i casi non posso certo negare si tratti di proposte molto valide e meritevoli, così come – giusto per spendere un altro nome di un album molto interessante – quella di Rossella Seno (“La figlia di Dio”) con il quale l’artista veneziana ha replicato per qualità e spessore il precedente “Pura come una bestemmia”; detto ciò mi preme soffermarmi su altri tre lavori, meno acclamati mi pare, ma che reputo di indubbia qualità.

Si tratta degli album di Massimo Donno, Giacomo Lariccia e The Niro.

L’artista salentino, con “Lontano” ha realizzato un album assai raffinato, evocativo, ricco di suggestioni e collaborazioni; il secondo, da tempo in rampa di lancio, è cantautore dallo stile assai personale, e con “Dieci” è stato capace una volta di più di mescolare a felici istanze d’autore una matrice pop assolutamente gradevole; infine Davide Combusti (alias The Niro) il quale, giunto in dirittura d’arrivo per quanto riguarda i termini temporali di opere ammissibili per le Targhe, con “Un mondo perfetto” ha dato alle stampe un album senza punti deboli, dove mostra una rinnovata ispirazione, in brani per la maggior parte cantati in italiano dal respiro internazionale.

Giocoforza questa del miglior “Album in assoluto” risulta essere ogni volta la categoria più eterogenea, dove chiunque abbia all’attivo più di un disco potrebbe potenzialmente ambire alla prestigiosa Targa.

Ed è oltremodo difficile fare previsioni, specie in questa prima tornata di votazioni che comporterà una necessaria scrematura.

In ogni caso ho trovato molto validi oltre a quelli già citati anche gli album dei Marlene Kuntz, di Nada, della giovane cantautrice Angelae (che già si era fatta valere al Premio Bianca D’Aponte), di Filippo Andreani, Giovanni Truppi, Giuliano Dottori e infine quello di Emma Nolde, che potrebbe a sorpresa seminare diversi avversari più conosciuti.

Così come buone chances di affermazione le ha certamente il cantautore toscano Lucio Corsi, che ha aggiunto un altro importante tassello al suo percorso, divenendo sempre più artista riconoscibile tra le nuove leve.

MIGLIOR ALBUM DI INTERPRETE

E’ questa una categoria che fa emergere ogni anno qualche progetto particolare, di cui si parla sempre terribilmente troppo poco.

Personalmente amo quando si vanno a riscoprire nomi meno noti, ma non nego possa entusiasmarmi anche se qualcuno cerca di interpretare mostri sacri come nel caso di Costanza Alegiani che si è cimentata in un artista come Lucio Dalla – uno dei miei cantautori preferiti in assoluto – ripescando tra l’altro brani meno famosi e legati da un argomento comune.

Interessante anche l’omaggio di Stefania D’Ambrosio a Umberto Bindi, anche se forse un po’ troppo rivisitato in forma classica, e lodevole il tentativo di Marco Sabiu e Gabriele Graziani di rinverdire l’epopea dei dischi “bianchi” di Battisti nati dalla collaborazione con il paroliere Panella.

Tra gli album di interpreti impossibile non citare quello di Rossana Casale dedicato alla grande Joni Mitchell, quello dello straordinario duo Musica Nuda che si è cimentato con il repertorio di De Andrè, Luca Di Martino che ha omaggiato Fausto Mesolella, Alice che ha ricordato il maestro Battiato (chi meglio di lei avrebbe potuto?), per non dire di Alberto Bertoli che ha voluto duettare virtualmente col padre, il grande Pierangelo a vent’anni dalla sua scomparsa.

Due album che particolarmente mi hanno emozionato sono però quelli realizzati da Claudia Crabuzza e di Raiz (con i Radicanto).

La prima, non nuova a questi palcoscenici, con “Grazia, la madre (omaggio in musica a Grazia Deledda)” rende tributo alla grande Grazia Deledda con la solita classe e delicata autorevolezza; il secondo (voce sublime degli Almamegretta) rivisita alcune canzoni del repertorio dello storico cantante napoletano Sergio Bruni nell’album “Si ll` ammore e` o` ccuntrario d` `a morte”.

MIGLIOR ALBUM IN DIALETTO

Nel corso degli anni mi sono espresso molte volte a favore di questa particolare e affascinante categoria: è da qui infatti a mio avviso che provengono alcuni tra i migliori album tout court, perle magnifiche che vanno a rappresentare al meglio la vastità di tessuto storico, culturale e ovviamente musicale che troviamo nella nostra amata Penisola.

Non risulta facile stabilire con esattezza quale sia il “miglior” disco in questione, viste le tante storie che si portano dietro: in ogni caso sin dal primo ascolto sono stato rapito dal disco, in pratica appena uscito, di Peppe Voltarelli (un habituè delle Targhe, vista l’indubbia qualità delle sue proposte) e del cantautore e polistrumentista molisano Giuseppe Moffa, che ha recuperato i preziosi scritti di Eugenio Cirese, poeta e scrittore della sua Terra.

Un altro album a mio avviso imperdibile è quello della cantautrice Patrizia Cirulli che, mediante “Fantasia. Le poesie di Eduardo in musica” (un’operazione assolutamente degna di nota), si è accostata alla poetica del grande Eduardo De Filippo con rigore, curiosità e perizia, mostrandovisi intellettualmente affine.

In altro versante musicale, rock anziché folk, troviamo i napoletani Thelegati, che a dispetto del nome un po’ demenziale hanno realizzato un disco solido, viscerale, intenso e ricco di contenuti, così come i redivivi Almamegretta (tornati ispiratissimi con “Senghe”) o i pugliesi Radicanto, autori di un lavoro estremamente interessante e piacevole, oltre che concettualmente significativo, sin dal titolo “Alle radici del canto”.  

Se ci atteniamo tuttavia agli album puramente dialettali c’è letteralmente da “perdersi” in quanto a varietà della proposta, da Nord a Sud, passando per il Centro: tanto per citarne alcuni che vanno assolutamente ascoltati con attenzione, si può passare dalla Lombardia (con l’album del brianzolo Lorenzo Monguzzi, già leader degli ottimi Mercanti di Liquore) alla Sicilia (con la caleidoscopica world music degli Unavantaluna); dal Lazio (con l’ennesima ottima proposta de Il Muro del Canto) al Veneto (con il progetto di recupero e ricerca “Passeggeri” di Corrado Corradi, Rachele Colombo e Roberto Tombesi)

MIGLIOR ALBUM DI ESORDIO

Un’altra categoria che mi sta particolarmente a cuore è quella degli “Album di esordio”, mai come quest’anno mi verrebbe da dire combattuta, dopo l’apertura totale al pop avuta l’anno scorso (e in parte cominciata dodici mesi prima ancora con la relativa Targa “della discordia” – verrebbe da dire, viste le polemiche sollevate – assegnata a Madame).

Un anno fa infatti ebbe la meglio su una folta concorrenza Ditonellapiaga ma tra i primi 5 finalisti arrivarono anche artisti di chiara matrice mainstream come Blanco e Ariete.

Quest’anno ha suscitato un po’ di clamore una ipotetica vittoria della sarda Daniela Pes, il cui pigmalione è Iosonouncane: a detta infatti di una nota addetta ai lavori e critico musicale (che tra l’altro stimo e apprezzo molto) le sue non sarebbero propriamente canzoni, ma più degli strumentali senza contenuto lirico.

Pur comprendendo le ragioni di simili obiezioni, a mio avviso invece la sua candidatura possiede tutti i crismi per ambire a un legittimo riconoscimento, visto lo spessore della proposta, e questo nonostante la sua Opera Prima si avvalga in effetti più di un apparato musicale eterogeneo e di notevole impatto emotivo, anzichè riferirsi specificatamente a un determinato linguaggio scritto.

Mi è piaciuto molto pure un altro album “insolito” in questo ambito, quello del duo Bono/Burattini, suggestivo ed evocativo nel suo insieme, dalla prima all’ultima traccia; poi ok ci sono gli “esordienti di lusso”, che un tempo avrebbero “saccheggiato” le giurie, le quali invece due anni fa fermarono al palo due album seppur ottimi come quelli di Godano e Bianconi, alla loro prima prova con nome e cognome.

Ora in lizza su questo versante ci sono, a ben vedere, i lavori da solista di Manuel Agnelli, Davide Dudu Morandi dei Modena City Ramblers e Federico Dragogna ex Ministri; intendiamoci, sono opere tutt’altro che brutte (e ci mancherebbe, viste le qualità degli autori) ma sarei più felice se in finale arrivassero dei debuttanti assoluti, magari come i piemontesi Autoradio, che con “Ultrapop” hanno realizzato un album fresco, brioso, dal mood positivo e con diverse reminiscenze vintage, davvero non male per dei venticinquenni o poco più; o come Claudio Orfei che con il suo “My Wonderland” conduce l’ascoltatore in un lungo viaggio onirico, in un tripudio di atmosfere e stati d’animo differenti.

Sono ottimi esordi anche quelli di Anna Carol, a cui dedicai spazio sin dai suoi primi singoli sul sito di “Indie For Bunnies” e del gruppo rock I Fiumi, che sarebbe meglio definire un “supergruppo” vista la presenza al suo interno di musicisti del calibro di Xabier Iriondo, Diego Galeri e Andrea Lombardini, a supportare la magnetica voce di Sarah Stride.

Per ultimi, ma essenzialmente perchè rappresentano una scoperta relativamente più recente, ci tengo a segnalare i PASE, nati da una brillante idea di Andrea Fusario, primo bassista nonchè tra i fondatori dei Virginiana Miller, che propongono un pop d’autore declinato con classe e raffinatezza.

MIGLIOR CANZONE

C’è poi la Targa per la “Migliore Canzone” che premia gli autori del brano. Non sempre è semplice decontestualizzare un singolo episodio da un album intero, soprattutto in quei casi dove alla base vi sta un concept.

Il discorso lo potrei applicare quindi a una come Madame, perché proprio la giovane veneta potrebbe imporre più di un brano in questa sezione, su tutti a mio avviso “Per il tuo bene” o “Avatar – L’amore non esiste”, a meno che i colleghi non siano particolarmente “pigri” nel citare proprio quella (altrettanto suggestiva, giusto sottolinearlo) “Il bene nel male” portata in gara al Festival di Sanremo.

A me piace molto anche il duetto tra Benvegnù (che una Targa ormai la meriterebbe anche, essendo arrivato più volte secondo) e Malika Ayane per il singolo “Non esiste altro”, inserito in un nuovo Ep del Nostro dall’indubbio fascino.

Che dire poi di un brano come “Così speciale” con cui Diodato cerca di rifarsi della mancata vittoria a suo tempo di “Che vita meravigliosa”? A mio parere ha tutte le carte in regola per arrivare al cuore della maggior parte dei giurati, grazie all’intensità e al realismo poetico con cui è riuscito a rievocare le tante sensazioni provate durante i giorni tristi della pandemia.

Meritano grande attenzione anche i brani “Undici metri” di Filippo Andreani, dedicata all’iconica e tragica figura del campione Agostino Di Bartolomei, e “La misura del tempo” della talentuosissima Marlò, così come è da rimarcare il ritorno di un fuoriclasse come Ivan Segreto con la profonda “Paura e pace”, oltre ai già segnalati Giacomo Lariccia (che spicca con il brano “Ci penserà il tempo”, dove collaborano Petra Magoni e Ferruccio Spinetti) e Rossella Seno, che regala vivide emozioni con l’intensa e delicata insieme “Cantami”, eseguita in coppia con Allan Taylor.

Mi viene difficile onestamente pensare che la Targa possa essere assegnata a una canzone in precedenza in gara al Festival di Sanremo, come successo nelle ultime 5 edizione del Tenco, vale a dire per “Stiamo tutti bene” di Mirkoeilcane (2018), “Argentovivo” di Daniele Silvestri con Manuel Agnelli e Rancore (2019), “Ho amato tutto” di Tosca (2020), “Voce” di Madame (2021) e infine “Forse sei tu” di Elisa (2022).

Non mi pare infatti ci fossero quest’anno al Festival delle canzoni di forte impronta autoriale ma non si può mai sapere cosa ne penseranno al riguardo gli altri giurati.

MIGLIOR ALBUM A PROGETTO

Infine gli “Album a progetto” che, in effetti, si potrebbe valutare di sostituirli con gli album strumentali, o di ampliarne il raggio d’azione, visto che di questi ultimi ne vengono pubblicati in gran quantità (e di indubbio valore), a differenza dei pochi che invece possono ben rientrare nella categoria “a progetto”.

Per dire, in una ipotetica sezione “Album strumentali”, si potrebbe votare con naturalezza i Calibro35 ad esempio, senza forzare troppo questo nome in altre categorie.

Ma al di là di simili considerazioni, ci fossero anche 100 album in lizza nella categoria “a progetto” credo non avrei alcun dubbio ad assegnare una mia preferenza al lavoro edito dalla illuminata casa discografica “Squilibri” dedicato alla Resistenza (“Nella notte ci guidano le stelle – Canti per la Resistenza”), con all’interno artisti come Capossela, Marlene Kuntz, Yo Yo Mundi e Lalli, Ardecore, Paolo Benvegnù, ‘A67, Mariposa, Massimo Zamboni, Teatro degli Orrori e altri ancora: un capolavoro di album, senza se e senza ma, pensato e “costruito” da Marco Rovelli che ovviamente è anche presente con un brano (in collaborazione con Teho Teardo.

La traccia di apertura del disco (pubblicato da “Squilibri”) “Nella notte ci guidano le stelle – Canti per la Resistenza” è affidata a Yo Yo Mundi e Lalli.

Nota di merito anche per l’ennesimo progetto ricco di qualità e valore assemblato da Musica contro le mafie: “Music for the Change – Collective Album #22”. Saranno con ogni probabilità questi due valenti progetti a contendersi la relativa Targa.

Al termine di questa disamina, nonostante abbia già sostanzialmente chiaro a chi dare le mie preferenze in questa fase, mi riservo ancora qualche giorno per sciogliere gli ultimi dubbi, più che altro per dare un ascolto più attento a determinate proposte, visto il numero considerevole delle opere candidabili.

Non è detto in fondo che un mio voto non vada a un artista o a un titolo che qui non ho nemmeno avuto modo di citare.

La canzone d’autore resiste#4: Piero Brega con “Mannaggia a me”

Uno degli album italiani che più mi hanno sorpreso nell’anno in corso è stato sicuramente quello del cantautore romano Piero Brega, intitolato “Mannaggia a me” (edito da Squilibri).

Sorprendente non certo perchè dubitassi delle sue qualità, d’altronde il ricco curriculum parla per lui, che fu tra i promotori e maggiori esponenti di esperienze entusiasmanti tra recupero della tradizione, commistioni folk e prog e l’impronta della miglior canzone d’autore, quali il Canzoniere del Lazio in primis, poi nel progetto Carnascialia (con assoluta protagonista la musica etnica, world) e le fruttifere collaborazioni con la grande Giovanna Marini, anticamera di una esigua ma densa e ispirata carriera da solista.

Credit foto: Cristina Canali

Arriviamo dunque al punto: la sorpresa stava proprio nel fatto che in teoria non doveva dimostrare a nessuno, con questo nuovo lavoro autografo che segue di ben 12 anni il precedente “Fuori dal paradiso” (pubblicato da Il Manifesto, così come il suo album d’esordio “Come li viandanti”, di cinque anni prima), tuttavia Brega, lungi dall’essersi adagiato e per nulla arrugginito dal lungo periodo di assenza dalle scene, ha realizzato un disco veramente interessante, vivo, ricco al solito di suggestioni, ma anche molto solido e coeso da un punto di vista prettamente strumentale.

Già, se in precedenza infatti la lampadina della curiosità, approcciandosi alle sue opere soliste, si accendeva necessariamente sulle parole, ora invece procede di pari passo con la scoperta di sonorità coinvolgenti, quasi inedite, se pensiamo ai vari inserimenti delle chitarre elettriche suonate dal valente Ludovico Piccinini; valga come fulgido esempio la magistrale performance nell’evocativa “San Basilio”, che il Nostro aggiorna, ripescandolo dal debut-album, ma lo stesso si potrebbe dire della suadente “Tempo arido”, altro pezzo che albergava da tempo nella mente e nel cuore romantico e malinconico dell’autore.

Ecco che senza accorgermene, rapito dai rimandi e dalle tante impressioni piovutemi addosso sin dal primo ascolto e ora rimembrate per l’occasione, mi sono ritrovato quindi a parlare delle canzoni, la vera sostanza di questo ritorno, tanto atteso quanto appunto sorprendente.

Rimettendo in file le varie tracce, libretto alla mano, e assecondando l’istinto di premere subito play, viene naturale, pressochè automatico direi, farsi coinvolgere da ogni singolo episodio incluso nella prima facciata.

Scusate il linguaggio desueto.. ma d’altronde “Mannaggia a me” contiene dentro di se quel gusto antico dei lavori di una volta, l’immaginario tanto caro dei settanta, ottimamente però ri-attualizzato ai tempi odierni: insomma, ci siamo capiti, è un disco questo da assaporare pian piano, per non far disperdere ogni singola sfumatura e i diversi passaggi narrativi salienti.

L’apripista “Il sorriso di un pensatore” ha un affascinante andamento folkeggiante, pullula di quella consistenza perfetta che conferiamo alla canzone popolare per antonomasia e presenta un testo oltremodo interessante, in versi incisivi ed emblematici come: “E non mi importa dei quattrini/non m’importa del successo/tale difetto m’ha permesso/di evitare me stesso”.

Fondamentale l’apporto della talentuosissima Oretta Orengo, che qui suona il corno inglese (mentre altrove incanta con l’oboe e con la sua bella voce).

La successiva, caustica eppure lieve nel suo brillante incedere ritmico, “Triangoli quadrati”, affonda il suo focus narrativo su esperienze magari vissute, o comunque ben note, con la storia di un artista che vorrebbe mantenere una certa integrità al cospetto di un manager cinico e rivolto al successo con ogni mezzo. Il pezzo cambia tono e registro, e conseguentemente muta l’atmosfera generale, specie verso il finale, caratterizzato dal suono toccante della chitarra e da un cantato sofferto e consapevole della propria condizione: “Io che mi sento io/e passo giorni e mesi/per cantare un minuto/mi inchino e vi saluto/sogno il vostro perdono/alla mia normalità”.

Il livello si mantiene altissimo con l’irresistibile title track, che a livello di sonorità segue e insegue le (dis)avventure di un gruppo di senzatetto nei pressi della Stazione Termini, per un brano adattissimo anche alla forma teatro-canzone.

Vale la pena, a maggior ragione per questo brano dal risvolto dolce-amaro nel rispecchiare un particolare tessuto sociale, porre l’attenzione sulla grande cura per gli arrangiamenti, tutti a opera del già citato Ludovico Piccinini e di Luciano Francisci (impegnato nel disco anche alla fisarmonica), e mi pare doveroso citare anche Adriano Martire, col quale la canzone prese vita grazie a dei riff durante le prove.

Tutt’altro umore riscontriamo nella successiva “Strada scura”, elettrica e bluesy (sorretta dal basso di Emanuele Marzi e dalla batteria di Piero Fortezza), a contornare un pezzo che mescola un fatto preminente legato alla Città Eterna (la libreria incendiata a Centocelle) all’intimità (e universalità) delle storie di tutti i giorni: “Nella città bruciata/le storie sono chiodi/dopo la fiaccolata/due negozi vuoti….”Tu sotto le coperte/silenziosa dormi/dormi tranquilla/contro il mio viso e hai sorriso”.

La strada è così spianata per denudarsi e mettere in scena il proprio io, fragile e pieno di insicurezze, oltre che di speranze sopite, tra le pieghe della disarmante dolcezza di “Gelosia”: “Non mi guardare con quegli occhi/anche tu mon amour/anche tu mi dai giù/come fa il mondo che non s’ama/Voglio star con te/ma non dobbiamo più/farci male mai”.

Le tematiche esistenziali riaffiorano e prendono piede sin dalla successiva “Sono un vecchio marinaio senza mare”, nostalgica col suo apparato musicale acustico e così raffinato, e un testo dove, a braccetto con una ispirata prosa, fa felicemente capolino la poesia: “Adoro la metafora/mi attira il paradosso/sono schiavo della carne/solo quella intorno all’osso…. “Sono un campo di grano/una scintilla smarrita/Voglio bruciare dentro la vita/ogni giorno una fiamma nuova/che fuori piova o non piova”.

La seconda parte dell’album denota medesimi standard qualitativi, accentuando se vogliamo la componente ariosa e melodica e i tratti intimistici, resi comunque attraverso il linguaggio narrativo, che sa dare sempre nuovi impulsi dal punto di vista autoriale.

A iniziare da “In mezzo al mare”, che chiarisce sin dall’incipit questa natura ondivaga ma assolutamente autentica: “Sono un uomo/in mezzo al mare/nuoto con difficoltà/sferzo quest’acqua/amara e profonda/dove ho nascosto la verità” – canta Piero Brega con una voce roca e assai espressiva.

Prima di arrivare alla cruciale “San Basilio”, a mio avviso uno degli apici della sua poetica, ci si imbatte nella solare (a dispetto del titolo) e onirica “Tempo arido”, dove la parole catturano bene l’essenza di un dialogo interiore: “Noi disillusi al chiaro delle stelle/cercando nel mosaico sparso/che la vita ci ha dato…. Sarà un mondo riemerso/isole nell’universo/un sogno inesplorato/l’ombra di un volto amato”.

Il finale è appannaggio di due brani ancora dal forte imprinting cantautorale, dove la nostalgia si fa carburante per alimentare nuove realistiche aspettative in “Dal lago della giovinezza”, in passaggi come: “Fidando nell’effimera tua gioventù/dietro quel sorriso d’innocenza/hai continuato come volevi tu/a ridere della coscienza” e nei versi conclusivi in cui Piero Brega si riappropria dell’amato dialetto (“Diglielo luna e non me fa’ aspetta’/la forza se n’è andata/dimme che devo fa’/luna biancastra/quando che vieni qua/l’amore mio me lassa/si tu nun me vo’aiutà”).

In “Centomila pensieri fuggono” invece, mediante un ficcante racconto per immagini a mascherare una sorta di flusso di coscienza, l’io narrante (mai come in questo caso da identificare con il titolare del progetto) ci lascia in dote degli spunti di riflessione, senza la pretesa di insegnare ma con l’acutezza e il pudore di chi tanto ha raccolto e osservato, e ora può rivelare: “E io l’ho visti con questi occhi/l’ho visti affondare/mimetizzarsi nell’invisibile/là nella polvere del piazzale”… “Sentire il male che c’è nel vivere/quando non c’è più niente da fare/vedo sfuggire anche l’ultimo/anche l’ultimo andare… “Perchè alla fine prima o poi/sarà manipolato/irretito imbrogliato/spremuto e buttato”.

Parole che sembrano fare da preludio a scenari pessimistici, ma che invece sono il manifesto di un animo cosciente e profondo, e fungono da giusto compendio di tutto il significato sotteso dell’opera. Un’opera che senza remore mi viene da definire “classica”, nel senso più nobile del termine.

Non si tratta di essere o meno “di moda”, quanto di veicolare messaggi e storie, e in tal senso la missione di Piero Brega si può dire assolutamente compiuta.

La sua è una proposta senza tempo… certo, magari i cantautori emergenti si esprimono attraverso nuovi sound e linguaggi, ma mi fosse capitato un’opera prima di uno di essi dall’identica potenza espressiva di questo “Mannaggia a me”, avrei subito drizzato le antenne, poichè è assai raro ascoltare dischi così densi di contenuti e al contempo piacevoli, in cui non ci si debba sforzare per capirli.

Tuttavia, sono conscio che di artisti con le doti e la sensibilità di Piero Brega ne nascano pochi, per questo gli concediamo pure un ragionevole lasso di tempo tra un disco e l’altro, se poi gli esiti sono così fulgidi e preziosi.

La canzone d’autore resiste#3: Giulio Wilson con “Storie vere tra alberi e gatti”

Ci sono album che, grazie al cielo, sanno ancora sorprendere. Nel caso specifico si è trattato di una rivelazione, di quelle vere, lo ammetto.

Conoscevo poco l’autore, Giulio Wilson, pur avendo già ascoltato qualcosa di suo, ma di questo “Storie vere tra alberi e gatti” ho subìto forte il fascino, che emanava chiaro da tanti particolari; se vogliamo sintetizzare, direi già a partire dal suggestivo titolo ma poi addentrandosi in mezzo alle canzoni, ecco che emerge facilmente tutto il resto, che è davvero tanto!

Sì, perchè Wilson in questo lavoro (di cui ha curato musica, testi e produzione artistica, coadiuvato da Valter Sacripanti) ha messo tanta carne al fuoco, riuscendo però nell’impresa di non disperdere mai il fuoco sacro dell’ispirazione, incanalando idee e rimandi (che figurano copiosi in ogni traccia) nella maniera giusta, elevando cioè i singoli episodi al medesimo rango. Rango che a volte è quello di capolavoro, e che si mantiene su nobili sentieri per tutto il suo percorso.

Credit foto: Francesco Nerone

Sono canzoni che si fanno apprezzare non solo per i contenuti, ma anche per il modo in cui questi ci vengono trasmessi, mediante cioè testi interessanti, ricchi, che non esulano il contesto narrativo – per non dire letterario – e che arrivano altresì diretti, scevri da ogni inutile (ai fini del messaggio) ermetismo, sorretti inoltre da sonorità cangianti, calde e ariose.

La forma, se vogliamo, è quella dei cantautori classici, ma guai a considerare tale appunto un difetto, poichè lungi dall’essere anacronistiche queste storie rappresentano bene l’animo di chi le ha scritte e composte, e in tal senso non assomigliano a nessun altro esponente della scena passata e contemporanea.

Il velo di nostalgia è certo presente, a iniziare dall’indimenticabile “I ricordi” (il cui sottotitolo storia già vissuta lascia tra l’altro pochi dubbi al riguardo), ma è più una polaroid di uno stato d’animo, di un mood autentico più che uno stile codificato.
Come anticipato, il disco ha la capacità di spaziare tra più registri e conseguenti differenti atmosfere, avvalendosi, oltre che dell’innato talento come cantastorie di Wilson (osservatore attento e studioso), anche di arrangiamenti deliziosi, curati in maniera certosina, tanto da riuscire a valorizzare appieno i brani, rivestendoli con gli strumenti di volta in volta più adatti.

Da evidenziare anche l’apporto dei collaboratori, pure prestigiosi, che si sono succeduti nei brani, conferendo in taluni casi un quid in più a una resa già soddisfacente, visto che la sostanza è ben presente e radicata.

Puntando l’attenzione sulle canzoni, tornando a quella che apre la raccolta, il Nostro vuole colpire subito dritto al cuore, presentando un’opera che sembra senza tempo. Ne “I ricordi”, infatti, il connubio tra parole e musiche è straordinario, emoziona l’ascoltatore sin dalla prima battuta, con note di pianoforte che arrivano a commuovere e versi che riguardano un po’ tutti noi. Ne è un esempio emblematico l’intenso ritornello: “Tutte le storie passate, chissà dove vanno a finire/ti hanno per sempre cambiato o sei sempre tu?/Sarebbe bello incontrarsi per strada/come fossimo due sconosciuti/per poi toccarci con vecchi ricordi/e non lasciarsi mai più”. Brividi!

La successiva “Fido” (con sottotitolo storia vera del cane di Borgo San Lorenzo), ha un andamento musicale vivace, così come la penna che mette in prosa una storia di amicizia pura e di fedeltà: “Carlo è morto sotto i bombardamenti/mentre Fido è ritornato tutti i giorni/si sa che un cane non cambia i sentimenti/e per questo l’ha aspettato per altri quindici anni”.

Dopo il veloce intramezzo “L’organetto”, si arriva a uno dei momenti più alti dell’intero album, se non proprio al suo zenit, rappresentato da “Budapest” – storia vera del gelataio Francesco Tirelli – in cui il cantautore nativo di Firenze alterna sagacemente il canto e uno spoken word carico di suggestioni, per una vicenda che andava raccontata: “Questa era la storia di Francesco Tirelli, una storia vera, di un italiano migrante in Ungheria che ha salvato nel magazzino della sua gelateria molte persone, che riuscirono a sfuggire al rastrellamento e alle deportazioni nel maggio del 1944”.

Si giunge quindi, con “Vale la pena”, al momento della poesia, per mezzo della quale raccontare (come chiarisce il sottotitolo), il sentimento mai sopito della speranza: “Abbiamo tutti dei sogni/sopra una stella cadente/come vecchi bagagli/le nostre speranze/più dei difetti/quelli che non vorresti/non sempre tutto si può scegliere/e costruire è meglio che distruggere”, per chiudere con una frase saliente quanto definitiva nella sua positiva esortazione come “Per chi ha dato/e mai preso/per chi non si è arreso/per chi sente il dovere di essere migliore/c’è una speranza infinita: la vita”.

In questa canzone spensierata e profonda al tempo stesso, è rilevante il peso degli Inti Illimani, per una naturale e riuscitissima commistione della lingua italiana e spagnola.

A seguire si incontrano altri due pezzi “forti” dell’album, entrambi caratterizzati da un ritmo solare, eccitante e assolutamente coinvolgente: dalla giocosamente amara “Finale all’italiana” (una storia nostrana dove svetta la tromba di Roy Paci), alla trascinante “Disamore”, sorta di summa delle influenze folk dell’autore.

Dopo la botta energica di due episodi che non suona strano definire ballabili, le onde tornano per lo più placide e sinuose nelle restanti tracce.

“I gatti di Magritte” tratteggia scenari lunari e tocca nuovamente picchi poetici in versi struggenti come: “il cielo sembra un quadro di Magritte/dipinto sopra i tetti/apri le finestre questa sera/puoi sentire che mi manchi/vivida la luce della Luna tra le antenne dei palazzi/luccicano gli occhi, piangono anche i gatti”.

Non è da meno in quanto a trasporto e spessore autoriale la successiva “Romanzo epistolare”, che parla ancora una volta della nostra Italia, partendo da presupposti differenti rispetto alla già citata “Finale all’italiana”: non c’è traccia stavolta di ironia, nessuno spazio a sarcasmi, qui c’è tanta consapevolezza e, perchè no?, un pizzico di fierezza… nel bene e nel male, siamo il risultato di un passato che ci ha condotti a un presente, che siamo ancora in tempo a cambiare. Collaborano qui i Musici di Francesco Guccini, gente dall’indubbio pedigree e dall’elevato valore artistico, come Flaco Biondini, Antonio Marangolo e Vince Tempera.

Ci si sta avviando verso il finale ma c’è ancora posto per le emozioni, quelle che maggiormente scuotono dentro, pongono domande e ti lasciano tanto tempo vuoto per riflettere sull’assurdità che, in circostanze simili, connota il genere umano, quando cioè si raccontano drammatiche storie vere di femminicidio. Il recitato di Sandra Landi in “Ottavia” non lascia spazio a interpretazioni, e sentire parole così dure e crude, fa male e lascia interdetti.

Dopo tanto dolore, il buon Wilson ci saluta all’insegna del romanticismo estremo, dell’amore tanto puro quanto irraggiungibile, che sgorga dalle soffuse note de “L’albero sognante”; infine dopo un prologo di violoncelli, il commiato arriva con “L’amore dei nostri difetti”, autentica ode amorosa, intrisa di nostalgia (stavolta sì, senza remore e maschere) e malinconia, ma con la convinzione che non tutto sia perduto: “C’è una forza più grande di noi/che va oltre i confini del tempo/supera i muri dell’uomo/e unisce due punti distanti/è l’amore dei nostri difetti”.

Cala così il sipario su uno dei dischi italiani più belli di questo 2021, e a volte mi chiedo: cosa dovrebbe fare un artista per essere riconosciuto in tutto il suo valore? Francamente non so darmi una risposta, però penso sia giusto che ognuno segua una propria strada, senza snaturarsi mai, perchè alla fine a contare è la buona musica, ciò che riesce a regalarti al suo ascolto. Questo è un dono meraviglioso, teniamocelo stretto.

Il cantautore Alessandro Rocca con “Transiti” ha realizzato uno dei migliori album di debutto dell’anno

Mi sono approcciato al disco d’esordio del cantautore Alessandro Rocca con molta curiosità e, lo ammetto, trepidazione, visto lo spessore che ero riuscito a intravedere anche solo collegandomi ad aspetti non esclusivamente musicali, quali la suggestiva copertina (opera dell’artista Andrea Tsuna Tomassini) e la minuziosa cura del lavoro, messo a punto nell’arco di addirittura dieci anni dal giorno in cui si era posta la simbolica “prima pietra” all’agognato approdo discografico.

La copertina dell’album “Transiti” di Alessandro Rocca è una vera opera d’arte

Oltretutto, l’autore stesso ha mostrato molta sensibilità anche semplicemente nel presentare la sua opera al sottoscritto, quasi muovendosi con pudore, laddove al suo posto tanti altri artisti o gruppi sgomitano a più non posso, talvolta ricorrendo alle parole più mirabolanti, pur di far arrivare la propria musica al maggior numero possibili di destinatari.

In un mondo per certi versi assai omologato come quello musicale attuale, anche piccoli particolari possono fare la differenza e tutto sembrava, almeno per il mio modo di intendere l’ascolto, convergere al meglio nel momento in cui ho fatto partire la prima traccia di “Transiti”.

Gli arpeggi delicati di “Stipiti” riecheggiano da subito potenti e ipnotici, delineando un’atmosfera che poi finirà per permeare e invadere tutta la mia stanza, quella di un’inquietudine mai opprimente, ma piuttosto in grado di metterti davanti ai quesiti e ai dubbi più preminenti e profondi della nostra esistenza, del nostro piccolo grande mondo.

E il tarantino Rocca (di stanza a Varese) è capace di trasmetterti le angosce e i saliscendi emotivi di un intero percorso di vita fin qui compiuto portandoti, senza far rumore, quasi cullandoti, laddove sente più forte il bisogno di condividere e comunicare i suoi stati d’animo.

Per curiosità avevo chiesto all’autore la sua età, sapendolo al debutto. Il fatto che da poco abbia passato la quarantina non cambia certo il mio giudizio ma se non altro mi conferma come sia importante, per arrivare a scrivere brani carichi di tale intensità e dolore, aver vissuto e provato magari sulla propria pelle alcune situazioni anche complesse, fino a portarne degnamente ancora le cicatrici.

E per quanto sia spesso assai criptico in alcuni punti della sua poetica, con immagini vivide quanto sfuggenti e misteriose, la forza evocativa dei suoi testi, spesso e volentieri somiglianti a monologhi, flussi di coscienza, schegge di memoria, ti giunge intatta e soprattutto chiara e intelleggibile.

Vorrei fugare presto però alcuni eventuali dubbi che vi possono essere giunti leggendo le mie considerazioni: l’album trasuda sì inquietudine e a tratti disperazione, ma è tutto fuorchè depresso e agghiacciante. Anzi, l’idea che mi sono fatto è che Alessandro ormai è un uomo fortificato, pronto a scendere in pista nella battaglia che è la vita, forte com’è di mezzi espressivi, efficaci e risolutivi, che risuonano da ogni canzone qui presente. E fra le pieghe dei testi si intravedono spiragli di luce positiva, dei segni di speranza a tenere viva la sua azione e la sua arte.

L’approccio artistico, giusto per provare a delinearne un tratto, è quello del Nick Cave maturo, di un giovanile Rimbaud, del De Andrè più “terreno”. Insomma, ovunque lo si provi a inquadrare, gira che ti rigira rimane in piedi il grande valore dell’opera. 

Dicevamo di “Stipiti”, la prima traccia è un credibile biglietto da visita di quello che andremo ad ascoltare e induce all’ascolto, fungendo quasi da ritratto programmatico dell’album. Musicalmente sobrio ma ficcante al tempo stesso, si dipana lungo oltre sette minuti e mezzo, tutti scanditi da versi pregni di significato, al più illuminati.

Il bisogno e una certa ansia comunicativa sono connaturati allo spirito di Rocca che già dalla traccia successiva, la più cruda (seppur ariosa a livello musicale, forte di un arrangiamento raffinato) “Nessuno”, affila i colpi, consegnandoci un testo tagliente e molto a fuoco, dove nullo è lo spazio per una riconversione, fin dal potentissimo – a livello visivo e concettuale – incipit: “di noi chi si ricorderà/quando tutti i nostri nipoti saranno morti e decomposti?…. non sai che cosa fare per renderti immortale”.

La seconda traccia del disco: “Nessuno”, tra i brani migliori di Alessandro Rocca

Questi tratti della sua penna, se da un lato mostrano una vena letteraria autentica, dall’altra possono intralciare l’ascolto di chi è meno disposto a lasciarsi andare alle confessioni del nostro.

In ogni caso è innegabile come concorrano alla felice riuscita del progetto, al di là di testi di spessore, quelle che sono musiche altrettanto ispirate e rivelatrici, in grado di addolcire parole spesso pesanti come macigni, proprio come accade mirabilmente nella già citata “Nessuno”, i cui rintocchi di pianoforte sono magnifici e il violoncello caldo e avvolgente.

Artefice di questa tavolozza musicale che si manifesta di volta in volta ora austera e cameristica, ora vivace e con scorci di luminosità, è Luca Gambacorta che ha curato gli arrangiamenti, oltre ad aver suonato pianoforte e altri strumenti, mentre un valido apporto in studio, a completare il suono della chitarra acustica su cui poggiano le basi i vari brani, ci sono Cecilia Santo al violoncello, Marco Di Francesco al contrabbasso e Paolo Grassi al clarinetto.

Ma non bisogna assolutamente dimenticare l’importanza di Andrea Cajelli, purtroppo morto prematuramente, titolare dello studio dove sono avvenute le registrazioni, a cui Rocca riconosce in modo commosso i meriti per la realizzazione di questo progetto.

Il risultato è un connubio assolutamente vincente, alla ricerca di un equilibrio di forma e sostanza finalmente ottenuto, dopo, si presume – visto il lungo arco di tempo trascorso prima della pubblicazione – diverso lavoro di rifinitura e cesello.

In un brano come “Pesci” ad esempio ogni aspetto è reso perfettamente, laddove un testo caratterizzato da immagini vivide e affascinanti, che raggiunge il suo culmine quando viene declamato: “i pesci presi nelle reti sono più liberi dei pescatori, gli uccelli chiusi nelle gabbie non hanno smesso mai di volare ed io cammino in spazi aperti, cristallizzati in dedali di regole…” è avvolto in un apparato musicale intimo e raccolto, che lo delinea al meglio, valorizzandolo nei suoi elementi.

“Licaone”, invece, ottava traccia del lavoro, riprende le atmosfere che avevamo sentite già particolarmente tese in altri momenti topici come “Sventrati” e inizia in modo perentorio, quasi un paradigma del Nostro per farci entrare subito nel mood del pezzo: ” Si può vivere così riducendosi a sputare sangue senza faticare? Il mio posto non è qui come un licaone in mezzo al mare che non sa più cosa fare“.

Non si riscontrano ad ogni modo degli episodi meno incisivi rispetto ad altri, ogni canzone – sintetizzata nel titolo da un vocabolo ogni volta assai efficace – è un tassello di un percorso esistenziale che culmina nell’invocazione (simile a una rassicurante constatazione) presente nell’ottima title track, la profonda e magnetica “Transiti”, che chiude il tutto dispiegandosi in un affresco sonoro di otto minuti: “Io voglio vivere, non l’ho scelto, sì, ma io voglio vivere”, ripetuto tre volte, come a ribadire una forte volontà e una rinnovata determinazione ad assaporare le cose belle che un’esistenza vissuta appieno sa offrirci.

E’ questo un album davvero sui generis nel tanto frastagliato novero dei cantautori italiani, che non strizza l’occhio a nessuno, se non a quelle persone che ancora, nel 2020, intendono un disco come l’approdo a qualcosa di più che un semplice ascolto di sottofondo, qualcosa che può magari anche turbare ma in grado soprattutto di regalare emozioni e sensazioni fortissime.

Alla scoperta di “Lost in the desert”, secondo album di RosGos

Dietro il nome RosGos si cela l’artista lombardo (di Crema, per l’esattezza) Maurizio Vaiani, che fu attivo alla guida dei Jenny’s Joke negli anni zero, pubblicando tre album di rock obliquo e notturno e suonando in concerto un po’ ovunque.

La voglia di scrivere e di mettersi in gioco non si è mai spenta però in lui e appropriatosi di questo curioso nickname (da un termine dialettale delle valli lombarde) ha dapprima realizzato un album in italiano (“Canzoni nella notte”) per poi tornare ad esprimersi in inglese con questo nuovo “Lost in the desert”, uscito a metà aprile, in piena emergenza Covid-19.

Vale la pena quindi soffermarsi su quest’ ultimo lavoro, anche perché nonostante i buoni propositi, come molti altri pubblicati nel medesimo periodo, giocoforza non ha potuto usufruire della giusta promozione, visto il lockdown cui siamo stati tutti necessariamente sottoposti.

La copertina di “Lost in the desert”, il nuovo album di Maurizio Vaiani, in arte RosGos

Messi da parte gli spunti cantautorali del lavoro precedente, alcuni in ogni caso molto interessanti, bisogna ammettere che RosGos pare sentirsi maggiormente a suo agio nei panni del folk rocker sedotto dall’epica e dalla tradizione musicale americana.

Basta mettersi all’ascolto dell’iniziale “Free to weep”, per immergerci nella giusta atmosfera: il brano, con i suoi tocchi acustici e sognanti ci fa inoltrare in un metaforico viaggio che si alimenta di canzone in canzone, andando a braccetto con il mondo di riferimento dell’autore.

Siamo già così predisposti dopo un solo assaggio ad assistere quindi al viaggio interiore dello stesso Vaiani, che ci viene tradotto in undici tappe che somigliano molto a un cammino disseminato nel deserto, dove si possono incontrare le luci abbaglianti del sole ma anche le fresche ombre notturne.

Nella prima specie vanno annoverate canzoni come la paradigmatica “Standing in the light”, accogliente e ammaliante con i suoi delicati arpeggi di chitarra, la countryeggiante “To daydream” e l’ode elettrica “Mary Ann”, mentre più ispide e urticanti appaiono la dilatata “Lost”, la dimessa “Misery” e l’evocativa “Sparkle”.

Una menzione a parte merita la dolce, sussurrata “Sara”, con la voce del Nostro che sembra provenire da scenari lontani. Ma sarebbe un po’ fuorviante incasellare questo lavoro unicamente alla voce folk, perché in realtà ci sono alcuni episodi dove emerge ancora prepotente l’anima rock, certo memore della lezione a stelle e strisce. Un esempio lampante è dato da “Telephone Song”, il cui solido e vivace arrangiamento mette in luce una vocazione da band, con sezione ritmica incalzante, la chitarra che apre squarci nella nebbia e la voce filtrata ma che emerge piena e forte in superficie.

Non è più un ragazzino Maurizio Vaiani ma questa improvvisa prolificità compositiva è giusto che sia alimentata, seguendo questa indole naturale, che magari non sarà quella che finisce nei piani delle classifiche, ma di certo è in grado di arrivare al cuore dell’ascoltatore, perché appassionata e viscerale.

 

Un Antonello Venditti memorabile per il tour celebrativo del disco capolavoro”Sotto il segno dei pesci”

Antonello Venditti ieri ha fatto tappa a Marostica, tra i colli vicentini, in questo lungo e fortunato tour celebrativo per i 40 anni (ormai compiuti l’anno scorso) di uno dei suoi dischi clou: “Sotto il segno dei pesci”.

La cornice era splendida, come gran parte di quelle scelte per l’occasione di questo tour che, in origine, doveva solo fermarsi all’Arena di Verona (a proposito di memorabili location), il pubblico pure, ma soprattutto a brillare in un cielo che fortunatamente ha tenuto a bada il pericolo pioggia, sono state le canzoni del grande cantautore romano.

Di solito, come critico, mi occupo di altro tipo di musica, più tendente al rock, tra l’altro di matrice alternativa, ma chi mi conosce è al corrente della mia passione per la musica italiana, quella con la I maiuscola. E il buon Antonello rientra di diritto tra i più grandi della storia della nostra musica, nonostante lui anche ieri regalando sinceri tributi e affettuosi ricordi dei colleghi/amici scomparsi Pino Daniele e Lucio Dalla, ne parli come se appartenessero a un’altra categoria rispetto a lui. Invece il campionato in cui da ben 47 anni si cimenta il Nostro (da quando nel 1972 uscì il suo primo album “Theorius Campus” in coabitazione con l’amico Francesco De Gregori) è lo stesso dei sopra citati, grandissimi artisti italiani, e Venditti nell’arco di questa lunghissima carriera, si è posizionato spessissimo in zona Champions League, vincendo diversi scudetti: pensiamo ai successi clamorosi di pubblico degli anni ’80 o all’affermazione piena come cantautore proprio con l’album che sta riproponendo in toto in queste date: “Sotto il segno dei pesci”.

A 70 anni belli che compiuti Venditti mostra una vitalità straordinaria, una resa artistica integra ma soprattutto una passione senza eguali: lo si capisce da molti gesti, da come si muove, da come è coinvolto in ogni singola parte del concerto, da come ama raccontare aneddoti, fatti, episodi curiosi, particolari, molto personali, dalla piena sintonia che mostra con i suoi fidati storici collaboratori sul palco… lo si percepisce chiaramente soprattutto da come interpreta, vive e ci trasmette le sue canzoni.

Non si è proprio risparmiato ieri sera, suonando per quasi 3 ore e mezza (dalle 21,30 a poco meno dell’una di notte), dando giusto risalto al disco che viaggia per i 41 anni in quest’estate 2019, il già citato “Sotto il segno dei pesci” – di cui racconta genesi e significati più profondi – e per cui chiama a raccolta la folk band romana Stradaperta (che con lui incise lo storico disco all’epoca) ma spaziando, come era nel desiderio dei numerosissimi fans accorsi da gran parte del Nord Italia, in lungo e in largo nel suo repertorio, con l’esecuzione di tantissimi classici e il ripescaggio di alcune canzoni molto datate ma che evidentemente, come da lui spiegato, hanno una valenza molto importante per la sua vita e il suo percorso.

In tutto ciò, davvero, non si assiste a cadute di tono, a momenti di stanca; l’energia, la vitalità e lo spessore rimangono elevati per tutta la durata dello show, con intermezzo simpatico del cantautore, prima di “Dalla pelle al cuore”, quando chiama sul palco delle “coraggiose” donne per aver alzato la mano alla sua domanda su chi avesse perdonato un tradimento del proprio partner. Poi si è scoperto che una di loro aveva bluffato per salire sul palco e abbracciare il suo idolo ma ormai il simpatico giochino era riuscito!

Come detto, il cantautore è andato a pescare da diversi album, non tralasciando nessuna fase della carriera. Risulta quasi pleonastico commentare ogni singolo brano, perchè ognuno avrà avuto i suoi momenti più intensi durante i vari ascolti, ognuno con un proprio vissuto ed emozioni da poter liberare in un canto liberatorio o anche semplicemente facendosi trasportare dalle note e dalle parole dei brani passati in rassegna.

Personalmente sono stati tre i miei momenti clou, se escludiamo una “Giulio Cesare” che per prima mi ha fatto salire l’effetto karaoke: il primo l’ho vissuto durante una struggente “Lilly”, in grado di commuovermi sempre; poi l’emozione è salita alle stelle nelle tre canzoni da lui eseguite da solo al piano e che hanno anticipato il set de “Sotto il segno dei pesci”, vale a dire una toccante “Compagno di scuola” (prima però si era soffermato sul significato dato al termine “compagno”, specie in quei ruggenti anni ’70), una “Ci vorrebbe un amico” dedicata a Lucio Dalla, del quale ci condivide la sua gratitudine e l’affetto sincero in un momento delicato della sua esistenza e la storica “Notte prima degli esami”, ormai evergreen della musica italiana tutta; infine ecco affiorare la pelle d’oca durante una straordinaria “Che fantastica storia è la vita”, giustamente riconosciuta come una delle poche hit rimaste dagli anni 2000 in poi.

Nota di merito, dalle parti del tripudio, per la mezz’ora finale, in cui Venditti ha sciorinato brani entrati nell’immaginario di moltissima gente di varie età – com’era composto il copioso pubblico – e di fatto “generazionali”, sia che si trattasse di temi ad ampio raggio (“Benvenuti in paradiso”, “In questo mondo di ladri”), sia che fossero le sue più celebri canzoni d’amore (è mancata giusto “Ogni volta” ma in compenso ha eseguito le immortali “Amici mai”, “Alta marea” e quella “Ricordati di me” con cui ha trionfalmente chiuso il concerto) tra migliaia di smartphone alzati.

Un tempo esistevano gli accendini, forse era più romantico allora, ma in fondo cambia poco: rimane intatta la voglia di partecipazione, di prendere qualcosa per sè che possa essere ricordato, fissato nella mente e nel cuore. E ieri di momenti indimenticabili Antonello Venditti ne ha regalati davvero parecchi a me, a mia moglie e all’intero pubblico.

(di seguito la scaletta dello show)

  1. Raggio di luna
  2. I ragazzi del Tortuga
  3. Giulio Cesare
  4. Piero e Cinzia
  5. Peppino
  6. Stella
  7. Non so dirti quando
  8. Lilly
  9. Compagni di scuola
  10. Ci vorrebbe un amico
  11. Notte prima degli esami
  12. Sotto il segno dei pesci
  13. Francesco
  14. Bomba o non bomba
  15. Chen il cinese
  16. Sara
  17. Il telegiornale
  18. Giulia
  19. L’uomo falco
  20. Dimmelo tu cos’è
  21. Dalla pelle al cuore
  22. Unica
  23. Cosa avevi in mente
  24. Che fantastica storia è la vita
  25. Amici mai
  26. Alta marea
  27. Benvenuti in paradiso
  28. In questo mondo di ladri
  29. Ricordati di me

Torna il mio programma Out of Time, giunto alla quinta edizione, in onda il giovedì dalle 17 alle 19 su www.yastaradio.com

Riprende Out Of Time, il mio programma in onda su http://www.yastaradio.com, splendida realtà diretta e ideata da quel genio dell’amico Dalse, nel quale in piena libertà, ho la possibilità di passarvi amabilmente la musica che amo, ma non solo.

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Una parte importante del nostro appuntamento radiofonico – giunto alla sua quinta edizione – riguarda infatti l’approfondimento, senza andare a discapito di quella “leggerezza” nel trattare vari temi che da sempre ci contraddistingue.

Non canzoni banali, però, quelle mai, ma piuttosto legate ad attualità, così come al passato o addirittura con un orecchio rivolto al futuro, con le scommesse sui nomi più accreditati.

E poi monografie e puntate speciali legate a particolari eventi e quant’altro.

Un po’ come è successo con l’episodio zero di questa edizione, andato in onda giovedì scorso e che potrete comodamente ascoltare in replica, da pc, smartphone o tablet che sia, già domani dalle 15 alle 17. Avrete così modo di ascoltare tante canzoni che hanno composto la griglia di “papabili” per le prestigiose Targhe Tenco, da cui sono poi scaturiti i nomi dei vincitori (ormai appannaggio di tutti), e già premiati nella giusta sede sanremese, all’Ariston la settimana scorsa (evento che mi ha coinvolto direttamente, visto che ero presente in sala, in quanto giurato della rassegna, in rappresentanza tra gli altri proprio di yastaradio)!

Non solo però Niccolò Fabi, Motta, Peppe Voltarelli, Claudia Crabuzza o Di Giacomo/Elio, vincitori rispettivamente delle Targhe per il miglior disco dell’anno,miglior esordio, miglior album di interpreti, miglior album in dialetto e miglior canzone, ma anche altri che a mio avviso si erano messi in luce, al punto da ottenere fra le altre, la mia preferenza.

Importante però rispetto a tutte le edizioni precedenti, è che la messa in onda sarà nella giornata di giovedì dalle 17 alle 19 (con replica appunto il venerdì dalle 15 alle 17).

Non mi resta che augurarvi buon ascolto, con la speranza che siate numerosi e che possiate apprezzare lo sforzo e la passione nel passarvi musica di qualità e in grado di prevaricare i confini, passando dal classic rock all’indie, dai cantautori alla canzone pop, dagli italiani alla musica estera, del passato fino ai giorni nostri.

vi aspetto!!!!

Nel disco d’esordio a suo nome, Giacomo Marighelli con “Il Cerchio della vita” lancia la sfida di cantare essenzialmente d’amore, lontano da ogni clichè

A colpire l’immaginario di un ascoltatore che volesse approcciarsi alla musica di Giacomo Marighelli –  che esordirà col suo nome e cognome dopo l’esperienza pregressa sotto pseudonimo Margaret Lee – il 21 settembre, potranno essere con ogni probabilità i suoi testi davvero lirici e intensi.

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L’album, dall’evocativo titolo “Il Cerchio Della Vita” (ed. La Cantina Appena Sotto La Vita), segue di ben due anni i primi esperimenti in chiave cantautorale (almeno in senso stretto, chitarra acustica, voce e poca altra strumentazione) de “La Ragazza Invisibile”, e in pratica mostra una crescita fisiologica del Nostro, originario di Ferrara, laddove le intuizioni prima erano solo abbozzate.  Nulla a che spartire comunque con il rock acido e diretto del suo alter ego passato Margaret Lee, dove si sentivano le influenze di Giorgio Canali, col quale aveva collaborato.

In questo disco invece la poesia e la profondità delle parole viaggiano di pari passo con una sorta di consapevolezza nuova, come se Marighelli intendesse veramente mostrarsi al pubblico, non lesinando in ambizione.

La sfida di rileggere in chiave nuova, o quantomeno personale, il tema che più di tutti ispira da sempre chi si accosta allo strumento: l’Amore. Un amore che non si nasconde, e che può essere filtrato sicuramente da esperienze personali (penso a uno degli episodi più convincenti, anche a livello musicale, con atmosfere oniriche, cupe e quasi spaziali: “Mentre tu mi cerchi”), ma che ha come fine il sentimento universale, qualcosa che possa riguardare proprio tutti.

Le tracce in genere si mantengono scarne in quanto ad arrangiamenti, ma una canzone come “L’Angelo Dalle Mani Di Tela” mostra soluzioni molto particolari, a iniziare dall’inaspettata esecuzione in coppia con il piccolo Tommy, un bambino che in sincrono al cantato di Marighelli si ritrova a declamare le stesse parole, intrise di immagini metaforiche e suggestioni, mentre via via tutta la canzone si dispiega in un brano urticante e molto sentito. Si tratta della canzone nettamente più interessante del lotto, dove l’aver osato qualcosa di più ha dato i propri frutti.

Non mancano comunque brani più solari e rassicuranti, come ad esempio ne “Il dio Denaro”, che in realtà nasconde un testo a tratti ironico e diretto, e la curiosa dedica d’amore “Il grillo che fischia”. Una menzione la merita anche l’iniziale “Avrei voluto masticare il tuo cuore”, dai toni un po’ blues, un po’ floydiani., della quale è stato realizzato un videoclip.

Un disco non facile, forse sin troppo teso e lento nell’incedere, ma da apprezzare se non altro per il tentativo di proporre brani tutti concentrati sull’amore,  affrancandosi dai clichè tanto in voga nel panorama italiano.

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