Le belle collaborazioni pt.5: “Indie For Bunnies”, webzine musicale in continua crescita

Con il mondo dei blog e delle riviste digitali ho iniziato molto presto un rapporto che si è fatto via via sempre più stretto, dandomi modo oltretutto di assecondare la mia indole con grande autonomia e libertà d’azione.

Mi affascinava non poco l’idea di aprire qualcosa di mio in cui potermi esprimere e dare libero sfogo alle mie più grandi passioni, nella fattispecie la musica e lo sport; il calcio in particolare è stata a lungo la mia principale “materia” in fatto di scrittura, visto che cominciai a collaborare appena maggiorenne con il mensile “Calcio Dilettante” per passare poi tra i ranghi del mitico “Guerin Sportivo” sotto la magistrale gestione di Matteo Marani e dell’altro bel mensile “Il Nuovo Calcio”.

Insomma, se siete miei lettori avrete capito come poi ho sviluppato questo piccolo grande desiderio facendolo diventare realtà.

La musica, dicevo, almeno come argomento giornalistico, venne dopo, anche se in realtà una prima esperienza in tal senso, oltretutto entusiasmante direi perché condivisa dei carissimi amici ai tempi dell’università (Riccardo Cavrioli, Fabrizio Massegnan, Nicola Poffo, Claudio Rizzi), avvenne già nel 1998, quando debuttai a Radio Popolare Verona come co-conduttore di un programma sulla musica inglese (“L’impaziente inglese”, così battezzato giocando sul titolo di un celebre film dell’epoca e alludendo al contempo all’abitudine tipica di quelle parti di attendere sempre la next big thing in grado di rinverdire certi gloriosi fasti).

Già quello fu un modo importante di entrare a far parte di questo mondo, visto che iniziai a girare per concerti, intervistare tanti artisti e gruppi, specie quelli di passaggio nella mia città (Verona) e a conoscere tanti nomi più o meno illustri tra appassionati e addetti ai lavori.

Ebbi l’opportunità di realizzare in parte un piccolo sogno, quello di diventare giornalista musicale, e il bello appunto era che lo stavo condividendo con amici come Riccardo Cavrioli, il cui nome ricorrerà di nuovo più avanti.

La musica per me ha iniziato molto presto ad essere un affare “serio” e se è vero che in famiglia se n’è sempre ascoltata tanta, regalandomi il cosiddetto imprinting, devo dire che poi ho intrapreso una mia strada personale, sia per quanto riguarda gli ascolti, sia per come appunto ho cominciato a “viverla”, divenendo già in adolescenza un assiduo e curioso ascoltatore, consumatore di dischi e divoratore di riviste e libri musicali.

Certo, non era facile in tempi pre-Internet (soprattutto se come me si proveniva da un piccolo comune di provincia) entrare in contatto con certa editoria, tanto che il classico “romanzo nel cassetto”, guarda caso ambientato in contesti musicali, lo scrissi già durante gli anni dell’università, precisamente nel 1998 ma rimase appunto “fermo” addirittura fino al 2010 quando proprio grazie alla Rete e al fiorire di blog a tema riuscii a contattare la casa editrice (Nulla die di Massimiliano e Salvatore Giordano) che poi avrebbe messo il proprio marchio sia su quel mio primo vagito letterario – che intitolai “Verrà il tempo per noi” – sia nei libri successivi.

Alla luce di quanto detto, pertanto, ripensando ai giorni della radio mi pareva difficile cominciare a collaborare con qualcuna di queste riviste.

Sto divagando troppo lo so, fatto sta che poi sarebbero arrivate anche le riviste musicali ad accogliermi, e con esse tante altre belle occasioni ed esperienze da vivere e ricordare, ma tutto iniziò appunto dal web, dai siti musicali, dai magazine online, non solo delle vere palestre formative ma in alcuni casi soprattutto delle grandi opportunità di crescita.

Ho scritto negli anni per diversi blog e webzine, alcune delle quali non esistono più, da Indie Rock-It a Troublezine fino ad approdare a Indie For Bunnies, con cui invece il rapporto di collaborazione va avanti tuttora con mia grande soddisfazione.

L’elemento di congiuntura tra le varie esperienze è stato ancora una volta Riccardo Cavrioli che attualmente scrive pure per la storica rivista di settore Rockerilla, che mi ha sempre coinvolto ovunque andasse, ribadendo la stima e la fiducia nei miei confronti… stima e fiducia ampiamente ricambiate visto che posso dire senza timore di smentita sia una delle persone più importanti nella mia cerchia di amicizie, al punto che l’ho voluto anche come testimone di nozze, e gli affidai pure tornando a questioni musicali, la prefazione di un mio saggio sulla musica italiana degli anni novanta (“Revolution 90”).

Ricky mi aveva parlato benissimo di Indie For Bunnies, soprattutto per il modo in cui veniva gestito al di là che rispecchiasse al meglio i nostri gusti musicali e che avesse tante sezioni interessanti.

Non dubitai di queste sue sensazioni, anche se venivo da un momento in cui mi ero concentrato più su questioni prettamente lavorative, oltre che ero stato in effetti molto impegnato nella scrittura tra libri e quant’altro, ma alla fine avevo anche voglia di rimettermi a scrivere con continuità di musica, avendo possibilità di prendermi comunque i miei tempi.

Se devo fare un bilancio, beh, posso dire che la scelta di intraprendere questa collaborazione fu sicuramente giusta, tant’è che nel frattempo è divenuta quella più longeva della mia “carriera”, se consideriamo che il primo articolo su Indie For Bunnies con la mia firma risale al 21 maggio 2017 (in occasione del ventennale di “Ok Computer” magnifico album dei Radiohead) e che da allora ne ho pubblicati ben 314!

In mezzo mi sono occupato certamente di artisti e gruppi che amo, dedicando tanti pezzi ad esempio ai R.E.M., agli Oasis, agli Smashing Pumpkins o agli stessi Radiohead, tra celebrazioni, recensioni e approfondimenti, ma sono anche riuscito a intervistare nomi importanti legati alla musica italiana e ad ascoltare davvero molti dischi tra i più belli usciti negli ultimi anni… oltre ovviamente ad altri che invece non mi sono piaciuti, ma d’altronde la critica musicale serve ancora a dare giudizi il più possibile obiettivi, e a orientare un po’ il lettore spesso travolto dalle tantissime pubblicazioni di roba nuova, vero?

Proprio di recente tra l’altro Alessio Pomponi, direttore e factotum di Indie For Bunnies, ha inaugurato il nuovo sito, reso sicuramente più “bello” da vedere e più funzionale alla lettura anche da smartphone, ma mantenuto inalterato nei contenuti, nella sostanza, laddove ovviamente c’è sempre spazio e tempo per migliorare.

Ciò che colpisce in primis è la varietà delle sezioni che formano la testata: dalle news alle recensioni, con tanto di “Disco della Settimana”, alle varie rubriche (su cui spicca “Any Given Friday”, bollettino sulle uscite indie italiane con tantissima attenzione rivolta ai nomi emergenti, a cura di Manuel Apice, a sua volta promettente cantautore) che spaziano pure su libri, cinema, video, senza tralasciare una delle più seguite, vale a dire quella dei “compleanni” di album particolarmente significativi.

E poi i “Live Report”, le tanto apprezzate Top 10 brani, la “Other Side” (vale a dire la contro-recensione in casi di dischi particolarmente divisivi), e last but not least quella che è un po’ il fiore all’occhiello, vale a dire “Brand New”, dove viene letteralmente scandagliato il panorama indie italiano ed internazionale, seguendo sin dai primi passi i più fulgidi talenti in sboccio.

Insomma, ce n’è per tutti i gusti, ogni aspetto viene trattato con passione, impegno e competenza, senza nessuno che si atteggi da “professorone”

Giunto a questo punto, oltre ai già citati Alessio Pomponi e Riccardo Cavrioli, che si “smazzano” gran parte del lavoro in redazione, mi preme citare almeno tra le tante penne interessanti da tempo in organico Antonio Paolo Zucchelli, Valentina Natale, Alessandro Tartarino, Anban, Michele Brigante Sanseverino, Giuseppe Loris Ienco, Fabrizio Siliquini, Corrado Frasca e Luca Morello (l’elenco dei nomi sarebbe davvero lungo, tenendo conto anche delle “ospitate” eccellenti di Michele Corrado e Stefano Bartolotta), ai quali più di recente si sono aggiunti nuove leve di valore tra cui Dimitra Gurduiala, Gianluca Quadri e il già citato Manuel Apice, ma la rosa dei collaboratori (che spesso, come capita in ogni rivista, web e cartacea, è soggetta a cambiamenti) attualmente in organico ne comprende anche altri che si stanno inserendo nella maniera giusta, facendo ben sperare per il futuro del sito.

Ognuno ha un proprio stile, talvolta anche molto riconoscibile, ma mi piace pensare che lavoriamo come una squadra, in maniera seria e rigorosa, intenti a perseguire il medesimo obiettivo che è quello di regalare un buon servizio a tutti i lettori.

Dopo tutto questo “papirozzo” non mi resta che lasciarvi il link al sito di Indie For Bunnies, esortandovi a farci un giretto con la giusta voglia di farsi assorbire da tanta bella musica da noi proposta.

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Sterbus – Let Your Garden Sleep In

Mettersi all’ascolto delle nove tracce che compongono “Let Your Garden Sleep In”, nuova fatica targata Sterbus, assomiglia alla brezza primaverile profumata di fiori, a un sorso di coca-cola fresca nella calura estiva, alla visione placida dei colori autunnali e all’abbraccio davanti a un camino al riparo dal freddo invernale: insomma è musica per tutte le stagioni quella del combo romano, facente capo a Emanuele Sterbini e Dominique D’Avanzo.

Di pop si tratta, ma di quello fatto bene, dai rimandi nobili che, partendo dai padri putativi Beatles, attraversano tutte le epoche strizzando l’occhio al di là della Manica, come dall’altra parte dell’Oceano, in una felice commistione di elementi “classici”, veicolati però da una notevole sensibilità artistica. Il tutto è corroborato da un talento dei protagonisti riconosciuto nel confezionare melodie a presa rapida, senza tralasciare l’apparato musicale che, anzi, funge da autentico valore aggiunto sin dalla opening track “Nothing of Concern”, frizzante ed energica.

Piacciono gli arrangiamenti che rendono più ricca la struttura basica da gruppo rock, facendovi confluire i fiati, gli archi, strumenti acustici, ed è rimarchevole una produzione pulita che nulla toglie però alla naturalezza delle composizioni, le quali sgorgano spontanee dai cuori e dalle menti dei Nostri, coadiuvati da una band che sarebbe riduttivo definire solo “di supporto”.

Da amante dei R.E.M. non posso che apprezzare le citazioni indirette di album e brani di Stipe e soci: dalla vivace “Gardeners at Night” (la cui intro deve invero molto a Syd Barrett), alla soffusa “Murmurations” che chiude il disco (con un entusiasmante crescendo musicale nella parte finale) ribadendone l’oggettivo valore.

Nel mezzo ci sta tutto l’universo sonoro degli Sterbus, comprendente sia una certa matrice indie lo-fi (alla Guided By Voices) con derive alternative (nell’ondivaga “B-Flat Love”), che soprattutto l’amore per il pop inglese, riconoscibile, almeno per me, nei Blur, nei Belle and Sebastian, con punte nascoste dei Sundays, più marginali a livello di popolarità da grande pubblico, ma assolutamente imprescindibili per gli amanti del genere britpop.

Dai toni briosi ma melanconici di “Helpless Waitress”, alla carezzevole “My Friend Tim”, l’album procede mettendo in luce un acume raffinato nel tessere la materia, declinandola secondo le proprie attitudini, e trovando la chiave giusta specie in quei brani dove il connubio tra l’intersecarsi della voce maschile e femminile (riuscita particolarmente in “Stalking Heads”) e lo dispiegarsi melodico e narrativo ti appare come un incastro perfetto, degno delle migliori esperienze internazionali.

Mi riferisco agli unici titoli mancanti della mia disamina, vale a dire una “Polygone Bye” grondante armonia e bellezza e la morbida ballad “The Accidentalist”, intrisa di grazia interpretativa e rimarchevole classe musicale.

Ho tirato in ballo l’aggettivo “internazionale”, perché al di là dell’utilizzo vincente della lingua inglese, adattissima a rendere al meglio brani di quella chiara ascendenza, queste canzoni non sfigurerebbero di certo nei repertori di alcuni nomi molto in auge per certa critica, vista l’indubbia qualità della proposta e la padronanza con cui i ragazzi ci sanno veicolare le loro emozioni in musica.

Emanuele Sterbini e Dominique D’Avanzo, ovvero gli Sterbus – credit foto: Francesco Gentile

Permettermi a latere una piccola precisazione, senza con questo voler criticare il lavoro dei miei colleghi recensori… avendo scoperto il disco in lieve ritardo, non ho potuto ovviamente scriverne in presa diretta, e lo faccio ora, dopo che gli ascolti reiterati di questi mesi mi hanno permesso a maggior ragione di cogliere tutte le sfumature del disco, senza l’affanno (scusate l’estremismo!) di dover consegnare un pezzo a pochi giorni dalla sua uscita.

A me, come si sarà facilmente capito, ha convinto appieno questo lavoro e sarei felice se il gruppo ottenesse qualche riscontro, a partire dalla stampa.

Ho notato invece che, accanto a pareri anche autorevoli che ne hanno decantato le lodi e le belle intenzioni, c’è ancora qualche diffidenza nei confronti degli artisti italiani che esulano da certi ambiti in voga (il cosiddetto indie pop, per non dire della trap), volendo dedicarsi anima e corpo a qualcos’altro, assecondando la propria inclinazione.

Si tende facilmente, ho questa impressione, a sbolognare dischi come quelli degli Sterbus, non dico come poco credibili, ma a giudicarli frettolosamente come ripetitivi o derivativi; eppure, ciò che sentiamo in giro è davvero del tutto “inedito”, o il più delle volte non è un rimasticamento di cose già esistenti?

Io vorrei in qualche modo dissentire e sottolineare anzi la bontà e la genuinità dell’operazione. E’ vero, gli Sterbus non hanno inventato niente, e ci saranno artisti sicuramente più geniali in circolazione, ma hanno il grande pregio di saper scrivere belle canzoni, coinvolgenti ed emozionanti, riuscendo ad essere leggeri senza apparire superficiali, e questo credo sia la vera essenza del pop.

Ho la sensazione che se fossero inglesi o francesi sarebbero stati apprezzati di più e magari baciati da un maggiore hype. Da quel che ho percepito tuttavia i ragazzi sono davvero umili e vivono la loro passione con impegno e onestà; credo, insomma, che sarebbero semplicemente contenti di avere la possibilità di farsi conoscere e apprezzare grazie alla sola forza delle loro canzoni.

E io non posso che concludere con l’esortazione ad ascoltare “Let Your Garden Sleep In” scevri da pregiudizi, dedicando tempo e attenzione a questo progetto: sono sicuro che non ve ne pentirete!

Consigli musicali di fine 2020: segnatevi i nomi di Agnese Valle, Clemente e Leda!

Mai come nel 2020 mi rendo conto di essermi speso così tanto a favore delle (tante) produzioni italiane – il più delle volte indipendenti – che hanno affollato un mercato discografico asfittico se guardiamo probabilmente alle mere vendite o ai freddi numeri, ma particolarmente vivace e meritevole di attenzione se fissiamo lo sguardo un po’ più nel profondo.

Qualità ne ho trovata a iosa, infatti, in diversi lavori cui ho voluto dedicare quello spazio che solitamente nei grossi media è loro inviso; i nomi sono tanti e facilmente rintracciabili qui dentro, anticipando comunque che sarà mia premura prossimamente fare un piccolo resoconto de “il meglio di”, riferito in particolare proprio alle pubblicazioni tricolori uscite in questo accidentato 2020.

In extremis però mi ritrovo, quasi “obbligato” moralmente, a segnalare altri lavori che non possono passare inosservati, visto il valore che si portano dietro con sè e che necessita di essere scoperto ai più, per lo meno a chi mi legge abitualmente.

Si tratta di tre lavori diversissimi fra loro ma accomunati dalla grande ricchezza di suggestioni e di qualità.

Il primo si chiama “I confini del giorno” e porta la firma del cantautore Antonio Clemente, artista a tutto tondo, essendo anche poeta e pittore. Nel suo nuovo album, uscito pochi mesi fa, ha voluto condensare in 15 tracce (comprensive di una intro e di una ghost-track come conclusione del disco) ogni sfaccettatura del tema amoroso, il tutto rifuggendo luoghi comuni ma al contrario scandagliando con buon gusto, raffinatezza poetica e note coinvolgenti quello che è il sentimento più discusso (e cantato) per eccellenza.

L’afflato musicale è quello di una deliziosa canzone d’autore, abile a destreggiarsi in territori jazzati, molto nelle corde del Nostro; così come la maestria nel tratteggiare dolci affreschi nelle situazioni della vita di tutti i giorni, sembra essere il suo vero registro narrativo. Colpiscono in particolare la profondità del brano “Lontani”, l’ammaliante “I confini del mondo” in cui assistiamo a un mirabile duetto in cui le voci si rincorrono e si cercano lungo una strada comune; oppure un brano come “Canzone a metà”, dal testo particolarmente interessante. Voci pulite, suoni ricercati ma che arrivano dritti al cuore dell’ascoltatore, sono gli ingredienti principali di questo lavoro che trova a mio avviso i suoi vertici creativi in “L’ora magica”, in una “Amaranto” dagli ottimi spunti cantautorali (conditi oltretutto da riuscite venature folk) e in primis quella “Cuore” che appare come il manifesto più credibile dell’intero album.

Veniamo poi a un nome che ai vari appassionati di musica d’autore, quella con la M maiuscola, deve necessariamente suonare familiare, perché ad ogni prova è in grado di dimostrare tutto il suo talento: sto parlando di Agnese Valle, giovane artista romana che si sta costruendo un solido percorso, senza tentare in alcun modo le comode scorciatoie. E’ già nota perché può vantare collaborazioni preziose con i grandi della nostra canzone, perché ha già ottenuto importanti riconoscimenti nelle rassegne dedicate alla musica d’autore e, soprattutto, grazie al fatto che le sue variegate qualità (di autrice e polistrumentista) le riesce a declinare meravigliosamente tra i solchi di canzoni che lasciano spesso e volentieri il segno.

Non è da meno questo nuovo “Ristrutturazioni”, le cui soluzioni musicali ne rivelano il buon eclettismo, oltre che un invidiabile equilibrio formale e sostanziale tra pop, rock e moderno cantautorato. Non ultimo, e non è assolutamente un aspetto da poco, Agnese dalla sua ha quel tocco di originalità che non la fa assomigliare a nessuna delle (tante) brave colleghe emerse nell’ultimo decennio.

Ogni ascoltatore saprà poi di volta in volta, a seconda della propria indole, far pendere la bilancia sugli episodi più sbarazzini e diretti (come la vibrante “Cortocircuito”, la vivace “Cactus” o la più robusta “Fame d’aria”), oppure verso il lato più intimista e raccolto, ben esemplificato dalla toccante (e dai tratti poetici) “Come la punta del mio dito”, in duetto con il cantautore Pino Marino (a proposito di album interessanti, non perdete il suo recentissimo “Tilt”, che ne ha segnato un ritorno assolutamente fragoroso sulle scene), l’intensa e struggente “L’ultima lettera dell’astronauta” – per inciso la mia preferita del disco – o la delicata conclusione con “Scivola”. Ma sono pregevoli anche quegli episodi più particolari, in grado di staccarsi stilisticamente dai due “rami” principali dell’opera: un esempio è dato dall’ironica e ficcante “Il tonno”, un altro dall’orecchiabile “Ventilazione”, meravigliosa cover del brano di Ivano Fossati che ti cattura con la sua melodia e un arrangiamento coloratissimo. Menzione speciale va anche a “La terra sbatte”, in cui partecipa la Piccola Orchestra di Tor Pignattara, ispirata ai tragici fatti del Bataclan, con cui la Valle si è aggiudicata il Premio della critica Amnesty International sez. emergenti di Voci per la libertà. Insomma, l’avrete capito, non ci sono punti deboli in questo lavoro.

Agnese Valle è un’artista per la quale è difficile fare previsioni, nel senso che ha così tante potenzialità che non si capisce fin dove potrà arrivare… ma non sembra azzardato ipotizzarla tra i futuri nomi di punta dell’intero panorama musicale italiano.

Chiudiamo questo insolito articolo, chiamiamolo “riparativo” nei confronti di alcuni album che meritavano da prima una mia citazione, con un disco a cui debbo chiedere umilmente “scusa”, perché si tratta di un autentico gioiello – forse sin “troppo” nascosto – che avrebbe meritato ben altri consensi.

Il gruppo si chiama Leda, è composto da quattro forti personalità musicali già attive da tanti anni nella scena rock underground ma che unendo le forze e facendole confluire in un progetto comune, ha saputo raccogliere delle ottime idee mettendole al servizio di un grande album. “Memorie dal futuro” è uscito addirittura più di un anno fa, nel 2019, ma è sempre attualissimo. Sarà che possiede un magnetismo, un sound così avvolgente e onirico e dei testi così immaginifici e a tratti visionari, fatto sta che sembra “senza tempo”, con quell’attitudine così smaccatamente nineties ben inserita però in un contesto odierno, con tutte le contraddizioni e il senso di smarrimento che ne conseguono. I marchigiani Leda sono guidati dalla magnifica voce di Serena Abrami, autrice anche dei testi, artista che ha già alle spalle un curriculum di tutto rispetto ed escursioni felici in ambiti apparentemente antitetici (ma che finiscono per certificarne la grande varietà di talenti) e caratterizzati dalle chitarre ora ruggenti e taglienti, ora psichedeliche e ariose di Enrico Vitali, cui si sposa egregiamente una sezione ritmica poderosa ed eclettica, col basso sinuoso di Mirko Fermani e la batteria cangiante di Fabrizio Baioni.

L’inizio è stratosferico, con la trascinante e obliqua “Ho continuato”, capace di far convivere mondi in apparenza diversi come quelli di Marlene Kuntz e Scisma, seguito dalla più dilatata e fluida “Distanze”, cui si collegano, in un saliscendi emotivo fortissimo, episodi sempre centrati ma allo stesso tempo in grado di farti vagare con la mente, fino a stranirti, ipnotizzarti e rapirti, con il loro mix di atmosfere e rimandi. Dall’eterea “Pulviscolo” all’ondivaga “Nuovi simboli” e la sua coda rumorosa; da una “Tu esisti” che dall’incidere cadenzato si fa poi ritmica alla malinconica “Deriva”; dall’intensa “Icaro” fino a concludere con “Il sentiero” che può avvalersi della collaborazione del grande Marino Severini dei Gang, a creare un ponte con certa canzone impegnata, viene facile credere che a questi ragazzi non manchi proprio niente per salire di gradino e appostarsi fianco a fianco con le più grandi esperienze in merito di rock italiano.

Un esordio folgorante, che infatti sin dal primo ascolto mi ha lasciato senza fiato, e mi ha dato speranze che anche al giorno d’oggi si possa fare del rock in modo credibile, assolutamente autentico e ispirato.

Alla scoperta dei Morisco, all’esordio con l’interessante album “L’ultimo colpo”

Sono un duo musicale di Bolzano, marito e moglie, nella vita si dedicano per lavoro ad altro ma da diversi anni coltivano un’insana passione per il mondo delle sette note.

Si chiamano Morisco, nome curioso rubato a uno dei personaggi più eccentrici della saga di Tex Willer.

E non sarà questo l’unico riferimento tangibile al mondo dei fumetti da parte di Piergiorgio Veralli e Francesca Russo, a iniziare dalla bella e coloratissima copertina che porta la prestigiosa firma di Stefano Biglia, tra i disegnatori della già citata serie di “Tex”.

Non conoscevo la storia dei Morisco, d’altronde hanno deciso di muoversi sottotraccia in tutti questi anni, giungendo all’album d’esordio dopo una rodata gavetta fatta di concerti anche in piccoli contesti, corroborata da vagonate di ascolti, e con un orecchio aperto anche verso le nuove tendenze, pur intessendo appieno il proprio sound in un immaginario ben più lontano, con molte reminiscenze sixties.

Oltre a una naturale e fisiologica crescita artistica, con scelte ponderate che hanno portato finalmente alla pubblicazione di un primo vero album, a contribuire (purtroppo o per fortuna) alla lunga attesa prima di debuttare su larga scala, è stato il fatto che i Nostri abbiano optato per la totale indipendenza, sia a livello di pubblicazione che di produzione, con tutte le situazioni annesse e connesse che sottendono all’uscita di un’opera.

Devo ammettere che con molto garbo ma pure con un particolare ed efficace espediente sono riusciti a instillare in me la giusta dose di curiosità, ed ecco che quindi nelle ultime settimane mi sono ritrovato spesse volte a inserire nel lettore cd della mia autoradio (sì, mi piace ancora ascoltare i dischi in macchina nei miei numerosi spostamenti quotidiani) questo lavoro, di certo artigianale, ma assolutamente ben fatto, piacevole e intrigante.

“L’ultimo colpo” denota sin dal titolo un certo amore per il cinema, ipotesi che diventa realtà anche solo mettendosi a scovare i tanti riferimenti che risiedono sopratutto nei testi (quasi tutti appannaggio esclusivo di Veralli, pur coadiuvata in fase di scrittura dalla Russo), ma anche in alcune sonorità, per l’atmosfera che sono in grado sovente di ricreare.

Se i testi sono molto suggestivi, ficcanti e con un gusto spiccato per l’espediente narrativo – anche delle piccole cose di tutti i giorni, passando in scioltezza tra realtà macro e altre micro – lo stesso si può dire per le musiche, il più delle volte ariose, magnetiche, piene, e sorrette da melodie riconoscibili, placide, finanche in alcuni casi irresistibili.

Siamo dalle parti del pop d’autore, volendo estremizzare al massimo e provando così a catalogare l’apparato musicale del duo, qui coadiuvato da fidati e validi musicisti locali come Gregor Marini (al pari del leader Piergiorgio Veralli, un ottimo polistrumentista) e il batterista Alex Refatti, coinvolti a tal punto da far assomigliare i Morisco a una vera band a più elementi, come ci risulta essere stati all’altezza dei loro primi vagiti musicali.

Hanno collaborato inoltre al disco in studio altri musicisti quotati, a rendere ancora più varia la tavolozza dei colori presenti nelle canzoni.

Già, le canzoni… sono ben quindici, non certo poche per un esordio, ma basti pensare che pur essendo formalmente “L’ultimo colpo” un vero debut-album, lo stesso assume anche le parvenze di un greatest hits degli stessi Morisco, visto che al suo interno sono comprese tracce che già vantano una propria storia, proposte più volte davanti a un sempre caloroso pubblico.

Il pop, quello nobile debitore dei mitici Fab4 (con Paul McCartney nume tutelare ben in evidenza), scorre nelle vene aperte di brani trascinanti come “Don Diego” che apre le danze nel vero senso della parola.

L’andamento musicale ha un ché di cinematografico, il cantato di Francesca è sicuro e affascinante: l’eroe evocato, più che Zorro, è un “antieroe” nelle intenzioni dell’autore. E’ un inizio convincente, col botto, che senza andare a tirare in ballo ancora una volta nomi altisonanti, potrebbe essere stato partorito da una band nostrana come i Delta V, che scopriremo nel corso dei vari episodi avere più cose in comune con i Nostri.

Uno degli episodi più accattivanti, soprattutto a livello musicale, è senz’altro la terza traccia “Stilla di te”, che parte ciondolante e raffinata e pian piano giunge a plasmare un’atmosfera cangiante che può ricordare alcuni momenti dei Beach Boys.

Il video di “Eva canta”, tra le canzoni più interessanti dell’intero album

Echi di felici intuizioni narrative si trovano disseminati un po’ ovunque, tra le pieghe della pregevole “Mefisto” (altro dichiarato omaggio alla letteratura fumettistica), caratterizzata da un ottimo arrangiamento e da una performance vocale tra le migliori qui presenti, o nell’orecchiabile “Eva canta”, forte di un delizioso appeal swingante. In questo caso è sin troppo facile, nel ben riuscito gioco di parole del titolo, andare con la mente a Diabolik.

E che dire della “baustelliana” dedica a Marlon Brando nella quasi eponima “Marlon B”?

Ci sono anche canzoni più intimiste, in cui il/la protagonista si guarda dentro, chiedendo delle risposte: alludo all’evocativa ballad “Un giorno difficile” o alla sinuosa “Il temporale”, entrambe che certificano la devozione del gruppo per una grande, anzi la più Grande, della canzone italiana come Mina.

L’interpretazione della Russo in questi due egregi episodi si fa sublime e raggiunge il suo apice (azzardando stavolta sì paragoni ingombranti con la celebre “Tigre di Cremona”) con una delle cover inserite nel disco, vale a dire la splendida “Spaziale” di Edda. Proprio il cantautore milanese più volte ha ammesso che gli piacerebbe che Mina cantasse uno dei suoi brani, magari appunto “Spaziale”, che già di per sè è in grado di toccare vette emozionali altissime.

Molto gradevoli e particolari pure le altre due cover scelte, a denotare un interesse trasversale per la musica: “Amore al terzo piano” potrebbe ricordare istantaneamente i romani Otto Ohm, invece in questo caso si tratta dell’omonimo brano dell’amico Bobbi Gualtirolo, che i più ricorderanno per la sua esperienza con Lino e i Mistoterital; “Cineprese” invece appartiene ai bresciani Intercity.

E’ davvero quest’ultimo un ottimo ripescaggio: ho sempre apprezzato molto i richiami al britpop cari ai fratelli Fabio e Michele Campetti, titolari del progetto; nella versione dei Morisco ad aumentare è il tasso di eleganza, per una canzone che esplicitamente richiama alla mente atmosfere da film (e pertanto ben attinenti al concept del disco).

E’ un album che ha pochi punti deboli, si fa ascoltare che è un piacere ed è in grado di farti evadere con le sue storie ma anche di farti pensare, tutto però all’insegna di una leggerezza che non va assolutamente scambiata per banalità o vacuità.

Il rammarico è che prodotti ben congegnati come questo, davvero concepiti per amore della musica e “vissuti” dai propri autori – che attraverso i quindici brani hanno riversato tanto del loro mondo di riferimento culturale e non solo – possano venire sommersi dalla grande mole di album pubblicati in modo copioso da più latitudini.

Certo, mi vien da dire che, se i Morisco fossero usciti qualche stagione fa, diciamo negli anni novanta, sarebbero potuti emergere in quel calderone di gruppi di area pop (nelle sue più varie sfaccettature) che seppe ben figurare: penso all’esperienza di gente come i già citati Delta V, ma ci aggiungo anche i mai dimenticati Soon, i pregevoli Madreblu e quei Dirotta su Cuba, che magari partivano da altre premesse ma che me li fanno loro accostare a tratti per il cantato elegante e raffinato di Francesca Russo, in parte simile a quello della brava Simona Bencini.

Poco male, siamo nel 2020 inoltrato e sono comunque felice che in un universo musicale dominato da trap, musica elettronica e tanti “fenomeni” (il più delle volte effimeri) usciti dai talent show, ci sia la possibilità di ascoltare anche una band onesta e ricca di qualità come i Morisco.

Recensione di “Dell’Amore animale, dell’Amore dell’uomo, dell’Amore di un Dio” di Lorenzo Del Pero, un cantautore che ha tanto da dire.

Uno dei dischi che più ho ascoltato e apprezzato negli ultimi mesi è quello del cantautore pistoiese Lorenzo Del Pero, invero pubblicato nel 2019 ma che, visto che la buona musica non ha ovviamente scadenza, si sta facendo notare in questo funestato anno bisestile.

Concept e Foto Album: Lorenzo Gori

Il titolo in sè è già parecchio d’impatto ed evocativo: “Dell’Amore animale, dell’Amore dell’uomo, dell’Amore di un Dio”, e va a riallacciare alcuni legami con quel mondo dei cantautori più “nobili”.

Proprio così, Del Pero non sembra temere paragoni azzardati, pur denotando una spiccata personalità artistica pienamente ormai a fuoco, dopo i primi vagiti in lingua inglese, memore anche di importanti trascorsi all’estero.

E’ un lavoro ambizioso questo suo nuovo disco, ma per nulla “arrogante”, mi si passi il termine, ove è possibile non solo limitarsi ad ascoltare quelle che sono in ogni caso piacevolissime canzoni, ottimamente scritte, suonate e interpretate, ma anche tuffarcisi dentro, venendo a conoscenza del mondo interiore dell’autore.

L’amore è il dichiarato trait d’union tra i vari pezzi, un sentimento che non viene celato ma che al contrario emerge prepotente in ogni sua sfaccettatura. Potrebbe sembrare il “classico” disco da cantautore disilluso, in grado di sintetizzare le amarezze personali, finanche universali, ma non è affatto così, in quanto la materia amorosa, di per sè vasta e onnicomprensiva, è declinata anche nei suoi aspetti meno carnali e “umani” appunto, con incursioni felici (perchè, anticipando ciò che poi più nel dettaglio commenterò, si tratta di alcuni fra gli episodi più sentiti e riusciti) in quell’area spirituale che alberga in ognuno di noi.

A conti fatti quindi ci si sente in qualche modo purificati, come alla fine de “Il sentiero”, canzone in quattro parti (compresa di Intro, Primo Intermezzo e Secondo Intermezzo) che delinea il mood dell’intera opera.

Che sia un album più maturo e “lavorato” (o meglio, ragionato) dell’omonimo debutto (risalente al 2013) lo si evince in fretta; ci basta, dopo il già citato frammento iniziale de “Il sentiero”, una canzone come “Romina”, che riesce nel miracolo di far incontrare due mostri sacri come Fabrizio De Andrè (nell’atmosfera e nel linguaggio) e Jeff Buckley (negli splendidi acuti). E’ già questa a mio avviso la vetta dell’ album, il suo apice narrativo e formale. Ma le sorprese non sono certo finite, e Del Pero con la successiva, catartica “Verrà la pioggia” rinnova un’attenzione particolare alle parole e alla pura bellezza musicale.

E’ questa la canzone forse più adatta a rappresentare le molteplici anime di un lavoro consistente, forte di un lirismo come non si sentiva da tempo in ambito cantautorale, così vicino come detto ai classici del genere. Tuttavia a spiccare, innegabilmente, sono le indubbie doti vocali del Nostro, che innalzano il livello di intensità, conferendo spesso e volentieri quel giusto quid di pathos e struggimento.

Continuando fra i solchi del disco, ci si imbatte nella melodica e apparentemente placida (perchè, di fatto, anche in questo caso, le parole sono più simili a lame affilate che a dolci carezze) “Misera cosa”, caratterizzata da uno stupendo arrangiamento acustico. Apro una parentesi per lodare anche i musicisti che intervengono nell’album, laddove il suo titolare si è occupato di cantare e di suonare chitarre, bouzouki greco e balalaika: si tratta di Francesco Pirolo (basso), Alessandro Pieri (batteria) e Matteo Gaggioli, che oltre a suonare tastiere, basso e fisarmonica, ha curato con lo stesso Del Pero la produzione artistica e gli arrangiamenti (ed ha pure registrato e mixato il lavoro); assai rilevante anche il contributo di Alice Chiari e Irene Betti che, rispettivamente con violoncello e arpa, hanno impreziosito e rifinito il tutto.

“A Silvia” fa da spartiacque ed è probabilmente il brano col più alto tasso di densità della raccolta, in cui il cantautore delinea un ritratto toccante della protagonista che, pur alle prese con una vita che non le ha risparmiato dolore e atrocità, non intende arrendersi. E’ un testo davvero importante e significativo quello che ne contorna la storia, in versi come “Silvia chiede una tregua con respiro affannoso/all’amore che il tempo oramai ha corroso/E poi giura che questa sarà l’ultima volta/che si dona ad un uomo fino ad esser travolta/Silvia grida l’amore/la sua bocca smarrita”. Anche l’interpretazione, in cui Lorenzo può ricordare nel grido finale un certo Chris Cornell, non può lasciare certo indifferenti.

Foto di Fiorenzo Giovannelli

Le tematiche rimangono cupe, con punte di disperazione, nella successiva “Dell’amore animale”, che vanta però un arioso ritornello che ricorda un po’ Don Backy, specie per la pulizia e l’efficacia interpretativa.

Sono canzoni in effetti d’altri tempi quelle contenute in questo convincente “Dell’Amore animale, dell’Amore dell’uomo, dell’Amore di un Dio”, e a maggior ragione lo sono quelle cui spetta l’onere di condurci alla fine del tortuoso viaggio. Dapprima a stupire è la splendida “Ave Maria”, un’invocazione profonda, una preghiera laica (oppure no?), in cui i toni spirituali emergono e ne connotano l’epica melodia. Il lirismo, presente a onor del vero in ogni singolo episodio, viene accentuato oltremodo nel brano “Sposa per denaro”, dove fa capolino una sospirosa fisarmonica.

Non sono da meno l’intensa “Sorella solitudine”, in cui Del Pero si cimenta in un azzardato cambio di tono, passando brillantemente da un ficcante spoken word iniziale a un ritornello aperto in cui far letteralmente volare le corde vocali, e la dimessa, ancorchè ragguardevole, “Preghiera blasfema”, il cui accostamento verbale induce all’inganno. L’ossimoro è infatti fuorviante, basta perdersi in versi come “A te lode e gloria di una lunga memoria/Proteggi mia madre, conduci mio padre/Nella sofferenza ch’io trovi l’essenza/di un Amore antico/Dio ti benedico”, per rilevarne il grande spessore. La musica oltretutto è calorosamente solenne, e ben si confà a simili parole.

Che altro ancora da aggiungere? Dopo aver ascoltato un disco di tale levatura, dove le (belle) intuizioni del disco d’esordio sembrano portate a compimento, e aggiungendovi la recente collaborazione con Marco Olivotto, sfociata nel suggestivo singolo “Vola il corvo”, abbiamo chiara l’immagine di un artista consapevole del suo talento e delle proprie qualità.

Un cantautore in movimento, che ha tanto da dire e che riesce, grazie a un songwriting ispirato e a una voce potente ed educatissima, a trasmettere nel migliore dei modi il suo mondo interiore, ciò che più sente nel profondo.

 

Alla scoperta di “Lost in the desert”, secondo album di RosGos

Dietro il nome RosGos si cela l’artista lombardo (di Crema, per l’esattezza) Maurizio Vaiani, che fu attivo alla guida dei Jenny’s Joke negli anni zero, pubblicando tre album di rock obliquo e notturno e suonando in concerto un po’ ovunque.

La voglia di scrivere e di mettersi in gioco non si è mai spenta però in lui e appropriatosi di questo curioso nickname (da un termine dialettale delle valli lombarde) ha dapprima realizzato un album in italiano (“Canzoni nella notte”) per poi tornare ad esprimersi in inglese con questo nuovo “Lost in the desert”, uscito a metà aprile, in piena emergenza Covid-19.

Vale la pena quindi soffermarsi su quest’ ultimo lavoro, anche perché nonostante i buoni propositi, come molti altri pubblicati nel medesimo periodo, giocoforza non ha potuto usufruire della giusta promozione, visto il lockdown cui siamo stati tutti necessariamente sottoposti.

La copertina di “Lost in the desert”, il nuovo album di Maurizio Vaiani, in arte RosGos

Messi da parte gli spunti cantautorali del lavoro precedente, alcuni in ogni caso molto interessanti, bisogna ammettere che RosGos pare sentirsi maggiormente a suo agio nei panni del folk rocker sedotto dall’epica e dalla tradizione musicale americana.

Basta mettersi all’ascolto dell’iniziale “Free to weep”, per immergerci nella giusta atmosfera: il brano, con i suoi tocchi acustici e sognanti ci fa inoltrare in un metaforico viaggio che si alimenta di canzone in canzone, andando a braccetto con il mondo di riferimento dell’autore.

Siamo già così predisposti dopo un solo assaggio ad assistere quindi al viaggio interiore dello stesso Vaiani, che ci viene tradotto in undici tappe che somigliano molto a un cammino disseminato nel deserto, dove si possono incontrare le luci abbaglianti del sole ma anche le fresche ombre notturne.

Nella prima specie vanno annoverate canzoni come la paradigmatica “Standing in the light”, accogliente e ammaliante con i suoi delicati arpeggi di chitarra, la countryeggiante “To daydream” e l’ode elettrica “Mary Ann”, mentre più ispide e urticanti appaiono la dilatata “Lost”, la dimessa “Misery” e l’evocativa “Sparkle”.

Una menzione a parte merita la dolce, sussurrata “Sara”, con la voce del Nostro che sembra provenire da scenari lontani. Ma sarebbe un po’ fuorviante incasellare questo lavoro unicamente alla voce folk, perché in realtà ci sono alcuni episodi dove emerge ancora prepotente l’anima rock, certo memore della lezione a stelle e strisce. Un esempio lampante è dato da “Telephone Song”, il cui solido e vivace arrangiamento mette in luce una vocazione da band, con sezione ritmica incalzante, la chitarra che apre squarci nella nebbia e la voce filtrata ma che emerge piena e forte in superficie.

Non è più un ragazzino Maurizio Vaiani ma questa improvvisa prolificità compositiva è giusto che sia alimentata, seguendo questa indole naturale, che magari non sarà quella che finisce nei piani delle classifiche, ma di certo è in grado di arrivare al cuore dell’ascoltatore, perché appassionata e viscerale.

 

Recensione di “Walking on Tomorrow”, album autoprodotto di Antonio Valentino, in arte Anthony.

Il milanese Antonio Valentino è quello che si può definire un “self made man” senza timore di rimandi a personaggi politici che “si sono fatti da soli”.

No, signori, qui si parla esclusivamente di musica, quella che Anthony (questo il suo nome d’arte) dimostra di saper “masticare”, rimaneggiare, modellare, in un contesto però dove a farla da padrone sono principalmente le atmosfere, l’impeto, le musiche che indubbiamente rimandano a un hard rock di matrice “ottantiana” in grado di ricrearne a dovere l’immaginario. Che gli anni ’80 siano stati il miglior decennio per questo genere musicale non è una scienza esatta ma nemmeno un fatto più di tanto opinabile, direbbero alcuni appassionati.

In “Walking on Tomorrow”, disco interamente autoprodotto, pensato, scritto, suonato e arrangiato da Valentino presso il suo studio, in parte è possibile infatti riassaporare il fragoroso sound di quell’epoca. Senza scomodare paragoni con le band più rappresentative del genere (nomi tra l’altro facilmente identificabili a un primo ascolto) è chiaro che nelle 11 canzoni inedite di Anthony si senta forte il richiamo di certo metal, soprattutto di matrice anglosassone, ma tra le influenze del Nostro si annoverano anche il rock ‘n roll più viscerale e ovviamente il blues, padre putativo di tutto il rock a venire.

Il disco alterna momenti di grande intensità e altri più morbidi, che però definire “rilassati” parrebbe fuori luogo. In generale è l’urgenza comunicativa a emergere, le melodie dirette, il pugno in faccia preso ad esempio dal brano di apertura “Another Way”, uno dei più convincenti del lotto, dove l’alchimia tra le voci di Scream Chiummo e Antonella Poerio è perfetta per quella che è la “cavalcata rock” per antonomasia della raccolta. La cantante è protagonista anche in uno dei pezzi che ho definito poc’anzi “morbidi”, vale a dire “American Dream”, in cui il protagonista del viaggio (tutto “Walking on Tomorrow” è vissuto come un viaggio, non solo interiore) è ancora diviso tra buone vibrazioni ed entusiasmo.

Predominano le chitarre distorte e il cantato minaccioso in “Sweet Hell” e “Night After Night”, che stridono con la dolcezza e l’epicità di “My Light Found in The Rain”, ma appunto le canzoni si susseguono a mo’ di racconto e vanno di pari passo con le emozioni del protagonista, in una sorta di Odissea rock, fino all’evocativa “Scathing Time” che chiude infine il cerchio.

Un disco dove le soluzioni sonore magari non sono elaborate, né tanto meno innovative, ma comunque incalzanti, ficcanti ed esemplificative della sincerità di fondo, della passione e della visceralità che muove l’animo dell’autore.

Certo, difficile che faccia proseliti in un ambiente che sia diverso da quello poco avvezzo al rock confinante col metal, ma non ci sentiamo di definire questo aspetto come un limite.

Piuttosto, è risaputo che ad essere limitati siano gli spazi e i canali dedicati a chi propone brani propri, specie se cantati in inglese, e nel caso di Anthony è evidente come la dimensione live sia quella che più si addice per una migliore resa delle canzoni.

 

Recensione di “Pastis”, ultimo disco degli Arturocontromano per Libellula Records. Dove la patchanka diventa d’autore.

Con il loro ultimo lavoro: “Pastis”, uscito tre mesi fa, nel marzo 2016, i torinesi Arturocontromano sembrano aver raggiunto lo zenit del loro percorso artistico e musicale, nato al tramonto del vecchio millennio all’insegna del puro “do it yourself”.

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Nulla a che spartire comunque col punk, quanto meno a livello di sonorità, laddove sin dagli esordi hanno sempre saputo e voluto giocare con i generi, spesso legati a matrici folk, reggae o ska e regalare atmosfere al più festose, quasi danzerecce.

Uscito per l’interessante label Libellula Records, il disco mette in mostra una evidente maturità compositiva raggiunta dai ragazzi e soprattutto un’eterogeneità dei suoni e degli umori.

Siamo più dalle parti di una patchanka sonora, che a volte viene indicata quando non si sa come etichettare quei prodotti “strani” ma allo stesso tempo intriganti, obliqui, ondivaghi.

Canzoni che sanno accogliere, confortare, regalarci finanche sorrisi e rilassare, in episodi come la scoppiettante “E la sera”, alla Fred Buscaglione, molto swingante nell’incedere e trascinante nell’insieme, la successiva “Fermo a Carnevale”, con atmosfere un po’ retrò, da film francese o la sognante “Il cassetto”, che invece è in grado di riecheggiare una band a loro vicina anche geograficamente come i Mau Mau.

Ma sono tutti degni di nota gli otto brani proposti, che mirano in qualche modo ad avvicinare nell’immaginario il guru Vinicio Capossela, nella sua capacità di manipolare nel migliore dei modi così tanti strumenti e riconsegnarci un disco che, fosse uscito nei ’90, in pieno boom di combat folk (anche se a onor del vero, l’ambito politico ‘è tenuto praticamente fuori dal songwriting di Valerio Amendola e soci), avrebbe certamente fatto bella mostra di sè tra le classifiche di vendita.

Gli Azimut esordiscono con “Resistenza”, un Ep di 5 brani di rock in italiano

Gli Azimut sono un giovane gruppo della provincia di Novara che ha debuttato con “Resistenza”, un Ep di 5 brani all’insegna di un rock diretto e debitore di una certa scuola anglosassone emersa tra i 90 e i 2000.  Esordiscono con l’etichetta New Model Label, non nuova a prodotti simili ma aperta a tante contaminazioni di generi.

In questo caso però è facile in brani come quello che intitola l’intero lavoro o in “Piccola Pausa” riconoscere atmosfere care ad esempio ai Franz Ferdinand, anche se i Nostri sembrano gradire meno certe “frivolezze” pop invece insite nel sound di Kapranos e soci.

Sono infatti canzoni tirate quelle di Enrico Ferreri (voce e chitarre), Michele Palmieri (Chitarre), Edoardo Sacchi (basso) e Cristian Ferrini (batteria), a partire dall’iniziale “Sala d’attesa”,  canzone malinconica e vagamente struggente sulla fine di una storia, dall’arrangiamento molto “wave anni ’80”.

“Abbraccio vago” è forse il brano più orecchiabile e intrigante del lotto (non a caso scelto come singolo di lancio), nell’ambito di un’opera comunque omogenea a livello di atmosfere e immagini evocate.

Il songwriting è interessante ma allo stesso tempo ancora migliorabile e acerbo, e se si vuole provare a emergere nel marasma delle uscite indipendenti legate agli stilemi di un rock in salsa tricolore, è forse il caso di tentare una carta più personale. Il tempo è chiaramente dalla loro parte.

Musica indie italiana: le mie recensioni per Troublezine – novembre 2015

Condivido con gli amici del blog le mie recensioni novembrine per il sito di Troublezine

Anche questo mese ho ascoltato lavori interessanti provenienti dall’indie italiano

http://www.troublezine.it/columns/20100/recensioni-in-pillole-novembre-2015

La Belle Epoque “Il Mare di Dirac” (autoprodotto)

Sorprende questo giovane ensemble alle prese col loro primo lavoro autoprodotto, che sin dal suggestivo titolo rimanda a qualcosa di scientifico, che però riassume in sé tanta filosofia, e un senso nuovo da dare alle cose. Loro scelgono la via del rock più diretto e sanguigno, in otto tracce al più viscerali e intense, dedite al recupero di un solido rock nostrano di ispirazione nineties (che ci sia un ritorno a un certo stile che visto con gli occhi di oggi appare quasi retrò ma che in sé nasconde ancora tanti spunti interesse e presa nel pubblico, pensiamo anche ad altri casi illustri nel mondo indie?). Lo fanno associando il tutto a testi decisamente incisivi e scevri di retorica e rime giuste e furbette. Spicca non solo il singolo Cracovia, disilluso e accorato grido pieno di reverberi, ma anche l’iniziale Icaro, più melodica e spassionata. Prevalgono le linee melodiche ficcanti, irrobustite da chitarre in primo piano rispetto a momenti più malinconici ma non privi di messaggi speranzosi, come in Nuovo Mondo. Anche il cantato è sicuro e maturo, e tutto pare giocare a favore di una possibile ascesa nel firmamento rock nostrano, in alternativa a prodotti più ostici e meno accessibili a un primo ascolto

Teo Manzo “Le Piromani” (Libellula/Audioglobe)
Il disco d’esordio di Teo Manzo, pubblicato da Libellula Records, è il tipico esempio in cui tra un’idea particolare e ben congegnata e realizzazione della stessa non vi è scarto o approssimazione. Già attivo in vari progetti che si muovevano tra nobile cantautorato (come l’insolito duo acustico “I Becchini” con cui si muoveva per la Penisola omaggiando De Andrè) e tentativi indie d’autore con il seminale gruppo La Linea del Pane, Manzo approda in versione solista con piglio sicuro, proponendo addirittura un concept album, di quelli veri, ben costruiti, dove il susseguirsi delle tracce va di pari passo con la narrazione di una storia. In questo caso, molto curiosa e particolare, di un astronomo che vorrà dimostrare come l’opinione dilagante che la luna stia per cadere sia infondata. Si ritroverà perduto, dopo la morte improvvisa dell’amata, e a un certo punto si unirà ai cospiratori di una rivoluzione, che non attendevano altro che un infausto avvenimento potesse dare il là a qualcosa di grande. Poi, forse alienato dalla pazzia, ritroverà la sua amante sotto altre forme, quelle delle Piromani, creature femminili che accendono le stelle. Un disco coraggioso, che si dipana in sedici tracce, divise in due capitoli (formati da otto tracce ciascuno), cui le musiche seguono l’andamento degli eventi e degli stati d’animo del protagonista, divenendo di volta in volta più cupe, minacciose, ariose o urticanti. Potremmo definirlo un post-rock d’autore, di sicuro non si può dire che il cantautore non abbia voluto battere strade differenti rispetto all’odierno, affollatissimo, movimento dei nuovi cantautori degli anni dieci.

Gian Luca Mondo “Malamore” (Controrecords)
C’ ha preso gusto Gian Luca Mondo a fare dischi “compiuti”, seppur sempre interpretati e assimilati secondo un’attitudine molto personale. Aleggia uno spirito punk in queste registrazioni, assolutamente non della serie “tre accordi e via”, ma più che altro per inclinazione e atteggiamento, per indole e fugacità. Canzoni che vien quasi difficile definire tali, sospese come sono tra plumbee e fumose atmosfere e che mutano in talking ora brilli, quasi a ricordare il Capossela “d’antan”, ora piuttosto bizzarri e maldestri. Certo, sentire nel brano trainante, che cita il titolo dell’album, un verso come: “E mi sono innamorato di una donna che ha la pelle di freddo vetro, e il suo piscio fa  40 gradi, e la lecco, la lecco davanti e di dietro….la lalalalaMalamore sta con te”, mi urta e non poco, ma forse sono io a essere sin troppo sensibile!
Il suono invece è prettamente blues, come da cifra stilistica del Nostro, già a suo agio in questi panni col precedente “Petali”, di appena un anno più vecchio, e di contro più vicino a certe sperimentazioni e all’utilizzo di arrangiamenti più vari e pieni. Qui invece a prevalere sono suoni scarni: una chitarra elettrica blues che lambisce quelle parole quasi sconnesse fino a comprenderle appieno, un piano che di certo non conferisce quell’aurea di romanticismo ma che piuttosto contribuisce a rendere acido il nostro panorama e la voce di Mondo che a volte parla, altre biascica, senza mai aggredire con forza, utilizzando registri poetici quali il sarcasmo e la pungente ironia. Paradossalmente è proprio Anticanzone quella che di fatto è la traccia più immediata e suonata del lotto.

Alfonso Moscato “La malcarne” (autoprodotto)
Il cantautore siciliano, già leader degli interessanti Cordepazze, con questo disco solista ha voluto condurre l’ascoltatore nelle penombre di una società sempre più atta a discriminare e a soggiogare l’individuo più debole e respinto. Sulle orme nobili di Fabrizio De Andrè, cui il nostro non solo è debitore da un punto di vista dell’ispirazione e della proposta teorico-musicale, ma è stato associato esplicitamente, avendo vinto col suo gruppo primigenio il Premio intitolato al grande autore genovese nel 2007, Moscato infatti dedica ogni pezzo a persone che dalla propria vita non hanno più nulla da chiedere. Le Pulle, scelto come singolo apripista di lancio, parla delle ragazze nigeriane ingannate e rivendute come schiave costrette a prostituirsi. E’ un “anti-singolo”, non possedendo certo quell’appeal radiofonico, visto appunto il tema ostico e una interpretazione lenta, quasi funerea. Un pensionato abbandonato è invece protagonista della toccante I Paesi svuotati, mentre il tema della violenza come forma ultima di comunicazione emerge in tutta la sua disperazione in brani come Amore criminale e soprattutto Verrà l’arcangelo Michele, un vero pugno nello stomaco, parole taglienti che fanno male. I ritmi si distendono nella vivace Malaluna, musicalmente efficace con il cantato in dialetto e i suoni folk cari alla terra siciliana, tentativo riuscito anche nella più riflessiva e malinconica UCarzaratu, corredato da un video contenente un bel collage di immagini della Sicilia del noto fotografo Alex Astegiano. Un lavoro certamente profondo per tematiche e sfondo sociale ma anche monocorde (o monotono, se vogliamo conferire l’accezione negativa) a livello di sonorità, tutte acustiche e claustrofobiche.