Le belle collaborazioni pt.5: “Indie For Bunnies”, webzine musicale in continua crescita

Con il mondo dei blog e delle riviste digitali ho iniziato molto presto un rapporto che si è fatto via via sempre più stretto, dandomi modo oltretutto di assecondare la mia indole con grande autonomia e libertà d’azione.

Mi affascinava non poco l’idea di aprire qualcosa di mio in cui potermi esprimere e dare libero sfogo alle mie più grandi passioni, nella fattispecie la musica e lo sport; il calcio in particolare è stata a lungo la mia principale “materia” in fatto di scrittura, visto che cominciai a collaborare appena maggiorenne con il mensile “Calcio Dilettante” per passare poi tra i ranghi del mitico “Guerin Sportivo” sotto la magistrale gestione di Matteo Marani e dell’altro bel mensile “Il Nuovo Calcio”.

Insomma, se siete miei lettori avrete capito come poi ho sviluppato questo piccolo grande desiderio facendolo diventare realtà.

La musica, dicevo, almeno come argomento giornalistico, venne dopo, anche se in realtà una prima esperienza in tal senso, oltretutto entusiasmante direi perché condivisa dei carissimi amici ai tempi dell’università (Riccardo Cavrioli, Fabrizio Massegnan, Nicola Poffo, Claudio Rizzi), avvenne già nel 1998, quando debuttai a Radio Popolare Verona come co-conduttore di un programma sulla musica inglese (“L’impaziente inglese”, così battezzato giocando sul titolo di un celebre film dell’epoca e alludendo al contempo all’abitudine tipica di quelle parti di attendere sempre la next big thing in grado di rinverdire certi gloriosi fasti).

Già quello fu un modo importante di entrare a far parte di questo mondo, visto che iniziai a girare per concerti, intervistare tanti artisti e gruppi, specie quelli di passaggio nella mia città (Verona) e a conoscere tanti nomi più o meno illustri tra appassionati e addetti ai lavori.

Ebbi l’opportunità di realizzare in parte un piccolo sogno, quello di diventare giornalista musicale, e il bello appunto era che lo stavo condividendo con amici come Riccardo Cavrioli, il cui nome ricorrerà di nuovo più avanti.

La musica per me ha iniziato molto presto ad essere un affare “serio” e se è vero che in famiglia se n’è sempre ascoltata tanta, regalandomi il cosiddetto imprinting, devo dire che poi ho intrapreso una mia strada personale, sia per quanto riguarda gli ascolti, sia per come appunto ho cominciato a “viverla”, divenendo già in adolescenza un assiduo e curioso ascoltatore, consumatore di dischi e divoratore di riviste e libri musicali.

Certo, non era facile in tempi pre-Internet (soprattutto se come me si proveniva da un piccolo comune di provincia) entrare in contatto con certa editoria, tanto che il classico “romanzo nel cassetto”, guarda caso ambientato in contesti musicali, lo scrissi già durante gli anni dell’università, precisamente nel 1998 ma rimase appunto “fermo” addirittura fino al 2010 quando proprio grazie alla Rete e al fiorire di blog a tema riuscii a contattare la casa editrice (Nulla die di Massimiliano e Salvatore Giordano) che poi avrebbe messo il proprio marchio sia su quel mio primo vagito letterario – che intitolai “Verrà il tempo per noi” – sia nei libri successivi.

Alla luce di quanto detto, pertanto, ripensando ai giorni della radio mi pareva difficile cominciare a collaborare con qualcuna di queste riviste.

Sto divagando troppo lo so, fatto sta che poi sarebbero arrivate anche le riviste musicali ad accogliermi, e con esse tante altre belle occasioni ed esperienze da vivere e ricordare, ma tutto iniziò appunto dal web, dai siti musicali, dai magazine online, non solo delle vere palestre formative ma in alcuni casi soprattutto delle grandi opportunità di crescita.

Ho scritto negli anni per diversi blog e webzine, alcune delle quali non esistono più, da Indie Rock-It a Troublezine fino ad approdare a Indie For Bunnies, con cui invece il rapporto di collaborazione va avanti tuttora con mia grande soddisfazione.

L’elemento di congiuntura tra le varie esperienze è stato ancora una volta Riccardo Cavrioli che attualmente scrive pure per la storica rivista di settore Rockerilla, che mi ha sempre coinvolto ovunque andasse, ribadendo la stima e la fiducia nei miei confronti… stima e fiducia ampiamente ricambiate visto che posso dire senza timore di smentita sia una delle persone più importanti nella mia cerchia di amicizie, al punto che l’ho voluto anche come testimone di nozze, e gli affidai pure tornando a questioni musicali, la prefazione di un mio saggio sulla musica italiana degli anni novanta (“Revolution 90”).

Ricky mi aveva parlato benissimo di Indie For Bunnies, soprattutto per il modo in cui veniva gestito al di là che rispecchiasse al meglio i nostri gusti musicali e che avesse tante sezioni interessanti.

Non dubitai di queste sue sensazioni, anche se venivo da un momento in cui mi ero concentrato più su questioni prettamente lavorative, oltre che ero stato in effetti molto impegnato nella scrittura tra libri e quant’altro, ma alla fine avevo anche voglia di rimettermi a scrivere con continuità di musica, avendo possibilità di prendermi comunque i miei tempi.

Se devo fare un bilancio, beh, posso dire che la scelta di intraprendere questa collaborazione fu sicuramente giusta, tant’è che nel frattempo è divenuta quella più longeva della mia “carriera”, se consideriamo che il primo articolo su Indie For Bunnies con la mia firma risale al 21 maggio 2017 (in occasione del ventennale di “Ok Computer” magnifico album dei Radiohead) e che da allora ne ho pubblicati ben 314!

In mezzo mi sono occupato certamente di artisti e gruppi che amo, dedicando tanti pezzi ad esempio ai R.E.M., agli Oasis, agli Smashing Pumpkins o agli stessi Radiohead, tra celebrazioni, recensioni e approfondimenti, ma sono anche riuscito a intervistare nomi importanti legati alla musica italiana e ad ascoltare davvero molti dischi tra i più belli usciti negli ultimi anni… oltre ovviamente ad altri che invece non mi sono piaciuti, ma d’altronde la critica musicale serve ancora a dare giudizi il più possibile obiettivi, e a orientare un po’ il lettore spesso travolto dalle tantissime pubblicazioni di roba nuova, vero?

Proprio di recente tra l’altro Alessio Pomponi, direttore e factotum di Indie For Bunnies, ha inaugurato il nuovo sito, reso sicuramente più “bello” da vedere e più funzionale alla lettura anche da smartphone, ma mantenuto inalterato nei contenuti, nella sostanza, laddove ovviamente c’è sempre spazio e tempo per migliorare.

Ciò che colpisce in primis è la varietà delle sezioni che formano la testata: dalle news alle recensioni, con tanto di “Disco della Settimana”, alle varie rubriche (su cui spicca “Any Given Friday”, bollettino sulle uscite indie italiane con tantissima attenzione rivolta ai nomi emergenti, a cura di Manuel Apice, a sua volta promettente cantautore) che spaziano pure su libri, cinema, video, senza tralasciare una delle più seguite, vale a dire quella dei “compleanni” di album particolarmente significativi.

E poi i “Live Report”, le tanto apprezzate Top 10 brani, la “Other Side” (vale a dire la contro-recensione in casi di dischi particolarmente divisivi), e last but not least quella che è un po’ il fiore all’occhiello, vale a dire “Brand New”, dove viene letteralmente scandagliato il panorama indie italiano ed internazionale, seguendo sin dai primi passi i più fulgidi talenti in sboccio.

Insomma, ce n’è per tutti i gusti, ogni aspetto viene trattato con passione, impegno e competenza, senza nessuno che si atteggi da “professorone”

Giunto a questo punto, oltre ai già citati Alessio Pomponi e Riccardo Cavrioli, che si “smazzano” gran parte del lavoro in redazione, mi preme citare almeno tra le tante penne interessanti da tempo in organico Antonio Paolo Zucchelli, Valentina Natale, Alessandro Tartarino, Anban, Michele Brigante Sanseverino, Giuseppe Loris Ienco, Fabrizio Siliquini, Corrado Frasca e Luca Morello (l’elenco dei nomi sarebbe davvero lungo, tenendo conto anche delle “ospitate” eccellenti di Michele Corrado e Stefano Bartolotta), ai quali più di recente si sono aggiunti nuove leve di valore tra cui Dimitra Gurduiala, Gianluca Quadri e il già citato Manuel Apice, ma la rosa dei collaboratori (che spesso, come capita in ogni rivista, web e cartacea, è soggetta a cambiamenti) attualmente in organico ne comprende anche altri che si stanno inserendo nella maniera giusta, facendo ben sperare per il futuro del sito.

Ognuno ha un proprio stile, talvolta anche molto riconoscibile, ma mi piace pensare che lavoriamo come una squadra, in maniera seria e rigorosa, intenti a perseguire il medesimo obiettivo che è quello di regalare un buon servizio a tutti i lettori.

Dopo tutto questo “papirozzo” non mi resta che lasciarvi il link al sito di Indie For Bunnies, esortandovi a farci un giretto con la giusta voglia di farsi assorbire da tanta bella musica da noi proposta.

Sterbus – Let Your Garden Sleep In

Mettersi all’ascolto delle nove tracce che compongono “Let Your Garden Sleep In”, nuova fatica targata Sterbus, assomiglia alla brezza primaverile profumata di fiori, a un sorso di coca-cola fresca nella calura estiva, alla visione placida dei colori autunnali e all’abbraccio davanti a un camino al riparo dal freddo invernale: insomma è musica per tutte le stagioni quella del combo romano, facente capo a Emanuele Sterbini e Dominique D’Avanzo.

Di pop si tratta, ma di quello fatto bene, dai rimandi nobili che, partendo dai padri putativi Beatles, attraversano tutte le epoche strizzando l’occhio al di là della Manica, come dall’altra parte dell’Oceano, in una felice commistione di elementi “classici”, veicolati però da una notevole sensibilità artistica. Il tutto è corroborato da un talento dei protagonisti riconosciuto nel confezionare melodie a presa rapida, senza tralasciare l’apparato musicale che, anzi, funge da autentico valore aggiunto sin dalla opening track “Nothing of Concern”, frizzante ed energica.

Piacciono gli arrangiamenti che rendono più ricca la struttura basica da gruppo rock, facendovi confluire i fiati, gli archi, strumenti acustici, ed è rimarchevole una produzione pulita che nulla toglie però alla naturalezza delle composizioni, le quali sgorgano spontanee dai cuori e dalle menti dei Nostri, coadiuvati da una band che sarebbe riduttivo definire solo “di supporto”.

Da amante dei R.E.M. non posso che apprezzare le citazioni indirette di album e brani di Stipe e soci: dalla vivace “Gardeners at Night” (la cui intro deve invero molto a Syd Barrett), alla soffusa “Murmurations” che chiude il disco (con un entusiasmante crescendo musicale nella parte finale) ribadendone l’oggettivo valore.

Nel mezzo ci sta tutto l’universo sonoro degli Sterbus, comprendente sia una certa matrice indie lo-fi (alla Guided By Voices) con derive alternative (nell’ondivaga “B-Flat Love”), che soprattutto l’amore per il pop inglese, riconoscibile, almeno per me, nei Blur, nei Belle and Sebastian, con punte nascoste dei Sundays, più marginali a livello di popolarità da grande pubblico, ma assolutamente imprescindibili per gli amanti del genere britpop.

Dai toni briosi ma melanconici di “Helpless Waitress”, alla carezzevole “My Friend Tim”, l’album procede mettendo in luce un acume raffinato nel tessere la materia, declinandola secondo le proprie attitudini, e trovando la chiave giusta specie in quei brani dove il connubio tra l’intersecarsi della voce maschile e femminile (riuscita particolarmente in “Stalking Heads”) e lo dispiegarsi melodico e narrativo ti appare come un incastro perfetto, degno delle migliori esperienze internazionali.

Mi riferisco agli unici titoli mancanti della mia disamina, vale a dire una “Polygone Bye” grondante armonia e bellezza e la morbida ballad “The Accidentalist”, intrisa di grazia interpretativa e rimarchevole classe musicale.

Ho tirato in ballo l’aggettivo “internazionale”, perché al di là dell’utilizzo vincente della lingua inglese, adattissima a rendere al meglio brani di quella chiara ascendenza, queste canzoni non sfigurerebbero di certo nei repertori di alcuni nomi molto in auge per certa critica, vista l’indubbia qualità della proposta e la padronanza con cui i ragazzi ci sanno veicolare le loro emozioni in musica.

Emanuele Sterbini e Dominique D’Avanzo, ovvero gli Sterbus – credit foto: Francesco Gentile

Permettermi a latere una piccola precisazione, senza con questo voler criticare il lavoro dei miei colleghi recensori… avendo scoperto il disco in lieve ritardo, non ho potuto ovviamente scriverne in presa diretta, e lo faccio ora, dopo che gli ascolti reiterati di questi mesi mi hanno permesso a maggior ragione di cogliere tutte le sfumature del disco, senza l’affanno (scusate l’estremismo!) di dover consegnare un pezzo a pochi giorni dalla sua uscita.

A me, come si sarà facilmente capito, ha convinto appieno questo lavoro e sarei felice se il gruppo ottenesse qualche riscontro, a partire dalla stampa.

Ho notato invece che, accanto a pareri anche autorevoli che ne hanno decantato le lodi e le belle intenzioni, c’è ancora qualche diffidenza nei confronti degli artisti italiani che esulano da certi ambiti in voga (il cosiddetto indie pop, per non dire della trap), volendo dedicarsi anima e corpo a qualcos’altro, assecondando la propria inclinazione.

Si tende facilmente, ho questa impressione, a sbolognare dischi come quelli degli Sterbus, non dico come poco credibili, ma a giudicarli frettolosamente come ripetitivi o derivativi; eppure, ciò che sentiamo in giro è davvero del tutto “inedito”, o il più delle volte non è un rimasticamento di cose già esistenti?

Io vorrei in qualche modo dissentire e sottolineare anzi la bontà e la genuinità dell’operazione. E’ vero, gli Sterbus non hanno inventato niente, e ci saranno artisti sicuramente più geniali in circolazione, ma hanno il grande pregio di saper scrivere belle canzoni, coinvolgenti ed emozionanti, riuscendo ad essere leggeri senza apparire superficiali, e questo credo sia la vera essenza del pop.

Ho la sensazione che se fossero inglesi o francesi sarebbero stati apprezzati di più e magari baciati da un maggiore hype. Da quel che ho percepito tuttavia i ragazzi sono davvero umili e vivono la loro passione con impegno e onestà; credo, insomma, che sarebbero semplicemente contenti di avere la possibilità di farsi conoscere e apprezzare grazie alla sola forza delle loro canzoni.

E io non posso che concludere con l’esortazione ad ascoltare “Let Your Garden Sleep In” scevri da pregiudizi, dedicando tempo e attenzione a questo progetto: sono sicuro che non ve ne pentirete!

“Quiet Is the New Loud” dei Kings of Convenience compie 20 anni

Sul sito di Indie For Bunnies, bellissima realtà dedicata alla musica per cui collaboro da anni, curo spesso delle retrospettive su album particolarmente significativi, in occasioni di compleanni speciali, a 10, 15, 20 anni e anche molti di più dalle relative uscite discografiche.

In merito a “Quiet Is the New Loud” dei norvegesi Kings of Convenience, c’è un po’ di discrepanza sulla data di pubblicazione, ma di certo fu in questo periodo nell’ormai lontano 2001.

Questo piccolo gioiello, divenuto un classico, compie quindi vent’anni, una bella cifra tonda per cui vale la pena “festeggiare” come si deve.

Esattamente vent’anni fa veniva pubblicato “Quiet Is the New Loud” (il cui titolo era già un manifesto programmatico) dei Kings of Convenience, facendo convergere su di sè grandi attenzioni e dando il là – al pari di una manciata di altri dischi – a un nuovo filone musicale, ribattezzato “New Acoustic Movement”.

Che poi questo fenomeno si sia rivelato effimero, poco conta, se non per una corretta storicizzazione degli eventi, ma di certo all’epoca, complici un’inclinazione comune di queste band o artisti, un’attitudine musicale che guardava a modelli consolidati e l’entusiasmo di certa stampa che spinse molto sull’acceleratore creando il giusto hype, sembrava davvero fosse in atto una rivoluzione musicale silenziosa, in chiave prettamente acustica.

In primis, però, a far emergere questo duo norvegese composto da Erlend Øye ed Eirik Glambek Bøe, entrambi nati a Bergen nel 1975, fu la qualità indubbia della loro proposta e quella freschezza compositiva che ti permeava sin dal primo ascolto di queste dodici canzoni, molte delle quali provenienti o riadattate dal loro omonimo primo album uscito l’anno prima e venduto solo in Nord America (USA e Canada).

Loro acustici lo erano davvero, non solo per necessità – per quanto ironizzando i due dissero che iniziarono a comporre in tale maniera poichè durante un primo soggiorno londinese avevano con sè solo le chitarre acustiche – o perchè volessero soppiantare definitivamente i rimasugli rock del decennio precedente (a quello avevano già contribuito album come “Kid A” dei Radiohead), ma proprio in quanto sintonizzati entrambi su un mood dichiaratamente debitore di atmosfere sixties, o al limite innervate di una classicità raffinata ma tutt’altro che epica da riscontrarsi in certi cantautori degli anni settanta, vedi alla voce Nick Drake.

Il tutto però declinato in chiave personale, per cui sarebbe alquanto ingeneroso relegarli a una sorta di Simon & Garfunkel degli anni zero (come puntualmente fece certa critica specializzata), nonostante il confronto potesse sorgere in maniera spontanea ascoltando – chessò? – la scintillante “Toxic Girl”, la solare “Failure” o la sinuosa “The Girl From Back Then”.

Al limite però lo storico duo folk statunitense può essere considerato solo una delle fonti di ispirazioni dei KOC, perchè la personalità di questi ultimi riusciva a far capolino pian piano, forte di una poetica gentile, così come lo sono i magnifici arpeggi iniziali di “Winning a Battle, Losing the War”, posta sapientemente in apertura di scaletta e adattissima a fungere da efficace biglietto da visita.

Deliziose chitarre e voci limpide – cui si aggiungono di volta in volta inserti pianistici o giri di violoncello – confezionano così un album che, a risentirlo ora che sono passati vent’anni – suona ancora benissimo e trasmette intatto quel piacevole senso di pace e serenità, come una brezza leggera che ti accarezza il viso mentre ti concedi una passeggiata, rischiarato dai primi tenui raggi di sole che anticipano la primavera.

Kings of Convenience – Quiet Is the New Loud

Data di pubblicazione: 6 marzo 2001
Tracce: 12
Lunghezza: 45:05
Etichetta: Astralwerks
Produttore: Ken Nelson, Kings of Convenience

Tracklist
1. Winning a Battle, Losing the War
2. Toxic Girl
3. Singing Softly to Me
4. I Don’t Know What I Can Save You From
5. Failure
6. The Weight of My Words
7. The Girl from Back Then
8. Leaning against the Wall
9. Little Kids
10. Summer on the Westhill


Alla scoperta dei Morisco, all’esordio con l’interessante album “L’ultimo colpo”

Sono un duo musicale di Bolzano, marito e moglie, nella vita si dedicano per lavoro ad altro ma da diversi anni coltivano un’insana passione per il mondo delle sette note.

Si chiamano Morisco, nome curioso rubato a uno dei personaggi più eccentrici della saga di Tex Willer.

E non sarà questo l’unico riferimento tangibile al mondo dei fumetti da parte di Piergiorgio Veralli e Francesca Russo, a iniziare dalla bella e coloratissima copertina che porta la prestigiosa firma di Stefano Biglia, tra i disegnatori della già citata serie di “Tex”.

Non conoscevo la storia dei Morisco, d’altronde hanno deciso di muoversi sottotraccia in tutti questi anni, giungendo all’album d’esordio dopo una rodata gavetta fatta di concerti anche in piccoli contesti, corroborata da vagonate di ascolti, e con un orecchio aperto anche verso le nuove tendenze, pur intessendo appieno il proprio sound in un immaginario ben più lontano, con molte reminiscenze sixties.

Oltre a una naturale e fisiologica crescita artistica, con scelte ponderate che hanno portato finalmente alla pubblicazione di un primo vero album, a contribuire (purtroppo o per fortuna) alla lunga attesa prima di debuttare su larga scala, è stato il fatto che i Nostri abbiano optato per la totale indipendenza, sia a livello di pubblicazione che di produzione, con tutte le situazioni annesse e connesse che sottendono all’uscita di un’opera.

Devo ammettere che con molto garbo ma pure con un particolare ed efficace espediente sono riusciti a instillare in me la giusta dose di curiosità, ed ecco che quindi nelle ultime settimane mi sono ritrovato spesse volte a inserire nel lettore cd della mia autoradio (sì, mi piace ancora ascoltare i dischi in macchina nei miei numerosi spostamenti quotidiani) questo lavoro, di certo artigianale, ma assolutamente ben fatto, piacevole e intrigante.

“L’ultimo colpo” denota sin dal titolo un certo amore per il cinema, ipotesi che diventa realtà anche solo mettendosi a scovare i tanti riferimenti che risiedono sopratutto nei testi (quasi tutti appannaggio esclusivo di Veralli, pur coadiuvata in fase di scrittura dalla Russo), ma anche in alcune sonorità, per l’atmosfera che sono in grado sovente di ricreare.

Se i testi sono molto suggestivi, ficcanti e con un gusto spiccato per l’espediente narrativo – anche delle piccole cose di tutti i giorni, passando in scioltezza tra realtà macro e altre micro – lo stesso si può dire per le musiche, il più delle volte ariose, magnetiche, piene, e sorrette da melodie riconoscibili, placide, finanche in alcuni casi irresistibili.

Siamo dalle parti del pop d’autore, volendo estremizzare al massimo e provando così a catalogare l’apparato musicale del duo, qui coadiuvato da fidati e validi musicisti locali come Gregor Marini (al pari del leader Piergiorgio Veralli, un ottimo polistrumentista) e il batterista Alex Refatti, coinvolti a tal punto da far assomigliare i Morisco a una vera band a più elementi, come ci risulta essere stati all’altezza dei loro primi vagiti musicali.

Hanno collaborato inoltre al disco in studio altri musicisti quotati, a rendere ancora più varia la tavolozza dei colori presenti nelle canzoni.

Già, le canzoni… sono ben quindici, non certo poche per un esordio, ma basti pensare che pur essendo formalmente “L’ultimo colpo” un vero debut-album, lo stesso assume anche le parvenze di un greatest hits degli stessi Morisco, visto che al suo interno sono comprese tracce che già vantano una propria storia, proposte più volte davanti a un sempre caloroso pubblico.

Il pop, quello nobile debitore dei mitici Fab4 (con Paul McCartney nume tutelare ben in evidenza), scorre nelle vene aperte di brani trascinanti come “Don Diego” che apre le danze nel vero senso della parola.

L’andamento musicale ha un ché di cinematografico, il cantato di Francesca è sicuro e affascinante: l’eroe evocato, più che Zorro, è un “antieroe” nelle intenzioni dell’autore. E’ un inizio convincente, col botto, che senza andare a tirare in ballo ancora una volta nomi altisonanti, potrebbe essere stato partorito da una band nostrana come i Delta V, che scopriremo nel corso dei vari episodi avere più cose in comune con i Nostri.

Uno degli episodi più accattivanti, soprattutto a livello musicale, è senz’altro la terza traccia “Stilla di te”, che parte ciondolante e raffinata e pian piano giunge a plasmare un’atmosfera cangiante che può ricordare alcuni momenti dei Beach Boys.

Il video di “Eva canta”, tra le canzoni più interessanti dell’intero album

Echi di felici intuizioni narrative si trovano disseminati un po’ ovunque, tra le pieghe della pregevole “Mefisto” (altro dichiarato omaggio alla letteratura fumettistica), caratterizzata da un ottimo arrangiamento e da una performance vocale tra le migliori qui presenti, o nell’orecchiabile “Eva canta”, forte di un delizioso appeal swingante. In questo caso è sin troppo facile, nel ben riuscito gioco di parole del titolo, andare con la mente a Diabolik.

E che dire della “baustelliana” dedica a Marlon Brando nella quasi eponima “Marlon B”?

Ci sono anche canzoni più intimiste, in cui il/la protagonista si guarda dentro, chiedendo delle risposte: alludo all’evocativa ballad “Un giorno difficile” o alla sinuosa “Il temporale”, entrambe che certificano la devozione del gruppo per una grande, anzi la più Grande, della canzone italiana come Mina.

L’interpretazione della Russo in questi due egregi episodi si fa sublime e raggiunge il suo apice (azzardando stavolta sì paragoni ingombranti con la celebre “Tigre di Cremona”) con una delle cover inserite nel disco, vale a dire la splendida “Spaziale” di Edda. Proprio il cantautore milanese più volte ha ammesso che gli piacerebbe che Mina cantasse uno dei suoi brani, magari appunto “Spaziale”, che già di per sè è in grado di toccare vette emozionali altissime.

Molto gradevoli e particolari pure le altre due cover scelte, a denotare un interesse trasversale per la musica: “Amore al terzo piano” potrebbe ricordare istantaneamente i romani Otto Ohm, invece in questo caso si tratta dell’omonimo brano dell’amico Bobbi Gualtirolo, che i più ricorderanno per la sua esperienza con Lino e i Mistoterital; “Cineprese” invece appartiene ai bresciani Intercity.

E’ davvero quest’ultimo un ottimo ripescaggio: ho sempre apprezzato molto i richiami al britpop cari ai fratelli Fabio e Michele Campetti, titolari del progetto; nella versione dei Morisco ad aumentare è il tasso di eleganza, per una canzone che esplicitamente richiama alla mente atmosfere da film (e pertanto ben attinenti al concept del disco).

E’ un album che ha pochi punti deboli, si fa ascoltare che è un piacere ed è in grado di farti evadere con le sue storie ma anche di farti pensare, tutto però all’insegna di una leggerezza che non va assolutamente scambiata per banalità o vacuità.

Il rammarico è che prodotti ben congegnati come questo, davvero concepiti per amore della musica e “vissuti” dai propri autori – che attraverso i quindici brani hanno riversato tanto del loro mondo di riferimento culturale e non solo – possano venire sommersi dalla grande mole di album pubblicati in modo copioso da più latitudini.

Certo, mi vien da dire che, se i Morisco fossero usciti qualche stagione fa, diciamo negli anni novanta, sarebbero potuti emergere in quel calderone di gruppi di area pop (nelle sue più varie sfaccettature) che seppe ben figurare: penso all’esperienza di gente come i già citati Delta V, ma ci aggiungo anche i mai dimenticati Soon, i pregevoli Madreblu e quei Dirotta su Cuba, che magari partivano da altre premesse ma che me li fanno loro accostare a tratti per il cantato elegante e raffinato di Francesca Russo, in parte simile a quello della brava Simona Bencini.

Poco male, siamo nel 2020 inoltrato e sono comunque felice che in un universo musicale dominato da trap, musica elettronica e tanti “fenomeni” (il più delle volte effimeri) usciti dai talent show, ci sia la possibilità di ascoltare anche una band onesta e ricca di qualità come i Morisco.

Alla riscoperta di un grande album italiano degli anni ’10: “Duramadre” di Eva Poles

E’ un po’ di tempo che su queste pagine “virtuali” non mi occupo più di musica, almeno restringendo il campo alle recensioni.
Conclusa per il momento la mia esperienza a Troublezine (ma mai dire mai!), causa sovraccaricarsi di impegni, mi ero ripromesso che qualora avessi sentito l’“urgenza” di parlare di un disco, vecchio o nuovo che fosse, l’avrei fatto, in barba a logiche promozionali o contingenze di uscite o eventi.

E’ per questo che oggi voglio ritagliarmi uno spazio dal fervore lavorativo per dedicare qualche riga a un album uscito ormai 4 anni fa, ma che mi sono ritrovato ad ascoltare con molta più calma e attenzione nelle scorse settimane.
Più in generale avevo voglia di riportare alla luce la stella mai sopita di una grande artista rock: Eva Poles.

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Sì, proprio l’ex voce dei Prozac +, popolarissima band dalla seconda metà degli anni ’90 fino in pratica all’inizio del nuovo millennio, quando forse si era perso l’interesse (parlo della massa) per quella formula vincente di canzoni all’apparenza sbarazzine o futili, ma in realtà quanto di più profondo e oscuro si fosse sentito in quegli anni in merito a scottanti temi giovanili. Loro lo facevano con franchezza e candore, colpendo a pieno muso l’ascoltatore con velocissime cantilene dal sapore pop punk.
Pur essendo principalmente Gianmaria Accusani l’autore dei brani e in definitiva l’ideatore del progetto, è indubbio che il supporto, anche scenico, delle sue due compagne di viaggio (oltre a Eva, al basso stava Elisabetta Imelio, tuttora sua sodale nei Sick Tamburo), era determinante ai fini del successo e dell’affermazione del gruppo.
In particolare la presenza sul palco della cantante era di quelle che catturavano l’attenzione, che coinvolgevano, grazie al suo carisma e al suo magnetismo.

Mai sciolti ufficialmente i Prozac +, se appunto di Gianmaria e Elisabetta si era tornati a parlare per l’efficacia dei loro nuovi pezzi a nome Sick Tamburo, di Eva Poles si erano invece progressivamente perse le tracce, almeno da un punto di vista del clamore mediatico, anche se l’abbiamo sempre saputa attiva a coltivare lo studio e le forme espressive della sua voce, oltre che impegnata come docente di canto moderno, giurata in vari contest e deejay.

La musica attiva, intesa come protagonista assoluta della sua vita, è rientrata dapprima grazie al coinvolgimento nel progetto ad ampio respiro Rezophonic, nato per iniziativa del polivalente musicista Mario Riso, da molti anni impegnato a sostenere l’associazione AMREF, in cui sono stati chiamati a raccolta, di volta in volta, disco dopo disco, tantissimi esponenti della scena indie-rock-metal italiana.
La Poles fece capolino in alcuni video, incantando in Spasimo, anche se fu con Regina Veleno, uscita nel 2011, che prestò la sua voce solista alla causa, per un ficcante brano dalla melodia mozzafiato su tappeto sonoro in odor di punk metal. Questo pezzo fu scritto da lei, e figurava in un progetto embrionale ancora non del tutto a fuoco.
Nei Rezophonic a più titoli collabora anche Max Zanotti, indimenticato leader dei milanesi DeaSonika, e sarà proprio con lui che, spontaneamente, si poggeranno le prime basi per la nascita di un lavoro nuovo di Eva, stavolta in primo piano, col suo nome e cognome.
Quindi si può dire che fu proprio la travolgente Regina Veleno (nella quale, ad un orecchio attento, è possibile riconoscere qualche atmosfera dei Prozac +, come forse sarebbero diventati) ad accendere la scintilla giusta, tanto che poi fu inserita anche in Duramadre, il suo primo (e finora unico) album.

La copertina di Duramadre, il cui disegno è stato realizzata dalla stessa Eva Poles a simboleggiare il proprio nome

La copertina di Duramadre, il cui disegno è stato realizzata dalla stessa Eva Poles a simboleggiare il proprio nome

Dall’azzeccatissimo titolo, giunto in extremis (come ha raccontato la diretta interessata), il disco mette in mostra in 10 brani autografi (eccezion fatta per Chainless, composto dallo stesso Zanotti su testo di Marta Innocenti), una cantautrice matura, consapevole, ispirata, pienamente a suo agio nel nuovo status.

Sono canzoni ipnotiche e dai ritmi cadenzati (penso al brano d’apertura MaleNero, dai toni dark), simboliche (la successiva 6, caratterizzata da riusciti giochi di parole, dalle atmosfere vicine a certa new wave anni ’80, quella più nobile), melodiche, a tratti sinuose, altre volte dirompenti.
Cadono nuvole, brano corredato da un intrigante video in bianco e nero, riflette al meglio l’umore generale dell’intero album, pur essendoci alternanza in questo senso nelle varie canzoni, sia per tematiche che per scelte di arrangiamenti. Lo fa perché sembra rappresentare al meglio l’artista, fotografandola in uno stato di grazia e riuscendo a consegnarcela nella fase di passaggio tra il passato (nei toni cantilenanti delle strofe) all’odierno: come a dire, l’evoluzione nella continuità.

Il Giocatore è probabilmente il pezzo più diretto del disco, nel quale si preferisce non far uso di metafore particolari, affidandosi piuttosto all’immediatezza. Un brano nudo e crudo, che come La Prima Scelta ci mostra il lato più disilluso di Eva.
Con Il Nemico non ci si discosta dalla consapevolezza di un rapporto che arreca più danni che altro, ma a cui non ci si riesce a sottrarre. Solo che qui Eva usa un registro diverso: meno rabbia e più morbidezza nella sua voce, come se il destinatario della missiva non fosse in realtà oggetto d’odio, tutt’altro.
Temporale utilizza un espediente letterario particolare (lo spelling a meglio scandire il concetto “ci sei o no”) su un tappeto sonoro elettrizzante – ed elettrico.
LIUSS (acronimo per Lontano In Una Stanza Stretta) è invece una sorta di ninnananna fluida, dolcissima e avvolgente, in cui la voce di Eva si fa calda e rassicurante, delicata ed eterea.
A chiudere il disco una Regina Veleno dalla nuova veste sonora rispetto al singolo uscito nel disco dei Rezophonic: meno enfatica e ruggente, più intimista e placida, grazie a un arrangiamento dove la fanno da padrone gli archi e a una interpretazione della cantante molto differente, giocata su tonalità più alte.

Insomma, riascoltandolo a distanza di anni, ci siamo ritrovati davanti a un gioiello, nemmeno tanto allo stato grezzo, se consideriamo che produzione, registrazione e arrangiamento sono indubbiamente azzeccatissimi e ideali a far emergere tutto il potenziale e il talento della cantautrice.

Le canzoni suonano benissimo, la voce e la musica appaiono pulite, ma non patinate, adatte anche a meravigliare i palati più “indie”.
L’unico motivo per cui riesco a darmi una spiegazione del fatto che il lavoro non abbia, a distanza di 4 anni dalla pubblicazione, raccolto i giusti consensi e riscontri, è l’eccessiva produzione musicale che nell’ultimo lustro ha investito l’ascoltatore, non solo quello medio, ma anche quello più attento.

Io mi voglio “giustificare” in un certo senso, perché quando l’album uscì (come i lettori più affezionati di questo blog ricordano), ero alle prese con gravi problemi di salute, che mi sarei protratto anche per tutto l’anno successivo… Però, cavoli, mi sembra che molto lentamente, troppo forse, siano usciti articoli o segnalazioni del disco, quando invece di prodotti nettamente meno meritevoli spuntano informazioni e condivisioni ovunque. Ma è chiaro che sui meccanismi che sottintendono la nascita dell’hype su questo o quel disco è difficile dare delle risposte.

O forse molto più semplicemente (come ho avuto modo di confrontarmi sul tema con la stessa Eva), manca quel fermento sociale e culturale, quella spinta che veniva data anche dal contesto – e che quindi agevolava quei gruppi e artisti che volessero proporre qualcosa di forte e innovativo – che invece era presente nei già citati anni ’90, che mi auguro non resteranno gli ultimi a dare una certa rilevanza al rock nostrano.

Certo, il panorama odierno sembra aver cambiato completamente direzione, facendo perdere alla musica la sua centralità nella vita delle persone, specie dei più giovani, ma spero che come una ruota che gira, tornerà in auge prima o poi la voglia di puntare su artisti con una propria formazione e professionalità, non solo giocando al massacro con i “talenti” usciti dagli show televisivi.

Internet ha portato da una parte l’opportunità concreta, tangibile, di poter accedere a sterminate informazioni, ma tutto questo magma comunicativo in certi frangenti avrebbe bisogno di essere filtrato, veicolato.
So benissimo che non è fattibile, e forse non è neanche auspicabile, se penso ai risvolti positivi che questa “libertà” ci può portare, ma il rischio è che vada sperperata tanta qualità, o che rimanga sin troppo sotterranea.
Chiudo auspicandomi di ascoltare nuovi lavori di artisti con qualcosa da dire e da trasmettere. Quello è ciò che mi interessa… poi se gli ascolti di massa non andranno a premiare Eva Poles, Erica Mou o Una (tanto per citare altre due artiste interessanti di cui ho avuto modo di parlare in altri contesti), beh… peccato per loro!

Antonio “Rigo” Righetti con questo secondo album solista (“Water Hole”) si conferma rocker di razza, altro che “solo” l’ex bassista di Ligabue

Ecco la mia recensione del disco di Rigo, pubblicata sul sito di Troublezine.it

http://www.troublezine.it/reviews/21716/rigo-water-hole

 

Il nuovo album di Antonio “Rigo” Righetti, che i più ricordano per la sua lunga e fruttuosa collaborazione in qualità di bassista per Ligabue (era una delle colonne della “Banda”) e gli “esperti” per la sua militanza nei Rocking Chairs, conferma le buonissime impressioni che ci arrivano da una discografia che piano piano sta diventando sempre più corposa.

E’ un disco dalle atmosfere calde, soffuse, in un certo senso “rassicuranti”, nei suoni e nel cantato: merito principalmente dell’approccio educato e sobrio del cantautore modenese, che in queste tracce essenziali e dirette, mette in mostra tutto il suo amore per l’America. Non serve alzare i toni o gridarlo a pieni polmoni, a volte per esprimere i sentimenti, quelli veri, bastano poche cose, basta che ci sia l’intento vero e il cuore in mano e qui accade.

A tratti pare riecheggiare Bruce Springsteen, quello meno rock’n’roll e più acustico, ma l’attitudine scarna e il suono registrato in presa diretta, ne fanno un lavoro rock nell’anima. Rigo intona con voce profonda canzoni che mirano a rievocare la poetica dei grandi narratori d’Oltreoceano, e i nomi sono quelli più autorevoli: Faulkner e Carver. Testi tutti rigorosamente in lingua inglese, a riannodare ancora di più il filo che lo lega a quei scenari. Solo King of Love è introdotta in lingua italiana, e a declamare quei versi tratti proprio da Carver è l’attore teatrale Danio Manfredini, ma poi le sue liriche si dispiegano in inglese.

Un po’ di sano country, un po’ di folk, l’attenzione ai piccoli particolari che fanno la differenza (l’armonica che spesso arriva a rimarcare e intensificare l’atmosfera), tanta qualità da ogni parte lo si ascolti, grazie alla maestria di Rigo e dei suoi valenti collaboratori, uno dei quali è l’antico sodale Robby Pellati, batterista al suo fianco sia nei Rocking Chairs che nel gruppo di Ligabue.

Un consiglio? Il 5 gennaio, dal Cotton Club di Modena parte il suo tour in supporto al disco. Beh, non lasciatevelo scappare live, sarebbe un delitto!

Tracklist

 01. Henry’s Siege Mentality
02. Tear It Up
03. King Of Love
04. Dangerous
05. Glass
06. For So Long
07. The Beauty
08. (Don’t Want) To Cheat You

Le mie recensioni di Gennaio 2016 per Troublezine: il disco OndAnomala di Mimmo Crudo e Lady U e quello di Difiore.

Amici del blog, condivido anche con voi alcune delle mie recensioni uscite per la rubrica “Recensioni in pillole”, su Troublezine.it,  relative alle ultimissime novità provenienti dall’indie italiano. Io ho scritto dei dischi di OndAnomala di Mimmo Crudo e Lady U e Difiore.

Linko volentieri tutto il pezzo con le uscite di Gennaio 2016, così avrete modo di leggere tutti i contributi dei vari collaboratori del sito e trovare musica per tutti i vostri gusti. 🙂

http://www.troublezine.it/columns/20115/recensioni-in-pillole-gennaio-2016

OndAnomala di Mimmo Crudo e Lady U “Tu ci sei” (MK Records/Self)
Un connubio riuscito quello tra uno dei nomi più significativi del Parto delle Nuvole Pesanti (il bassista e compositore Mimmo Crudo) e la performer Francesca Salerno, in arte Lady U, poetessa e cantante. Un progetto costruito a Bologna ma che ha radici lontane, viste le affinità intellettuali tra i due e l’idea che balenava in testa in realtà già da molto tempo. In questi dieci pezzi si respirano tante atmosfere diverse, all’insegna di una “patchanka” musicale efficace e di un’urgenza comunicativa, a volte affidata al calore e alla sensualità della voce (come ad esempio inStringimi o nella struggente Cori Umani, altre all’irruenza dei suoni, penso a Le cose che mi restano, che viene sin troppo semplice accostare agli episodi più rock del gruppo primigenio di Mimmo Crudo. Ci sono temi anche forti e ben scanditi, ad esempio in Salvami o nella malinconica Tunnel. Suoni folk, più legati alla Terra sono quelli di Salta Anita, in odor di pizzica o nella vivace e ballabile Acikof Song. Un disco ben scritto e suonato, che piacerà molto probabilmente ai cultori del genere folk rock mediterraneo, pur non rappresentando uno dei vertici artistici di quel filone.

Difiore “Scie chimiche” (L.M.European Music)
Giordano Di Fiore, in arte Difiore, in queste 13 canzoni spazia da tematiche politiche (come nella convincenteNovecento) ad altre esistenzialiste (Un’altra carta, L’amore non c’è) o più prettamente intime (nella riuscita ballata In bilico, la più ritmata Emotili e la conclusiva Occhi di donna, molto degregoriana nel cantato). Il brano più ficcante, in cui il testo si distingue maggiormente, è la diretta titletrack, in cui il tema sociale va a braccetto con una poetica felice. Molto esplicita è Compagni (senza rancore), anche se forse troppo infarcita di luoghi comuni. Musicalmente, a parte forse l’ironica e vivace Ti voglio bene e un breve intermezzo folk, il disco suona molto minimale, essendo praticamente acustico o al limite spruzzato di un’elettronica vintage usata da corredo. Del Brasile, nota passione del Nostro, che dalle frequenze di Popolare Network conduce un seguito programma dedicato alla variegata musica di quel Paese, non c’ è purtroppo traccia, e il disco finisce per ripiegarsi un po’ su sé stesso, risultando fragile e senza quei guizzi di fantasia che forse era lecito attendersi.

Tempo di bilanci in campo musicali: il mio elenco (molto parziale) mi induce a dichiarare che il 2015 sia stato più interessante dell’anno precedente

TOP DISCHI 2015 Gianni Gardon per Troublezine

L’anno che va chiudendosi ha regalato, dal mio punto di vista, dischi di maggior qualità e originalità rispetto ai corrispettivi del 2014, o forse più semplicemente mi rendo conto che molte uscite discografiche hanno soddisfatto maggiormente la sfera dei miei gusti. Il sito di Troublezine, per cui collaboro, mi ha chiesto un elenco, che ora qui vado a esplicare.

Visto che la classifica in questo caso spetta a me, ecco quindi che compariranno album che si avvicinano a ciò che sento nelle mie corde, nonostante la rilevanza avuta da alcuni lavori lontani un po’ dal mio mondo. Alludo a gente come  D’Angelo, tornato fra i ranghi con un solido album all’insegna dell’R’n’b più nobile, Kendrick Lamar, con la sua commistione originale di atmosfere “moderne” e “antiche” o il jazz visionario, quanto astruso, di Kamasi Washington. Non sono mancate nemmeno le delusioni, ma riguardano, nel mio caso, artisti che da tempo hanno smesso di suscitarmi emozioni, quindi non parlerei di veri flop.

Bando alle ciance, e chiuse le premesse, ecco un elenco parziale, anche se redigere una graduatoria è sempre azzardato… I miei favori sono condizionati spesso dall’umore del momento e dalle circostanze: resta il fatto che QUESTI per me rappresentano il top del 2015.

  • 1 Beach House “Thank yours lucky stars”, perchè le atmosfere semplici, sognanti, dilatate, così intrise di dream pop fanno sempre breccia nel mio cuore. Unica cosa: di due dischi a distanza così ravvicinata – poche settimane sono intercorse dal precedente, altrettanto fulgido “Depression Cherry” a questo – forse se ne poteva pubblicare uno solo con le migliori di entrambi e ne avremmo molto probabilmente ricavato un lavoro ancora meglio del capolavoro “Bloom” ,uscito ormai tre anni fa. Ma poco importa, a loro va il mio scettro di miglior disco dell’anno!
  • 2 Tame Impala “Currents”, un po’ alla stregua degli Arcade Fire: o li si ama, o li si odia, io propendo per la prima. Siamo anche qui dalle parti di una psichedelia rinnovata, anche se di quelle più allucinate.
  • 3 Sleater Kinney “No cities to love”, a sorpresa annoverate un po’ ovunque fra i dischi dell’anno, devo dire che mi accorsi subito che, tra le pieghe di canzoni in fondo semplici nella loro accessibilità e immediatezza, vi fosse tanta cruda sostanza. Ci mancavate, ragazze
  • 4 Asaf Avidan “Gold Shadow”, sarà stata la suggestione offertami nella splendida cornice del Teatro Romano a Verona, dove l’israeliano ha furoreggiato tra virtuosismi e barocchismi, ma a me questo disco ha riconsegnato tante emozioni nel suo riecheggiare atmosfere sixties, un po’ come faceva magistralmente la compianta Amy Winehouse. Poi, come si dice in questi casi, con quella voce Asaf renderebbe interessante anche l’elenco telefonico
  • 5 Julia Holter “Have you in my wilderness”, deliziosa interprete che si muove fra languide ballate e costruzioni armoniose destabilizzanti, creandomi un effetto che in tempi recenti mi assicurava solo la splendida Fiona Apple
  • 6 Jim O’ Rourke “Simple songs”, il titolo è programmatico e nel suo caso ci sta, visto lo scarto con sue composizioni ben più ostiche, ma in questo disco prevalgono comunque la densità emotiva che traspare dai pezzi e un senso di spiazzamento, laddove è venuto a mancare lo struggimento a lui caro
  • 7 Panda Bear “Panda Bear meets the grim reaper”, lo avevo già detto vero che in questo 2015 sono usciti parecchi dischi a mia immagine e somiglianza? Anche qui siamo dalle parti di un pop onirico, a tratti ondivago ma al più scintillante
  • 8 Courtney Barnett “Sometimes I sit and think, Sometimes I just sit”, un disco quasi perfetto, quell’indie rock al femminile che non lascia indifferente. Non so se a colpirmi l’immaginario sia stato più la sua attitudine o la sua reale collezione di canzoni, sta di fatto che non potendomi basare su riscontri oggettivi riguardo la sua personalità – visto che non la conosco..- posso affermare che intanto mi bastano quelle a rassicurarmi.
  • 9 Florence and the Machine “How big how blue how beautiful”, avevo quasi dimenticato il disco che segnava il ritorno della “rossa” per eccellenza del rock di questo scorcio di secolo. Questo perché ormai non ci si stupisce più che Florence possa sfornare album impeccabili dal punto di vista formale, così come da quello degli arrangiamenti, alla ricerca di un “quasi” perfetto equilibrio tra atmosfere in grado di trasmettere all’ascoltatore una vasta gamma di stati d’animo.
  • 10 Laura Marling “Short movie”, ammetto che c’ho messo diversi ascolti per assimilare il nuovo sound della giovane cantautrice inglese. Non che sia stato rivoluzionato in toto il suo sound, ma è certo che qui le chitarre, che emergono clamorosamente, laddove finora a brillare erano solo suggestioni calde e acustiche, se da una parte hanno arricchito il suo bagaglio e la sua proposta, dall’altra hanno forse fatto perdere in intensità interpretativa. Siamo dalla parti del “de gustibus”, però per me rimane un’artista da seguire assolutamente.

Altri dischi a mio avviso validi sono quelli dei miei pupilli Mumford and Sons, che non ho inserito in top ten perché credo che certe vette dei primi due album non verranno più raggiunte, specie ora che alla freschezza e urgenza comunicativa, è subentrato il mestiere. L’album però, anche qui segnato da una svolta elettrica – che però non ha contaminato l’essenza della band, che resta riconoscibilissima – è assolutamente ricco di spunti.

Mi è piaciuto anche il disco intimista di Father John Misty “I love you, honeybear”, veramente raffinato e intenso, che sembra riportarci indietro negli anni ’60, e quello della sfuggente Joanna Newsom (“Divers”), una conferma, anzi, una certezza. Poi, anche se sulla lunga distanza non mi ha fatto impazzire, ammetto che avevo salutato con grande entusiasmo e calore il disco della reunion dei Blur, “The magic whip”, finalmente un intero album di inediti per gli antichi eroi britpop, con la formazione al completo e ancora affiatata. Non ho gridato al miracolo per il disco di Bjork, ma un’artista del suo calibro non può essere recensita negativamente!

Ah, tra i dischi che mi rendo conto aver ascoltato piuttosto frequentemente c’è quello degli Alabama Shakes, ruggente, sporco e trascinante.

Tra gli italiani mi sono piaciuti molto gli album di Zibba e Almalibre “Muoviti svelto”, in cui l’artista ligure ha rinnovato la sua posizione nella scena della canzone d’autore italiana, e l’esordio del duo cremonese La Scapigliatura, in cui i fratelli Bodini hanno confezionato piacevolissime canzoni pop, densi di spunti d’interesse e dai testi notevoli, ricordando a tratti certe intuizioni dei primi Baustelle, laddove però alle atmosfere vivaci di Bianconi e co., hanno preferito puntare su suoni acustici e minimali, degni del miglior “new acoustic movement”. Si confermano, con un disco mutevole, denso di significato e valore, i Bachi da Pietra… peccato siano quasi “sfuggiti” alle mie orecchie, fino a un mese fa, suggeriti in tempo dall’amico e collega di penna (in questo caso “sportiva”) Alec Cordolcini, attento e fine ascoltatore musicale.

“Die” di IOSONOUNCANE ha fatto incetta di riconoscimenti, dal PIMI 2015 in coabitazione con Cesare Basile, fino alle nomination al Tenco, ma ammetto che, da giurato al Mei di Faenza, i miei favori fossero andati a un album uscito nella seconda metà del 2014 (per quel premio si tiene conto dell’anno”scolastico”). Tuttavia, l’artista sardo è davvero in grado di non lasciare indifferente, con una proposta particolare che strizza l’occhio al pop anni ’70, vicino a certe atmosfere battistiane, in chiave assolutamente moderna, a partire da azzeccati, quanto azzardati, arrangiamenti.

Tra i flop, spiace constatarlo, metto al primo posto il ritorno dei Coldplay, che mi paiono ormai incapaci di tornare ai fasti “pre Viva la Vida”, quando con le loro atmosfere malinconiche erano emersi a paladini del nuovo britsound di inizio millennio. In Italia, rimanendo per lo più in ambito mainstream, ho tutto sommato invece apprezzato il tentativo di Jovanotti di dare ampio respiro a tutte le sue molteplici inclinazioni sonore, anche se ovviamente un album composto da 30 canzoni difficilmente riesce a mantenere vivo l’interesse dall’inizio alla fine. Ci sono riusciti invece i Verdena che, però, furbescamente, hanno preferito dividere il loro ultimo lavoro (“Endkadenz”) in due volumi, risultando molto efficaci. Li ritengo ancora una volta la migliore espressione dell’attuale rock nostrano. Non avrei voluto inserire tra le mie delusioni il disco programmatico di Carmen Consoli “L’abitudine di tornare”, essendo stato grande fan della “cantantessa”. Ma il suo ritorno a un pop semplice, seppur mischiato con le atmosfere più folk degli ultimi due lavori, mi ha lasciato l’amaro in bocca, riscontrando tra le sue inedite composizioni poca dell’ispirazione che l’aveva sempre contraddistinta.

Ho avuto modo, forse mai come quest’anno, di ascoltare tanti dischi di artisti emergenti, soprattutto italiani, e con rammarico devo ammettere che, pur con qualche fragorosa eccezione (i dischi de La Belle Epoque, Davide Ravera, Jarred the Caveman, Plastic Man, David Ragghianti, Tamuna), sono stati invero pochi quelli in grado di assestarmi un “colpo emozionale”. Ma forse la colpa principale è… la mancanza di tempo da dedicare a prodotti che magari necessiterebbero di maggiori ascolti, in contrapposizione con la vastissima (auto)produzione di lavori pubblicati.

In ogni caso non mi va di perdermi in lamentele assurde, perché in fondo avere la possibilità di ascoltare quanta più musica possibile e cercare di trovare delle perle nascoste, è sempre un bene per l’anima.

Ripeto, di dischi da segnalare e recuperare ce ne sarebbero a iosa, e allora vi invito a consultare ad esempio un bellissimo e accurato resoconto del grandissimo Carlo Bordone, dal suo blog “Whitnail e io”,  https://withnailblog.wordpress.com/2015/12/05/50-x-2015/ in cui compaiono dischi di notevole spessore e, ovviamente, i suggerimenti degli amici di Troublezine!

Che bella sorpresa il disco del duo Ducoli.Gaffurini: voce e piano che sanno regalare emozioni autentiche, tra atmosfere notturne, jazzate e vivaci

Ci sono periodi dell’anno in cui ricevo, fisicamente o via mail, moltissimi dischi da ascoltare e, eventualmente, recensire. Altri periodi invece deliberatamente decido di staccare la spina, perchè se è vero che la mia giornata è praticamente sempre scandita dalla musica, questa per me vorrei rimanesse sempre un piacere, e non una sorta di “obbligo”, con il pericolo che poi finisca per prestare poca attenzione a dischi per cui gente si è comunque smazzata, messa in gioco, per arrivare al conseguimento di un obiettivo.

Quindi, per quanto io in fondo sia solo un ascoltatore appassionato, a volte vesto i panni anche del recensore, e da addetto ai lavori, metto sempre davanti l’onestà intellettuale e un certo rigore nell’ascolto. Quando decido di interrompere gli ascolti finalizzati a un giudizio che poi andrà su carta, è solo perchè so che non avrei il giusto tempo o la necessaria concentrazione per mettermi ad ascoltare un disco. Poi mi fa piacere quando ottengo, nel mio piccolo, delle gratificazioni, come l’essere stato coinvolto come giurato nell’assegnazione del premio PIMI per l’album indipendente dell’anno, o quando sono gli stessi artisti che condividono sui propri social network la mia recensione, magari anteponendola a quelle di firme più prestigiose.

Tuttavia, il mese di dicembre, particolarmente gravoso sul piano della mia principale occupazione – quella di educatore formatore – e caratterizzato dall’impegno messo nero su bianco per approntare il mio prossimo libro di saggistica, è stato proprio uno di quelli che mi hanno indotto a dire,seppur a malincuore, stop alla profusione di articoli, recensioni, concerti, oltre a dover posticipare giocoforza il rientro in pista con la mia trasmissione radiofonica “Out of Time”, dai microfoni di Yastaradio.

Sapendo di questa mia esigenza, i buoni amici Riccardo Cavrioli, redattore di Troublezine, per cui collaboro, e Roberto “Dalse” Dal Seno, boss di Yastaradio.com mi hanno assecondato, lasciandomi il tempo di recuperare preziose energie, suggerendomi di tanto in tanto qualche ascolto “disinteressato”.

Così facendo, però, sapevano di smuovermi la scintilla, e difatti prestissimo riprenderò le mie attività!

In una delle ultime visite in quel di Valeggio sul Mincio, dimora del mitico Dalse, tra tanti discorsi su musica e “massimi sistemi”, ecco che a un certo punto l’esperto amico, che ben conosce le mie corde musicali, mi consegna un disco “artigianale”, dicendo di dargli un ascolto, senza doverne necessariamente scriverne, solo se ne valesse per me la pena o se il disco in effetti meritasse.

Riesco a farlo proprio stamattina, in uno scorcio libero da impegni vari, perchè il disco in questione, magistralmente “clandestino” – nel senso che purtroppo è di quelli di cui si ignora l’esistenza – è davvero valido, ricco di spunti, di istanze, di atmosfere, di messaggi, e suonato con grande maestria, scritto ancora meglio e arrangiato in maniera tanto sobria, quanto impeccabile dal punto di vista formale, con tutti gli ingredienti al punto giusto.

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Autopubblicato a nome “ducoli.gaffurini” e dal bizzarro titolo “Gufi, allocchi, barbagianne e altre giovani streghe”, è composto di 8 tracce, nelle quali l’esperto duo omaggia la Barbagianna, il vino bianco prodotto dall’azienda agricola Bragagni di Brisighella e dedicato proprio alle primigenie canzoni del cantautore Alessandro Ducoli, contenute nel suo (ormai lontano) esordio “Rosso”, demotape uscito nel ’94.

Accompagnato dall’amico Valerio Gaffurini al piano, Ducoli trasmette veramente molta passione in brani romantici e sognanti come “Una scintilla”, caratterizzata da un lirismo che ce lo fa accostare ad alcuni episodi del maestro Paolo Conte. Il cantautore avvocato sembra essere una delle maggiori influenze del Nostro, anche in altri brani caratterizzati da aperture jazzate, come in “Questa città non è morta”. Emerge anche l’amore per lo swing e per il cabaret, un po’ come nel primo Vinicio Capossela, che ritroviamo nelle inclinazioni ondivaghe di brani come “Cane” o la trascinante “Mi hanno imbrogliato”. Il piano di Gaffurini prevale maestoso, rendendo densi e profondi gli episodi intitolati “Voglio toccarti”, “Binario morto” (la mia preferita del disco) e quella “Rosso”, così notturna e fumosa, risalente come detto a più di 20 anni fa.

Un disco che il duo intende valorizzare in concerto, andando a ritroso nella loro ventennale carriera, dando modo così al pubblico di scoprire alcune perle del loro vasto repertorio.

 

Tanta attesa per il ritorno dei Kings of Convenience

Condivido con voi, amici del blog, il mio pezzo uscito per il sito Troublezine sul ritorno dei norvegesi Kings of Convenience!

http://www.troublezine.it/columns/20097/kings-of-convenience-un-ritorno-col-botto-per-chi-predicava-tranquillit

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Ha suscitato non poco clamore il rientro in pista del duo norvegese dei Kings of Convenience. E la cosa in effetti può stridere un po’ se si pensa che il loro successo è dovuto proprio all’aver innalzato al potere la forza dirompente della… tranquillità, della pacatezza e della riflessività al cospetto di furore e rabbia.
Suoni acustici e melodie lieve laddove fino a un lustro prima dominavano le chitarre ruggenti di ciò che rimaneva del morente grunge e il brio e talvolta l’allegra strafottenza dei gruppi pop rock d’albione. Ma anche i coevi alfieri del “Nu Metal” in fondo si palesarono con un’attitudine del tutto opposta al nuovo “credo” lanciato dai timidi Erlend Oye e Eirik Glambaek Boe.
Per non parlare dei nuovi “soldati” del rock grezzo e rumoroso, inzuppato negli anni ’70 (Strokes, Black Rebel Motorcycle Club, White Stripes…) ai quali i Kings of Convenience erano in pratica antitetici.
Il fatto che il countdown per rivederli nuovamente live in Italia per tre fragorose date autunnali a Verona, Bologna e Roma sia iniziato tra la spasmodica attesa e copiose prevendite, dimostra quanto poco di effimero ci fosse nella loro seminale proposta, fatta di canzoni graziose, delicate, spogliate da inutili orpelli, e arrangiate e prodotte all’insegna del lo-fi.
Sono trascorsi già 15 anni dal loro debut-album, eponimo, uscito in sordina per una piccola etichetta americana e pubblicato dapprima solo in Usa e in Canada e questo significa che presto ci ritroveremo ad insaputa nostalgici anche degli anni 2000, che a dire il vero sembrano ancora lì, dietro l’angolo.

L’eco di quel primo disco fu sufficiente a dare risalto alle qualità artistiche dei due amici, e fece da apripista per il lavoro pubblicato l’anno successivo, stavolta destinato al mercato mondiale. Si trattò in pratica di una riedizione dell’album d’esordio (con l’aggiunta di pochi nuovi brani), che ebbe il merito di lanciare nel firmamento pop l’astro nascente dei Kings of Convenience, forti di una capillare distribuzione, di un passaparola notevole e di un nuovo titolo “programmatico” delle loro intenzioni: “Quiet is the new loud”, che quasi istantaneamente assurgerà a manifesto di una “categoria dello spirito”, facendo da volano per molti altri artisti che in contemporanea iniziarono a proporre musica simile.
La stampa ci mise del suo nella diffusione e nella promozione di questo splendido disco, con quel titolo adattissimo a fungere da slogan per questa schiera di gruppi che condividevano passioni, indole e soprattutto l’utilizzo di strumentazione pressochè acustica, con la scomparsa dagli studi di registrazione delle chitarre elettriche.

Ce n’era a sufficienza per coniare un nuovo genere: il New Acoustic Movement, in cui far confluire, oltre ai capofila norvegesi, gente come i Turin Brakes, l’eclettico Badly Drawn Boy, il malinconico e sognante David Gray, il cantautore Ed Harcourt, gli sperimentali I Am Kloot o gli Starsailor, i più diretti ascendenti del britpop.
Insomma, i Kings of Convenience, rielaborando in chiave moderna le atmosfere già care a Simon & Garfunkel, riuscirono a diventare un caso, o come si direbbe ora, suscitarono molto hype.
E a ragione, vista la portata del loro messaggio e la loro coolness, nonostante (o forse proprio per quello) si presentassero agli antipodi delle rockstar: introversi, quasi goffi e inadatti a ricoprire quel ruolo, preferendo mantenere l’aurea dei compositori silenziosi nelle loro camerette, facili da assimilare all’estetica nerd, complice soprattutto il look da secchione del riccioluto Erlend Oye.

Non saranno diventati delle icone del loro decennio ma di certo contribuirono a rimettere in primo le canzoni,nella loro forma scarna e quasi elementare, ma nella sostanza intensa e profonda, intrisa di mistero e in grado di veicolare emozioni nell’ascoltatore.
“Quiet is the new loud”, affermavano convinti a mo’ di proclama, e sarà stupendo rinverdire quel motto nei tre attesissimi concerti italiani di novembre (in cui quell’esordio sarà riproposto interamente, alternato a chiacchiere con i due protagonisti), consapevoli che anche una chitarra gentile, una voce mai sopra le righe e una tastiera abile a ricamare, sono capaci di infiammare i cuori e riempire anche i palchi più prestigiosi. (Gianni Gardon)

Ecco le tre date nel dettaglio, ricordando che Bologna e Verona sono già sold-out. Organizza DNA CONCERTI.

25 novembre 2015
VERONA
TEATRO CAMPLOY

27 novembre 2015
BOLOGNA
TEATRO ANTONIANO

29 novembre 2015
ROMA
TEATRO AMBRA JOVINELLI