Collettivo Migrado – Io non c’ero ma ero lì

Davanti a fatti di attualità come guerre o migrazioni, la gente tende a dividersi sostanzialmente in varie correnti di pensiero, che inevitabilmente vanno a riflettere indoli personali quando non proprio connotazioni politiche, e al contempo c’è chi invece non teme di esporsi, impegnandosi in prima persona in forme diverse.

Nel caso degli artisti un modo tangibile per dare voce, omaggiare o semplicemente tenere accesi i riflettori su determinate questioni, può avvenire tramite i messaggi che vengono veicolati dalle canzoni, dagli spettacoli, dai film.
E se c’è un gruppo che di questo modus operandi ne ha fatto una scelta di vita, a costo pure di venire etichettato o visto con sospetto (ma spesso e volentieri guarda caso da chi la pensa in modo opposto) questo risponde al nome di Modena City Ramblers.

La variopinta band emiliana nel corso di una ormai lunghissima carriera, approdata al recente “Altomare”, paradigmatico di quanto enunciato in precedenza, ha sempre parlato di tematiche sociali nei propri dischi, dedicando spazio in più occasioni alle storie dei migranti, del viaggio alla ricerca della speranza di una vita nuova.

Nel loro percorso musicale non di rado si sono fatti accompagnare da spiriti affini che ne condividono le istanze e le idee, e così facendo sono sorti nel nome dell’amicizia e di ideali comuni dei connubi destinati a creare qualcosa di altrettanto valido.

L’ultimo caso simile ha visto coinvolto due protagonisti della band, il cantante Davide “Dudu” Morandi e il bassista-polistrumentista Massimo “Ice” Ghiacci (entrambi negli anni alle prese anche con i rispettivi progetti solisti), che unitesi a Fabrizio Cariati e Marco V. Ambrosi (rispettivamente voce e chitarra dei Nuju, interessante folk band emiliana con radici calabresi), hanno dato vita al Collettivo Migrado alfine di realizzare un progetto assolutamente meritevole di attenzione.

“IO NON C’ERO MA ERO LÌ” si dipana tra musica, parole e teatro, per via di un disco contenente ben 16 tracce inedite, una graphic novel del fumettista Lorenzo Menini (edita da Compagnia editoriale Aliberti) e un’opera teatrale che ha visto il suo debutto sul palco del Teatro dell’Orologio di Reggio Emilia, dove oltre ai protagonisti citati va annoverato il fonico e produttore Gabriele Riccioni.

La storia, assolutamente ben congegnata e coinvolgente, è scandita dall’alternarsi dei quattro venti (Maestrale, Grecale, Libeccio e Scirocco) che connotano l’esperienza di questi uomini, donne e bambini in fuga dalle loro terre, e le canzoni risultano specchio fedele di questo viaggio, con tutto il carico di speranze, sogni, angosce, lutti, paura, sofferenze ma anche, per chi ce l’ha fatta, di gioia e commozione.

L’intento però è quello in primis di non dimenticare invece quelle vite, purtroppo numerose, che sono finite in fondo al mare, e nel farlo i Nostri si affidano ad elementi narrativi e musicali che ben sanno addomesticare e rimescolare (tra folk, rock, musica d’autore), creando comunque qualcosa di diverso dal repertorio dei rispettivi gruppi-madre.

Le liriche sanno essere dirette e arrivare dritto al punto (penso a brani come “Sant’Elmo”, “Mors tua, bella vita mia” o “Dove sei?”), emozionando oltremodo quando alla forza del messaggio si unisce un’evidente qualità evocativa: capita specialmente in episodi come “Il pozzo più profondo”, “Nebbia sospesa”, “Scarpe pesanti” o “Amaro mare”, quest’ultimo caratterizzato da uno struggente finale.

Sarebbero tutti però da citare i brani di “Io non c’ero ma ero lì”, in quanto al loro interno è facilmente possibile riscontrare una determinata urgenza comunicativa e uno spessore autentico, specchio fedele delle genuini e nobili intenzioni che animano il cuore del Collettivo Migrado.

La canzone d’autore resiste#8: Renanera con “Terra da cammenà”

Ammetto candidamente di amare la musica che contiene una matrice folk, popolare, sia per quanto concerne dei testi ricchi di storie e significati differenti, sia per le musiche suggestive, coinvolgenti, calde e profonde che li caratterizzano.

Spesso gli artisti che scelgono questa strada musicale, decidono al contempo di comunicarci la propria arte e il proprio messaggio attingendo a piene mani ai dialetti locali e regionali, a mio avviso un valore aggiunto, considerato l’immenso patrimonio artistico che contraddistingue la nostra Penisola nella sua interezza.

E sono poi le commistioni stesse che avvengono tra parole espresse in dialetto e l’italiano (e altre lingue), a dare vita a qualcosa di particolarmente evocativo e originale; medesimo incanto che si ottiene quando a sonorità classiche, tradizionali e per lo più acustiche, si mescolano sagacemente quelle dal tocco più moderno, contemporaneo, il più delle volte affidandosi alle molteplici possibilità date dalle tastiere e dai computer, esplorando i quali si può scoperchiare un mondo fatto di suoni, rimandi, ritmi e vibrazioni.

Autentici maestri a fondere antico e moderno, cultura e ricerca, tradizione e contemporaneità, sono i Renanera, duo che affonda le proprie radici in Basilicata, Terra eletta dove operano, sperimentano e coltivano la loro passione Unaderosa (alias Concetta De Rosa) e Antonio Deodati.

Antonio Deodati e Unaderosa dei Renanera – foto dalla pagina Facebook del gruppo

Sono loro la forza motrice del gruppo, il cuore da cui partono idee e ambizioni, dove il progetto si fa vivido e pulsante, affinato da una sinergia tanto vincente quanto naturale (i due sono una coppia anche nella vita) che fa sì che ogni singolo pezzo di questo mosaico chiamato “Terra da cammenà” sia assolutamente autentico e “sentito”.

La voglia di raccontare i luoghi, i miti, le leggende, i desideri e la quotidianità della Lucania è sempre stata presente nella loro vicenda artistica ma si è, in questa ultima fatica realizzata ormai più di un anno fa, rinnovata e rinsaldata.

Il risultato è stato poi tradotto in diciotto emozionanti episodi, che si fanno apprezzare presi anche singolarmente, ma che vanno considerati meglio nell’insieme, perchè tutti concorrono in egual misura a renderci mirabilmente il senso di quello che, senza timore di smentita, possiamo definire un vero concept-album.

La Basilicata traspare infatti in tutta la sua bellezza e fiera dignità, tra personaggi ed eventi che meritano di essere ricordati e tramandati, luoghi dell’anima e luoghi fisici a testimoniarne l’unicità, consapevolezze e contraddizioni, credenze a cui aggrapparsi e altre da rifuggire, la ragione che impone di rimanere ancorati alla terra e l’amore che permette invece di sognare e sospirare.

Tanti sono i temi, innumerevoli gli spunti, che per condensarli nel migliore dei modi non “bastava” la forma canzone – che pure è innalzata spesso e volentieri su livelli d’eccellenza -, cosicché i Renanera hanno voluto regalarci qualcosa di più, e “Terra da cammenà” è diventato alla fine un lavoro assai ricco e completo, la cui narrazione è corredata da un album-libro (di ben 104 pagine) fatto di immagini, con le splendide foto di Francesco La Centra e di Federico Cataldi, anche regista della docu-fiction “Voci di una terra: Basilicata” (andato in onda su Rai Storia), e di parole, ad opera principalmente di Unaderosa, che possiamo definire la vera anima del gruppo, autrice di tutti i testi, oltre dei prologhi delle canzoni.

Il book è impreziosito inoltre dalla prefazione di Antonio G. D’Errico, un’introduzione di Pierpaolo Grezzi, la postfazione di Yvette Merchand e da un interessantissimo Alfabeto dei Dialetti Lucani (A.D.L., elaborato dalla professoressa Patrizia Del Puente, ricercatrice del dipartimento di Dialettologia dell’Università della Basilicata), molto utile perchè le canzoni sono tutte scritte e interpretate come detto in dialetto.

Uno sforzo immane, quindi, reso possibile da “Brigante Editori”, con sede a Lagonegro (PZ), che e pure il luogo di nascita di Antonio Deodati, il quale oltre ad averne curato la produzione con la moglie, si è occupato degli arrangiamenti, a mio avviso uno dei punti di forza dell’intero lavoro.

questo è il link al libro sfogliabile http://www.renanera.it/album_terradacammena.html?fbclid=IwAR3vWGevEQV2NZF2JwP0iDG7wpVwsBePvSm0MGUWDdjUbU8q50Bc3XuKCtc

Venendo agli aspetti prettamente musicali, è evidente come ad emergere sia un apparato world davvero ispirato e multiforme, che risulta essere adattissimo, con i suoi caleidoscopici inserti elettronici, a rivestire brani cui pensa poi l’evocativa ed espressiva voce di Unaderosa a conferire di volta in volta solennità, mistero e fascino.

Musica elettronica ma non solo, se è vero che Deodati e gli altri musicisti intervenuti a collaborare (il già citato Pierpaolo Grezzi, Alberto Oriolo, Massimo Catalano, Gaetano Stigliano, Pierangelo Camodeca, Roberto Tempone, Federico Celano e Roberto Palladino) sono stati impegnati a suonare anche chitarre, mandolino, violino, flauto, fisarmonica, percussioni, oltre che vari tipici strumenti etnici.

Ne deriva, insomma, un connubio intrigante di mondi musicali diversi, legati però in maniera indissolubile fra loro a plasmare un mood cangiante ma invero rappresentativo in toto dell’animo dei suoi autori.

La title-track ha il compito di accompagnarci in questo lungo viaggio caratterizzato da diciotto tappe, ed è paradigmatica dell’essenza della Basilicata, terra che può solo essere “camminata” – magari in modo lento e circospetto – per farsi infine trovare; più vivace la successiva “Croce e corna”, dove vengono cantate le tante sfaccettature delle credenze meridionali, mentre con “Arriva arriva” ci imbattiamo nel primo piccolo capolavoro del disco, in un brano ispirato a un’antica preghiera a San Biagio.

“Diceme sì” è un’altra canzone che non può lasciare indifferenti, col suo carico di pathos dato dal Coro Vjeshi i Shën Paljit: l’amore che si canta in tutte le lingue del mondo, in questo caso l’antica lingua Arbëreshë, retaggio culturale dell’insediamento albanese di cinque secoli prima.

L’amore rimane protagonista assoluto anche nella struggente “Senza filtri nè magia”, ballata intrisa di misticismo, e sfocia in un emblematico pezzo identitario come “‘A voce e sti briganti”, forte di un ritornello ficcante e carico di significati: “Simmë diavëlë e ssimmë santë, simme a vosë ‘e tuttë quantë, Simmë diavëlë e ssimmë santë, simme a vosë ‘e sti bbrigante, Simmë diavëlë e ssimmë santë, simme a vose ‘e tuttë quantë , Simmë diavëlë e ssimmë santë, peccatore comma’a ttantë”.

“Masciara masciarella” è una storia che, trattando di magia, affonda quindi le sue radici nell’anima più profonda del sud, che resiste e arriva ai giorni nostri; stessa valenza etno-culturale la possiamo attribuire ad altri felici episodi, quali l’onirica ballata “Tu sì tu”, la spirituale “Nera”, dedicata alla Madonna di Viggiano, in cui spicca il canto intenso e appassionato di Unaderosa, e la placida “Acqua cheta”.

Altrove invece riaffiorano sentimenti come il rispetto e l’orgoglio, per la propria storia e per la gente che ha contribuito a scriverla, come nel caso dell’incalzante “Eran’ nove”, introdotta dal canto di Rosmy, di “L’eroe di Melfi” o di “Stupore d’o munn’”, sincera ed emozionante ode a Federico II di Svezia, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero.

Colpiscono infine altri passaggi cardini dell’opera, dove i Renanera, sempre ricorrendo a musiche suggestive e sognanti e a un canto ammaliante in grado di suggellare magiche atmosfere, ci guidano, portandoci per mano, attraverso luoghi simbolo (e dell’anima) dell’amata terra lucana: da “Ponte alla luna” alla delicata “Se parti tu”, dove echeggiano i famosi Sassi di Matera, fino alla conclusiva e frenetica “Ballano i calanchi”, che segna il nostro punto d’arrivo.

E’ stato bello ragazzi avventurarsi con voi, perdersi e ritrovarsi, attraverso canzoni simili, che nobilitano il concetto stesso di questa Arte, perchè sanno non solo intrattenere e far sognare, ma anche stimolare la curiosità e la sete di conoscenza, e, cosa ancora più importante, perpetrare la memoria, intessendola nel presente. Perchè alla fine, ciò che siamo ora, i valori che ci portiamo dietro, hanno radici lontane che non devono mai essere recise.

Intervista a Eleonora Bordonaro,tra le cantautrici più interessanti emerse nel 2020 con il suo album “Moviti ferma”

L’artista siciliana Eleonora Bordonaro si sta imponendo come una delle più talentuose e versatili cantautrici impegnate in una proposta che, partendo da un apparato folk si sta via via contaminando brillantemente lungo il percorso.

La sua ultima prova discografica “Moviti ferma” le è valsa quest’anno l’entrata tra i cinque finalisti in lizza per le prestigiose Targhe Tenco nella categoria “Miglior album in dialetto”.

Un riconoscimento certamente importante a coronamento di una carriera che, muovendosi su più fronti, ne sta mettendo in luce l’indubbio valore.

La cantautrice siciliana Eleonora Bordonaro in un intenso primo piano – credit foto: Julia Martins Miranda

Da tempo avevo intenzione di dedicarle il giusto spazio nel mio blog e finalmente l’occasione è arrivata. Durante la nostra telefonata, Eleonora ha tratteggiato al meglio la sua vicenda umana e artistica, aprendosi su tante tematiche al di là di un discorso prettamente musicale.

“Ciao Eleonora, scusa se ti ho fatto attendere, come stai?”

“Ciao Gianni, bene grazie. Figurati, ero qui con degli amici percussionisti di “Sambazita”, una scuola di percussioni brasiliane, potrei mandarti una foto di loro che provano, per ricrearti l’atmosfera in cui mi trovo!”

“Ottimo, ancora meglio, è una bella colonna sonora per la nostra chiacchierata…”

“Non hanno ancora cominciato, quando lo faranno, succederà l’inferno!”.

“Inizio io allora parlandoti di questo tuo disco, Moviti ferma”, uscito ormai diversi mesi fa e che ad ogni ascolto è in grado di regalare sorprese ed emozioni. Volevo chiederti da dove è partita la scintilla che ti ha fatto approdare a questo lavoro, che è ricchissimo di suggestioni, di immagini, oltre che di significative collaborazioni… Quando hai capito che volevi realizzare un album “proprio così”?”

“La scintilla è partita dalla ricerca di quella sensazione di disperata necessità di creare arte, di vivere con fantasia l’arte. Nel senso che lavoro da anni nel mondo dello spettacolo, sotto tanti punti di vista, e mi è capitato di vedere che in situazioni istituzionali o relativamente comode, la spinta alla necessità artistica in qualche modo si perde, diventa un’altra cosa, un po’ si annacqua. Quindi dentro di me sentivo montare questa specie di disagio e cercavo di capire perché, finchè mi è stato più chiaro capire cos’era che mi ha fatto venire questa spinta e in pratica lo riconducevo all’ambiente che frequentavo, l’aria che c’era a Catania in quel periodo”.

“Nonostante la Sicilia e proprio Catania da dove vieni sia un ambiente molto ricettivo per l’arte rispetto ad altre zone d’Italia…”

“Molto ricettivo, sicuramente, ma io poi sentii l’esigenza di fare altre esperienze. Me ne sono andata quindi vent’anni fa e ho girato varie città in Italia, finché mi è venuta una sorta di nostalgia per la leggerezza con cui nella mia città creavamo vicende artistiche senza accorgersi neanche fino in fondo forse di quello che stavamo facendo… eppure stava accadendo!

Dunque quello che mi mancava in principio e che mi aveva messo in crisi era proprio quella forza istintiva, selvaggia, senza aver bisogno necessariamente di condizioni migliori per creare. Facevamo uno spettacolo senza pressioni ma solo perché “si deve fare” e se non ci saranno i soldi per i costumi li faremo lo stesso, e se non ci sono le luci, troveremo le soluzioni migliori alla bisogna, capisci che intendo? Cercavo quella cosa là, così immediata e così “violenta” che sicuramente colpisce il pubblico, che altrimenti è “addormentato” perché non vede una vera necessità nell’artista: questa cosa non lo potevo sopportare più, per come sono fatta io, preferisco di gran lunga, anzi, lo ritengo vitale, mantenere quell’approccio, quel modo magari scombinato, fantasioso, quelle esibizioni in situazioni particolari, ad esempio il cantare dal balcone della pescheria (questo da molto prima del covid, che per fortuna nemmeno sapevamo cosa fosse…).

L’idea era del tipo: “vediamo cosa succede, facciamolo e assistiamo alle reazioni”, quelle cose insomma istintive che vanno oltre la zona di conforto dove ci si sente protetti… E’ qui che io mi ci trovo, sembra un paradosso ma mi sento molto più comoda ad affrontare una cosa che mi mette a rischio, anziché trovarmi in un posto in cui la gente si aspetta delle cose e io gliele do’ in cambio in modo preciso; se devo affrontare un momento di emergenza in cui mi ritrovo sul palco da sola con la mia voce, per me va benissimo, perché quella cosa è nel mio “campo di battaglia” in cui io posso giocare e mi trovo strutturata in tal senso, più che in una situazione patinata, istituzionale”.

“Questa presumo sia prima di tutto una tua componente caratteriale, al di là dell’aspetto musicale: il saper gestire le situazioni meno previste…”

“Sì, mi ci trovo a meraviglia in simili contesti, poi ovviamente anche a me viene l’ansia, sono una perfezionista maniacale in altri aspetti del lavoro, stresso i musicisti, il booklet deve essere impeccabile, le foto pure: come a dire, c’è anche tutto l’altro versante da considerare e capisco che l’arte tenga conto di altro ma non deve mancare la parte istintiva, la “scintilla” appunto da cui far partire le cose”.

Il suggestivo video di “Moviti ferma”, diretto da Giovanni Tomaselli

“Ecco, Eleonora, una cosa che mi ha colpito leggendo il libretto (che in effetti è molto curato, con tutte le note, le traduzioni dei testi per chi come il sottoscritto non è siciliano) è che tu parli di collettività, un concetto che ho riscontrato anche in altri artisti di recente, quel bisogno di ricreare una comunità dove l’individuo possa esprimersi al meglio e che ci sia come una sorta di “mutuo aiuto”.

Anche tu fai riferimento a questo e la cosa si riflette nel tuo disco dove hai raccolto tanti elementi di spicco della musica siciliana ma non solo. E’ un bisogno che sentivi tu, ti è venuto naturale un approccio al disco di tipo “comunitario”, di gruppo, è un modo con cui tu concepisci la tua arte?”

“Dunque la mia arte io la concepisco come “collettiva” perché è stata coltivata nella collettività. Vengo da un’esperienza di teatro di strada che per me è stata importante, con un gruppo che si chiama Batarnù: ognuno con delle proprie peculiarità ma eravamo un gruppo ed eravamo “potenti”, scapestrati, fantasiosi, uniti e soprattutto istintivi, e quello è la culla della creatività, senza unione e scambio continuo la creatività non cresce.

E’ vero che il disco racconta storie individuabili e classificabili all’interno di un racconto che parla di una donna della mia età del Sud Italia, lo puoi facilmente ricondurre a una persona fisica, capisci che ci sono idee femminili e temi come la maternità, la sostenibilità, l’ecologia; ci sono una serie di argomenti che arrivano cioè da una persona singola, specifica, ma se tutti questi non sono sostenuti da una collettività non hanno nessun senso. E succede a maggiore ragione quando il tema è particolarmente delicato, quando ad esempio racconto della maternità, o della mancata maternità o del mancato desiderio di maternità e di che cosa vuol dire tutto questo, perché attorno a me ci sono tante persone che provano gli stessi sentimenti ma magari non hanno il coraggio di raccontarlo. Per quanto capisca che non sia facile parlare in una canzone di questo, ho voluto farlo, perché il tema sarà sì controverso da affrontare nella vita di tutti i giorni ma in fondo la creazione artistica ci viene in supporto e sublima tutto”.

“Il disco è molto apprezzabile e profondo nel suo complesso ma anche gli episodi presi singolarmente interessano molto, e prima facendo riferimento a “Ramu siccu” ripensandoci notavo che in quel caso hai utilizzato l’espediente poetico; il tema è bene a fuoco ma il testo assomiglia un po’ a una poesia”.

“Si, è vero ma in genere i miei testi non sono mai troppo espliciti, in questa canzone l’affidarmi a una metafora rende dolce un pensiero come che cosa pensate si possa fare con un pezzo di legno secco? Invece il testo nasconde tante cose e apre quegli spunti di riflessione cui accennavo prima”.

“Ramu siccu” è uno dei brani più rappresentativi del disco

“È molto evocativa in effetti questa immagine, poi in generale già il titolo dell’opera porta con se’ un’ambivalenza che è la stessa che emerge più volte tra i solchi del disco, e che possiamo associare in parte alla stessa Sicilia, una Regione che personalmente porto nel cuore, Terra piena di bellezza e di contraddizioni. Tu, pur non calcando la mano su certe situazioni e aspetti specifici sei riuscita ugualmente a trasmettere il senso di una Terra che vuole lottare e andare avanti, soprattutto raccontandocelo dal punto di vista femminile e lo hai fatto inoltre attingendo a diversi mondi musicali. Come hai coinvolto i vari ospiti in questo album? Sembrano proprio quelli “giusti” per far riversare nell’album le tante emozioni per un lavoro folk ma che presenta all’interno un’anima universale”.

“E’ stato come comporre un mosaico, ogni pezzettino aveva la sua enorme importanza e ha saputo colorare la relativa parte. Ogni mio brano comincia sostanzialmente dal testo, la musica di solito viene dopo, tranne che in un caso (che possiamo vedere come la classica eccezione che conferma la regola), il riff del giro di basso di “Moviti ferma”. Le parole vengono poi rivestite col giusto tono, l’andamento determina lo stile musicale che finisce quindi per rappresentare fedelmente il testo.

Ad esempio “Cunurtato”, che è una specie di reggae e in siciliano vuol dire coccolato, si dice di un bambino che viene cullato, e il reggae per me ha quell’andamento un po’ sensuale, dolce, che ti fa dormire ma ti tiene allo stesso tempo in attività, il reggae da sempre esercita molto fascino su di me”.

“Questo brano poi a primo ascolto mi colse proprio di sorpresa, per il suo stacco così evidente dagli altri che lo precedono. Penso sempre ci sia uno studio alla base di ogni scaletta, è così anche nel tuo caso?”

“Sì, è così, quella canzone si trova al posto giusto! Le sono molto legata, il testo vuole trasmettere un senso di conforto e quello te lo da’ il reggae, genere che ho ascoltato tanto, ci sono cresciuta ed è per me una naturale contaminazione che viene dai miei ascolti.  Come detto, le musiche variano a seconda dei temi trattati e delle atmosfere evocate dalle parole stesse. Nel già citato “Ramu siccu”, il versante musicale si adagia su una specie di elettronico trance rock molto vario, in cui gli arrangiamenti di Michele Musarra hanno aiutato molto a trasmettere proprio quello che avevo in mente e che già era connaturato in quegli episodi”.

Credit foto: La Flan

“A me ha colpito tanto anche il brano in cui hai coinvolto Agostino Tilotta. Ascolto molto indie rock e immagino che gli Uzeda a Catania siano un’istituzione, com’è stato lavorare con lui?”

“L’hai detto, lui è un personaggio enorme! Diciamo che per questo disco ho avuto due shock artistici se possiamo definirli così ma in fondo è proprio come mi sono sentita. Il primo è avvenuto per Cesare Basile (che è intervenuto suonando chitarra e percussioni in “Tridici maneri ri farisi munnu”, di cui ha anche curato l’arrangiamento), il secondo proprio per Agostino Tilotta.

Sai, sono stati due incontri che mi hanno anche aiutato a pormi in modo diverso, aprendo uno spiraglio su qualcosa che sono anch’io e che non sapevo di essere. In genere sono abbastanza guascona, non mi spaventa nulla, canto in tutte le tonalità e mi butto nelle cose, ma mi sono come “bloccata” quando ho incontrato quelli che sono anche dei miei miti! Ho dovuto ripensarmi e c’ho messo un po’ in effetti per ritrovarmi.

“Menza spogghia” è nata da un testo di Gaspare Balsamo (che introduce in modo suggestivo il brano), c’è lui che racconta una scena; avevamo dato il testo ad Agostino e Gaspare nel frattempo aveva inventato un pezzetto della melodia centrale. In pratica Agostino aveva solo quello, si è fatto lui il film della canzone, l’idea era di lavorare in studio tutti insieme per vedere cosa ne sarebbe uscito. Lui è arrivato, si è seduto con la sua chitarra acustica – Michele stava montando i microfoni – e si è messo a suonare, al ché mi sono ritrovata a piangere dall’emozione, credo proprio lui non se ne sia accorto e magari lo scoprirà soltanto adesso. Era del tipo “wow! Che mi sta succedendo?”. Quel giro di chitarra era così emozionante, se l’era inventato e costruito per me e per il mio disco, ed era già così “perfetto” per quella cosa che dovevamo raccontare. Anche il brano con Cesare è molto suggestivo e significativo, su una melodia di Puccio Castrogiovanni: sono così onorata che abbiano collaborato con me”.

“Mi sembra una figura molto importante fra gli altri anche Puccio Castrogiovanni, no?”

“Certamente, lui si occupa della direzione artistica, lavoriamo insieme e siamo molto affiatati. E’ sempre così visionario e pratico insieme, ha delle visioni e le mette in pratica, letteralmente; io ho intuizioni, illuminazioni ma sono anche autodistruttiva, dico potremmo fare quella cosa là e un attimo dopo si però verrà malissimo, sarà un fallimento, e lui invece tranquillo mi risponde: ma no, prendiamolo e iniziamo a lavorarci e poi finalmente vediamo che riscontro hanno nella realtà. E’ un po’ il mio contraltare artistico”.

“Tornando alla scaletta, e ribadendo quanto sia “magico” per me un pezzo come “Tridici maneri ri farisi munnu” (scritto dal poeta Biagio Guerrera), noto come siano ben bilanciati momenti in cui l’aria si fa più greve, quando racconti determinate situazioni, e altri in cui pervade un maggior senso di leggerezza: direi che i due poli ci stanno benissimo nell’album. Mi viene in mente ad esempio un brano come “Picchiu pacchiu”, una canzone deliziosa che segue un certo filone e mostra un’altra faccia rispetto a quei pezzi più intimi e chiaroscurali. Cosa mi puoi raccontare in merito?”

“Picchiu pacchiu” rappresenta la mia parte teatrale, ed è nata da un testo geniale di Carmelo Chiaramonte, che è uno chef. La mia idea alla base era di raccontare un mondo riferimento, scandagliando quel particolare humus creativo che vedevo attorno a me in questo momento, in questi anni a Catania, coinvolgendo quelle persone la cui creatività sentivo simile alla mia. Volevo assolutamente scambiare delle cose con loro: se ci pensi i vari Giovanni Calcagno, Marinella Fiume, sono tutte personalità pazzesche!

A ognuno avevo chiesto di interpretare un tema, a Carmelo nella fattispecie una ricetta, ma lui è andato molto oltre, avendomi addirittura costruito attorno una storia dove sembro proprio io la protagonista, se si facesse un videoclip potrei benissimo essere io a interpretare la scena, anzi mi vedo con la vestaglia allacciata davanti che va al mercato e poi torna a casa e cucina: sono “dentro” a quella cosa, è come dicevo la mia parte teatrale che riemerge prepotente, come nel primo disco dove interpretavo un personaggio”.

“Questo brano mi ha colpito molto, perché a differenza di quelli dove sei meno diretta, qui invece attraverso le parole di Carmelo ti si disegna davanti la scena e lo stesso effetto me lo fa “A merca”: questo particolare aspetto del disco me lo rende vitale, in quanto non c’è un’unica direzione né a livello musicale né di atmosfera del pezzo o nei testi, cosicché ogni traccia acquista la sua importanza nel contesto generale.

Eppure, al di là di un racconto molto immediato, nell’introduzione di “A merca”, il cui ascolto è appunto lineare, tu hai dato un significato molto importante: l’aver coraggio di osare fin da quando si è bambini. Anche qui ricorri alla metafora affidandoti a un ricordo preciso?”

“Qualche tempo fa avevo assistito a una di quelle short talks, delle brevi conferenze a tema scientifico, nella quale una donna ricordava di essere coraggiose piuttosto che perfette, e io l’ho trovata una frase illuminante, ho ricostruito la mia vita, ricordando un episodio a cui avevo pensato ripetutamente nel corso di questi venti anni. Avevo vissuto sulla mia pelle quella cosa, capivo a che si riferisse. La paura delle sfide era un tema ancora attuale, era “vero” ma perché? La risposta è che il mio ideale inculcato di donna è “essere perfetta”, perchè altrimenti subisci delle implicazioni, estremizzando sei portata a pensare che se non rispondi a certi canoni ti vogliano meno bene, sei meno amata, sei dileggiata, una serie di stati d’animo che i miei amici maschi non hanno mai provato”.

“Mah, forse in misura minore ma credo riguardi anche i maschi…”

“Non so, probabilmente aprirò dei dibattiti quando presenterò spero a breve le mie canzoni sui palchi, magari le mie saranno tesi se vuoi semplici o bizzarre ma penso davvero che le donne sono cresciute con l’idea di essere perfette, mentre gli uomini sono “addestrati” per essere coraggiosi. Poi gente come Puccio o Biagio Guerrera, due compagni “di cuore”, persone molto vicine (quindi parlo di un’umanità non troppo lontana da me), sostengono che questa tesi sia applicabile in genere alle persone e non solo alle donne”.

“Sinceramente lo credo anch’io, specie nella società attuale. Vent’anni fa magari no ma al giorno d’oggi i quindicenni, parlo dei maschi, sentono eccome il peso di essere perfetti. Ho insegnato anni fa in una classe di adolescenti e già si vedeva un cambiamento culturale, quindi concordo con i tuoi compagni musicali”

“Forse perché anche tu tendenzialmente sei un artista, e quindi ci può essere una sensibilità diversa, invece nel maschio tipico questa cosa non l’ho mai riscontrata. Proprio il protagonista del racconto di “A merca” in fondo viene incontro alla mia tesi. Lui è un mio vecchio amico, ora fa l’avvocato, e dice che con quel brano l’ho inchiodato alla sua vera natura, si è rivisto in ciò che ho scritto e che volevo trasmettere. Dice anzi che le sfide lo accendono, e parole sue: “io vivo solo se sono coraggioso”. Non ne avevamo più parlato di quell’episodio ma è stato un attimo rivivere quei momenti, ci siamo subito capito, sapevamo entrambi a cosa si riferisse quella canzone”

Io con la mia copia di “Moviti ferma”, il bellissimo album di Eleonora Bordonaro

“Parlami ora dell’importanza del dialetto siciliano nelle tue canzoni, che a mio avviso dona autenticità e fascino al tutto. Come ti sei avvicinata al suo utilizzo in ambito artistico?”

“Una cosa che mi contraddistingue e che ho sempre voluto portare avanti è con quale dialetto esprimermi? e la risposta che mi sono data è che nelle mie canzoni io avrei utilizzato il siciliano “vero” e di questo, lo ammetto, ne vado abbastanza fiera. La mia attenzione infatti è per il siciliano parlato normalmente, nella vita di tutti i giorni, non un siciliano “italianizzato”, edulcorato; magari può essere un limite ma se devo farlo per amore della lingua, non ha senso che io volendola diffondere lo faccia in modo sbagliato”

“Questo è un punto di contatto che riscontro in altri artisti che si esprimono in dialetto, sono d’accordo che dev’essere come dici tu: verace, autentico, se vogliamo tramandare qualcosa di reale”

“Assolutamente, quello che propongo è il dialetto che parlava mia nonna, è un dialetto degli anni ‘60 e ’70, mi interessa trasmettere qualcosa che ci riguardi più da vicino, senza timore di guardare al passato”.

“Nell’album fai ricorso anche a un dialetto ancora più particolare, il Gallo Italico, in un brano come “I dijevu di Vurchean”,che assieme a “Omu a mari” (dove intervengono i Lautari, nda) rappresenta un’escursione letteraria. Non conoscevo questo dialetto, è così rilevante nella tua zone?”

“In realtà non è preminente affatto nella mia zona d’origine, ma nelle mie “perversioni” sì… è parlato solo da una piccola comunità di 3000 abitanti, San Fratello, e deriva da quei soldati che ai tempi della dominazione normanna arrivarono qui dal Nord Italia, quindi semplificando è indicato come il Lombardo di Sicilia”.

“Un po’ come il Cimbro dalle mie parti, che ha ascendenze totalmente diverse rispetto al veneto”

“Sì, sono quelle storie che mi affascinano enormemente, questa gente ha mantenuto inalterata nei secoli la propria lingua, si capiscono solo tra loro, a 15 km da lì non li comprende più nessuno e per me questa cosa è pazzesca: come si fa a essere così contaminati e allo stesso tempo così isolati e caparbi nel mantenere una propria identità? E poi è una lingua veramente poetica, possiede un suono speciale del quale i sanfratellani hanno sempre sottovalutato la potenzialità. Una lingua in cui le note si appoggiano sulle vocali, e ciò la rende musicale, in fondo anche l’inglese è così e di questo “limite” ne ha fatto la sua forza espressiva”.

“A livello musicale quel brano è altrettanto intrigante, visto che riprende la melodia di un classico del repertorio di Bahia del musicista Paulinho Do Reco, in questo caso come ti è venuta la suggestione?”

“Beh, un altro dei miei amori è per la musica brasiliana, che è in qualche modo la voce del popolo ma parla al cielo, ha con sé una visione trascendente, la versione di Bahia poi si usa nel Carnevale e parla degli Orisha, della divinità, ma racconta allo stesso modo la bellezza della razza nera, degli afro discendenti brasiliani e del loro orgoglio”.

“E quindi hai associato queste caratteristiche alla comunità di San Fratello che si esprime ancora in Gallo Italico, è corretto fare un parallelismo in questo senso?”

“Esattamente, quel testo parlava dei ricchi, che hanno benefici anche se vedono i poveri soffrire, ma si dice che arriveranno prima o poi i diavoli dall’Isola di Vulcano e… infine li prenderanno a mazzate! Che poi quella cittadina si trova di fronte all’isola di Vulcano, nelle Eolie, e chissà loro anticamente cosa immaginavano, che vedevano al di là del mare”.

“Veniamo ora a un altro aspetto, quello della vocalità, che soprattutto nel tuo genere di riferimento che, per quanto sia difficile definirlo, potremmo inquadrare nella world music, diviene fondamentale. La voce infatti diventa essa stessa strumento nei dischi di questa matrice, e l’interprete non soltanto deve mettere la fisicità nei live ma proprio sfruttare al massimo la forza espressiva, l’intonazione: quando hai scoperto che la tua voce sarebbe diventata un mezzo, uno strumento? Quando hai compreso di possedere un talento?”

“In realtà molto presto, direi da quando avevo 2 anni e mi veniva naturale cantare, tanto che dividevo il mondo in chi conosce le parole di una canzone e chi no, cioè quella era per me la discriminante per chi volesse cantare o meno. L’unico ostacolo nel mio pensiero da bambina poteva essere quello: il non conoscere le parole. A 11/12 anni mi hanno detto “tu hai una voce” ma non ne ero ancora del tutto consapevole, anche se poi ricostruendo la mia storia e andando a ritroso nel tempo, è vero che durante le recite facevano cantare sempre me, da sola, non in coro e la canzone la cantavo tutta dall’inizio alla fine ma non sapevo certo di avere un particolare talento rispetto ad altri. Solo molto più tardi ho capito che avevo una peculiarità, ma non ho studiato musica (mi sono laureata in giurisprudenza, per dire), il fatto di fare qualcosa di importante in questo campo lo escludevo proprio dalla mia vita”.

“Però immagino tu avessi già un bagaglio musicale, una tua gamma di ascolti preferiti, prima mi parlavi della passione per il reggae o per la musica brasiliana”

“Sì, se per quello cantavo già in alcuni gruppi e mi cimentavo in alcuni spettacoli, mi esibivo nelle feste di piazza ma nulla che potesse farmi presupporre un mio personale percorso artistico”.

Credit foto: La Flan

“Non pensavi quindi che vent’anni dopo ti saresti trovata finalista al Premio Tenco e intervistata da Gianni Gardon?” (scherzo)

“No, in effetti no, ah ah. Davvero, il fatto di scrivere lo avevo escluso, pensavo che al massimo sarei stata un’interprete di canzoni che esistevano già ma anche come cantante in quei primi tentativi non avevo un genere preciso: cantavo di tutto, da Aretha Franklin agli Skunk Anansie, riuscivo a interpretare perfettamente Tracy Chapman, una dei miei grandi amori! Mi ricordo un mio regalo di Natale di nonna: mi diedi i soldi e andai al negozio a comprarmi la cassetta… disse che non era un regalo “utile” ma era una cosa preziosa che mi faceva stare bene! All’epoca la musica iniziava a insinuarsi sotto pelle, tornavo da scuola, mia mamma magari era ancora al lavoro e io mentre riscaldavo il pasto cantavo e cantavo, cercando le canzoni più difficili e pensavo in un primo momento di non farcela, finché invece poi riuscivo dopo qualche tentativo a riprodurre tutto. Poi è arrivata Rachelle Ferrell e lì è cambiato tutto, la voce diventava la vera protagonista: rappresentava la piena libertà, secondo ovviamente le possibilità anatomiche di ognuno”.

“Quindi a un certo punto i tuoi modelli di ispirazione hanno iniziato a delinearsi, quelli che potevano rispecchiare la tua musicalità. Quando è avvenuto il tuo passaggio in territori world? Quando ti sei specializzata in certi ambiti, che poi ti hanno condotto verso una strada più personale?”

“Mi sono specializzata, o meglio diciamo che sono entrata direttamente in contatto con la musica world nell’Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, lì davvero ho scoperto quanto mi venisse naturale cantare in siciliano, senza con questo dover necessariamente seguire gli stilemi tramandati e fatti propri da Rosa Balistreri, la cui musica è stata un privilegio ma allo stesso tempo un limite per chi si affacciava come me alla musica cantata in dialetto. Non avendo molti riferimenti culturali in tal senso, se non quello, praticamente da noi tutti quelli che si avvicinano a questo mondo cercano di emularne la voce e il particolare cantato, ma Rosa Balistreri era autentica e ha cercato e si è costruito il suo modo di cantare perché poteva essere solo quello, l’unico che potesse rappresentarla nella sua sofferenza: aveva quell’emissione, quella carica, quella potenzialità, ruvidità, brillantezza, tutte componenti importanti che lei trasmetteva in maniera spontanea. Le stesse peculiarità esercitate pari pari da noi donne di quest’epoca cresciute in un mondo “borghese” non rendono bene. Anzi, volendo riproporne a forza lo stile, diventa una mera imitazione e tutto ciò lo considero francamente ridicolo”.

“E’ una cosa che ho notato anche in altre Regioni d’Italia, come ad esempio in Puglia, Terra d’origine di mia moglie; anche lì si è in presenza di una vasta tradizione culturale che ricorre all’uso dei vari dialetti ma da parte dei nuovi interpreti si nota un’esigenza quasi di trovare una propria chiave personale a livello meramente interpretativo, senza scimmiottare i grandi del passato, pur rifacendosi inevitabilmente alla tradizione (sennò nemmeno si chiamerebbe “musica popolare”). Credo sia opportuno, e lo dico da amante delle canzoni in dialetto, che ognuno trovi una strada, contaminando la propria musica come hai fatto tu in questo disco”

“Grazie delle tue parole, nel mio caso ho lavorato anche sulla pronuncia, sull’enunciazione di certe parole, poiché in genere la pronuncia siciliana è spesso cupa, gutturale, intensa ma molto chiusa. Io reputo sia importante assecondare l’intensità dell’emissione della parola in base al suo significato. Forzare una pronuncia, calcandola, per assomigliare a qualcos’altro, per me non era una cosa divertente. Così, se tu ascolti una canzone come “Picchiu pacchiu, intono un siciliano che sembra brasiliano, alle parole do’ un suono più leggero, mai forzato. Almeno speravo di fare questo, non so se in effetti ci sono riuscita”

“Beh, io non sono propriamente di madrelingua ma sento una vocalità per nulla pesante, anzi, a tratti direi che è molto dolce”

“Sì, può essere dolce ma anche disperata, basta che si adatti al tema, all’atmosfera di un determinato momento del racconto, non è più insomma quella cosa gutturale, di petto, che sono poi le riproposizioni uguali allo stile tradizionale. Il mio è un tentativo che ho introdotto in questo album, quello vorrei fare e spero sia così in futuro”.

“Ecco, mi dai il gancio per un’ultima domanda, che vorrei riguardasse il futuro ma che inevitabilmente mai come in questo 2020 è prima di tutto condizionato dal presente. Questo progetto per forza di cosa è stato stoppato sul nascere e mi auguro di cuore che riuscirai a esibirti presto. Quanto ti manca il non aver portato in giro questo lavoro così ricco? Hai nel frattempo messo in circolo altre idee? Cosa vedi a livello artistico nella tua sfera di cristallo?

“Eh, un titolo più premonitore di “Moviti ferma” (che ricordiamo significa “resta ferma”) non avrei potuto trovarlo, visto che è uscito un giorno prima del lockdown generale! Scherzi a parte, dentro di me questo lavoro deve essere ancora vissuto, consumato ed elaborato fino in fondo, sento che ha ancora tanto da trasmettere agli altri e anche a me stessa. C’è un percorso da fare, devo poter raccogliere delle cose che al momento non posso ancora prevedere. Non sono stata molto creativa in questo periodo, ci sono delle fasi quando scrivo, quella dell’incubazione e della restituzione che passa attraverso la produzione, la realizzazione delle idee. Non sono ancora pronta a far ripartire il ciclo creativo ma in realtà c’è un’ idea che mi balena per la testa da quando ho accolto con entusiasmo un’altra grande suggestione di Puccio Castrogiovanni.

Credit foto: Paolo Benegiamo

Siamo in pratica a un bivio, avevamo due scelte dopo che l’album era arrivato in finale al Tenco: o aprirsi alla lingua italiana, qualcosa di più pop, oppure calcare la mano su questioni prettamente artistiche, e siamo concordi che la strada da intraprendere sia quella di osare di più, magari coltivando ancora maggiormente l’utilizzo del Gallo Italico”.

“Il Gallo Italico ha colpito tanto anche me, il brano in questione si stagliava veramente dal resto della scaletta e direi che dedicare un intero progetto a questa lingua così misteriosa e ricca di storia potrebbe rivelarsi una carta vincente e particolare”

“Per me è importante continuare a esplorare nuovi territori, nuove soluzioni, devo sentirmi viva quando scrivo e creo arte. Quando ascolto il Gallo Italico mi giungono sensazioni forti, variegate, e la sfida è poi quella di riuscire a riversarle intatte in un album. Spero che per l’ascoltatore sia emozionante, energico, toccante, e per questo vorrei che i miei lavori arrivassero a più persone possibili”.

“Il tuo disco doveva rimanere fermo, invece è arrivato eccome a parte della critica…”

“E’ vero ciò che dici, il disco si è mosso! Mentre io me ne stavo ferma a casa di mia madre, sull’Etna a guardare le montagne o facevo yoga, lui ha fatto il percorso che doveva fare ma adesso quella strada dobbiamo percorrerla insieme, io con il mio disco devo andare nei teatri e farlo suonare, renderlo vivo più che mai, perché la mia dimensione è il live. Ho fatto finora due dischi di cui sono felicissima e orgogliosa ma il palco è il luogo dove succedono un sacco di cose, dove mi esprimo al meglio, chiacchiero, sono protetta, è la parte di vita in cui sono sicura che non può succedermi niente, è come se avessi tutto sotto controllo, mentre evidentemente sul palco non hai proprio niente sotto controllo!”.

“Beh, è una cosa tua quella lì, ormai l’ho capito!”

“So che sembra assurdo infatti, ma proprio lì dove succede ogni imprevisto (si spegne una spia, manca la luce, mi scappa uno starnuto, insomma di tutto e di più), io mi sento come dire… “invincibile” e questo lo vedo perché prima di tutto mi diverto. A maggior ragione dopo che ho trovato la mia lingua, il siciliano, e con esso un contenuto, perché finchè cantavo le canzoni di Aretha o della Ferrell, sì, volevo bene alla mia voce e mi piaceva l’energia che ne veniva fuori, ma in fondo non ci credevo perché mi mancava un pezzo, e quel pezzo è il contenuto, la mia storia. Prima cantavo quelle stesse cose che avrebbero potuto essere interpretate da altri, adesso che finalmente sto trovando la mia strada e canto le mie cose, è tutta un’altra storia!”

“E io direi che di contenuti ne hai parecchi e sono contento di averli sentiti dalla tua voce”

“Grazie Gianni, a te”

Il consiglio mio, cari lettori, è quello di abbandonarsi alla musica di questa artista, così multiforme e affascinante, perché potrete rimanerne letteralmente conquistati.

I Fratelli Mancuso con “Manzamà” firmano un album di spessore, profondo ed emozionante

Mancavano all’appello da un po’ di tempo, almeno da un punto di vista discografico, i fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso, alfieri di una musica che affonda le sue radici in quel vasto universo “popolare” di suoni, storie e suggestioni, ereditate e fatte mirabilmente proprie dalla loro amata terra natìa Sicilia.

Foto di proprietà di Enzo e Lorenzo Mancuso

“Manzamà” (che significa “Non sia mai”) è il successore di “Requiem”, uscito dieci e passa anni prima, ma nel frattempo i Nostri hanno tenuto viva la propria arte, fatta di felici commistioni tra musica e teatro, senza disdegnare felici incursioni in quel mondo cinematografico che ben presto ha saputo denotare delle notevoli potenzialità nelle loro canzoni, simili a un caleidoscopio di colori e sonorità avvolgenti, antiche, struggenti.

Lunghissima e ricca di soddisfazioni è la carriera dei due fratelli che, armati di speranza e tanta motivazione, emigrarono in Inghilterra a metà degli anni settanta, dove – oltre a lavorare nelle fabbriche – entrarono in contatto con il variegato e tumultuoso humus di quel periodo storico, le cui istanze sociali si stavano ben delineando; il tutto filtrato da una tendenza per l’arte sempre spiccata e all’avanguardia da quelle parti.

Il richiamo della propria terra d’origine si era nel frattempo rinforzato e innaffiato di studi e applicazione, con un talento per gli strumenti dell’apparato folk che stava emergendo a piene mani, tanto da farne due validi polistrumentisti, in possesso inoltre di doti compositive (e interpretative) non indifferenti.

Altra terra d’adozione nel loro caso è stata la Spagna con l’incontro provvidenziale con il musicista Joaquin Diaz, il quale rimase folgorato dalle capacità dei Nostri, che in quel momento si stavano esibendo in Castiglia a Soria nell’ambito di un convegno di etnologia e folklore. Ottennero così un contratto discografico e la possibilità di esordire con “Nesci Maria”, dando il via nel 1986 a un percorso che si dipanerà poi finalmente nella nostra Penisola, senza tuttavia mai recidere il fortunato legame con la Spagna.

I primi fragorosi riscontri giunsero però nella seconda metà degli anni novanta con “Bella Maria”, grazie anche al fatto che il regista Anthony Minghella (altra personalità di rilievo che si innamorò artisticamente di loro) scelse di attingere a quel lavoro per il suo film di successo “Il talento di Mr. Ripley”.

Credit Foto: Giancarlo Ferlito

Nelle canzoni dei Fratelli Mancuso non solo è fortissima una componente narrativa che va a esplorare un vissuto fatto di emigrazione, dolore, nostalgia, e delle molteplici esperienze che la vita sa offrire, ma essa va a braccetto nel migliore dei modi con una ricerca e uno studio degli aspetti musicali sempre rinnovati e portati avanti con grande perizia.

Non è da meno questo nuovo lavoro, realizzato insieme alla 802 Records, per il quale i Mancuso si sono avvalsi di preziose collaborazioni, dagli arrangiamenti (curati da Franco Battiato e Aldo Giordano) ai musicisti in studio, gente del calibro di Giovanni Sollima, Ferruccio Spinetti, German Diaz e altri ancora, ad adornare un tessuto sonoro divenuto infine raffinato, intenso e vibrante.

Una nota di merito va alla Squi(libri) Editori che, come da consuetudine, ha rivestito splendidamente la confezione dell’album, rendendo indispensabile la consultazione di un libretto in grado di valorizzare ulteriormente l’opera, dagli affascinanti dipinti di Beppe Stasi che corredano il tutto, alle parole dei testi, così pregnanti ed evocative (e ottimamente tradotte, che per chi come il sottoscritto non è siciliano, è un’occasione importante di comprendere al meglio ogni sfumatura verbale, in maniera da entrare ancora più a fondo tra i meandri del disco).

Al di là della scelta di rendere graficamente anche in italiano questi versi, c’è da ammettere comunque che l’utilizzo del dialetto siciliano è assolutamente più efficace in un contesto simile, oltre che maggiormente funzionale al genere di riferimento.

Ogni canzone, dall’iniziale “Lassami dormiri” alla title track, passando per la delicata “Li suonni”, ci giunge inalterata nella sua primordiale bellezza e come pervasa da antica magia, e da un senso di struggimento e calore che viene trasmesso con grande autenticità.

Brani come “Lacrima” (sorta di topos letterario disseminato anche altrove), “Ti canusciu firita” o la conclusiva “Cori miu” mettono in evidenza il grande spessore autoriale dei due protagonisti, che arrivano finanche a commuovere in un episodio come “Animi”, dove vengono messi in fila tanti nomi quanto sono stati purtroppo i morti dopo un’attraversata in mare, in uno dei viaggi della disperazione.

Un assaggio della splendida “Ti canusciu firita”

Anche la poetica “Un velu d’aria” assolve ottimamente il suo compito, emozionando l’ascoltatore con le sue carezze acustiche e un cantato viscerale e appassionato.

In altri momenti il versante musicale si arricchisce di nuove suggestioni, come in “Tu vidè ti nni va”, dove emerge la ghironda o nella già citata “Ti canusciu firita”, abbellita dalle dolci e toccanti note di pianoforte avvolte dal suono maestoso e intimo al tempo stesso degli archi. E’ questa la mia canzone preferita del disco, anche per gli intensi vocalizzi che fanno capolino nel finale, come accade nell’altrettanto magnetica “Rosa di carta”.

Diventa quasi pleonastico passare in rassegna l’intera scaletta, laddove bastano pochi episodi l’uno dietro l’altro a farci capire che siamo davanti a un lavoro composito, omogeneo, incentrato su temi esistenziali che partono dal cuore, che lì si sedimentano e si sviluppano per affrontare al meglio le incombenze della vita.

Mi viene da definirlo in primis un disco d’amore, seppure declinato nelle sue molteplici forme, portatore di significati diversi ma il cui linguaggio è sempre universale.

Io con il cd “Manzamà” dei Fratelli Mancuso

E’ illuminante per approcciarsi al meglio alla loro parabola artistica leggere le parole dei Fratelli Mancuso in quella toccante introduzione che arricchisce il packaging di “Manzamà”, tratta dal discorso che i due tennero in occasione del dottorato honoris causa loro conferito dall’Università di Messina lo scorso anno.

Descrivono infatti nel migliore dei modi la loro esperienza musicale che in questo caso va di pari passi con una ricerca culturale e storica, dove far confluire “come dentro a un vortice” fatti, storie e volti che messi insieme hanno contribuito a definirne il percorso umano e artistico.

E fra le pieghe di questo lavoro ricco di sfumature, che cresce ad ogni ascolto, è possibile vedere tradotto tutto ciò in potenti immagini e parole.

Teniamoci stretti artisti simili, facciamo nostre le loro storie, lasciamoci emozionare e trasportare in questo viaggio che attingendo dagli insegnamenti del passato ci può condurre nel futuro, dandoci delle solide ancore di salvezza.

Intervista a Sara Marini, finalista al Premio Tenco nella categoria Miglior Album in Dialetto con lo splendido “Torrendeadomo”

Sara Marini è indubbiamente una di quelle artiste in grado, con le sue canzoni, di trasmettere tanto della propria storia e del proprio io.

Ne ha dato una fragorosa conferma col suo recente lavoro,“Torrendeadomo”, in cui è riuscita a far emergere la sua anima, radicata tra l’Umbria e una Sardegna, quella amata dell’infanzia, pienamente ritrovata e qui a lungo omaggiata. Non solo, si tratta di un lavoro sì molto personale, intimo, in cui affiorano in superficie tematiche autobiografiche, ma al contempo contaminato e allestito in collaborazione con un gruppo di fidati musicisti e autori, tutti legati alla sua vicenda umana e artistica.

La Marini, senza sgomitare e armata del solo puro talento che emana placido dalla sua penna e dalle sue note, ma anche (soprattutto, verrebbe da aggiungere) dalla sua splendida voce, è riuscita a far issare il suo album fin quasi in cima in una rassegna prestigiosa come quella del Premio Tenco, che ogni anno assegna le Targhe ai migliori dischi dell’anno.

Lei, in gara tra le Opere in dialetto, è giunta tra i cinque finalisti, lasciando infine lo scettro a un gruppo che, senza timore di smentita, possiamo annoverare tra i mostri sacri della musica italiana, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, autori di un album onestamente notevole. Poco male, Sara si è fatta largo tra tantissimi lavori meritevoli provenienti dalle diverse aree geografiche italiane, evidenziando uno stile peculiare, pur tra tante differenti suggestioni e matrici. Canzoni indubbiamente popolari ma che, forse, più che appartenere alla vasta famiglia del folk, guardano ancora oltre, annoverandosi tra i solchi di un macro genere, che più che musicale, è associato a un’attitudine, a una visione, come quello della world music.

Foto di Gianfilippo Masserano

Avendo, da Giurato della Rassegna, segnalato il suo disco sin dalla prima turnazione, e poichè figura ormai tra i miei ascolti preferiti dell’ultimo periodo, avevo voglia di saperne di più dalle sue parole.

Contattata telefonicamente, Sara si è mostrata da subito disponibile e gentile, umile ma allo stesso tempo consapevole e sicura di ciò che vuole realizzare con la propria musica.

Ecco di seguito il resoconto nel dettaglio della nostra lunga chiacchierata.

“Ciao Sara, ci siamo già sentiti tramite i social, e mi fa molto piacere avere l’occasione di approfondire e sviscerare un po’ il tuo lavoro di artista, la tua esperienza. Intanto, inizio con l’arrogarmi il titolo di porta fortuna, visto che ti ho votata dall’inizio per le Targhe Tenco e sei arrivata tanto così dall’aggiudicartela, tra i cinque finalisti nella tua categoria!”

“Sì, è stato grandioso! Ti ringrazio davvero tanto”.

“Partirei proprio dal presente, e quindi riferendomi a quest’exploit del Tenco. Come l’hai vissuto, come lo stai vivendo e soprattutto cosa significa per te? Lo vedi come un riconoscimento del tuo lavoro?”

“Sì, diciamo che è stata una cosa inaspettata, in un momento abbastanza buio per noi artisti è stato un bel carburante, no? Anche perchè ero vicina veramente a dei mostri sacri della musica popolare italiana. Sono veramente soddisfatta di aver raggiunto questo obiettivo. Che posso dire? Non ci sono molte parole per spiegare, è una sensazione strana perchè veramente non me l’aspettavo. Per me questo disco è arrivato dall’anima, io alle cose grandi non ci penso mai, quindi quando arrivano è un po’ una doccia fredda, ma in questo caso, di quelle “rilassanti”, molto molto belle”.

“E’ un peccato che sia così difficile riuscire a suonare in giro: anche solo rimanendo alla dimensione del Premio Tenco, poteva essere un’ottima occasione magari quella di esibirsi lì, se non sul palco, su uno dei tanti spazi itineranti allestiti durante i giorni della Rassegna, non trovi?”

“Infatti, io praticamente non ho ancora avuto la possibilità di presentare come si deve il disco, perchè purtroppo una volta uscito, poi da lì a poco è esploso l’enorme problema legato al Covid. E’ stato molto strano, tanto che ci siamo fermati ancora prima di iniziare e solo adesso riprenderemo piano piano. Riparto da qui, dall’Umbria il 12 agosto con la prima presentazione che farò al Teatro Romano di Gubbio, in una location bellissima fra l’altro”.

“Quindi giochi in casa?”

“Proprio così e ne sono molto contenta, partire da qua è una cosa a cui tenevo… e poi sarò anche in Sardegna, perciò si può ben dire che parto dalle mie due origini. Meglio di così, per il momento che stiamo vivendo, non poteva andare. Il bisogno di lavorare c’è ma soprattutto la voglia di ripartire, di riconquistare un palco è proprio tanta, perchè per un musicista è come se ti mancasse l’aria”.

“E’ così per me anche da semplice spettatore, immagino che la sensazione sia ancora più forte per chi in prima persona è protagonista di uno spettacolo”

“Mi manca da spettatrice e anche da artista, in tutti i casi: io poi sono una che si alimenta molto con i concerti, mi piace molto la musica dal vivo, mi faccio attraversare da tante cose quando assisto a uno spettacolo, quindi mi manca quest’aspetto qua”.

“Tra l’altro un disco come il tuo dal vivo dovrebbe sprigionare davvero tanta emozione ed energia. Le canzoni già in studio sono notevoli, in ambito live come rendono?”

“C’è stato veramente un bellissimo lavoro in studio, perchè abbiamo cercato di dare un senso a tutto quello che abbiamo composto;  vale per tutte le persone che hanno composto i brani assieme a me, perchè io non sono autrice unica di tutti i pezzi, sono autrice della metà dei testi, mentre nell’altra metà mi sono avvalsa di collaborazioni importanti. Ho cercato di creare un sound corposo, multiforme”.

“Dal vivo avrai la band che ti ha accompagnato magnificamente in studio, il tuo pool di collaboratori?”

“Io cercherò di portare nel possibile tutta la band che ha partecipato alla realizzazione dell’album, però come tu sai non è così semplice suonare con la formazione al completo, specie in un periodo come questo. In questo caso, per la presentazione qui in Umbria saremo in sei, con special gust Monica Neri all’organetto, e saranno presenti pianoforti, chitarre… i musicisti con me sono per la maggior parte polistrumentisti, quindi in scena si sentiranno davvero tante sonorità vicine al disco”.

“Sarà un sound bello organico, mi stai dicendo?”

“Sì, assolutamente sì, perchè appunto siamo in sei e nel presentarlo la prima volta l’idea era quella di dare un’immagine fedele a quello che si ascolta sul disco, quel tipo di suono”.

“Un sound bellissimo, su cui torneremo più avanti. Adesso però andrei a monte, a quando ti eri messi alle prese con il seguito del tuo già interessante album d’esordio. Un album, quello nuovo da poco pubblicato, pieno di rimandi e di interventi sia in fase di scrittura (cito almeno tua zia Nicolina, che a mio avviso ha scritto, se mi posso sbilanciare, due tra le più belle canzoni del disco!). Ecco, tu avevi la percezione, mentre lo scrivevi, che stavi facendo un bel salto di qualità, un lavoro di un certo peso, al di là del piazzamento al Tenco? Ti rendevi conto di avere tra le mani un lavoro che ti identificava, partendo come fa da radici lontane (umbre, sarde)? Insomma, fai una sana autovalutazione! Che messaggio volevi mandare all’ascoltatore?”

“E’ una domanda difficile in realtà quella che mi stai facendo, perchè io sono una donna molto pratica, che non si crea molte aspettative nella vita, quindi questo disco è stato proprio un’esigenza mia e, ti dirò, sono stata nel cammino anche molto combattuta perchè mi capitava di pensare: “ma a chi interessa un lavoro autobiografico?”. La ricerca di queste mie radici è stata fortemente voluta per dare un senso alle problematiche che io ho vissuto tra questi due posti, perchè, in confidenza (visto che dicevi che vorresti sviscerare), i miei genitori si erano separati in un momento della mia vita molto particolare. Quindi mio padre era tornato in Sardegna, mia madre era rimasta in Umbria. Io con la Sardegna ho avuto un blackout di circa 10-15 anni in pratica”.

“Hai dovuto riscoprirla un po’?”

“Sì, perchè mi mancava proprio tanto. Fai conto che io per quindici anni stavo lì durante le estati per 3 o 4 mesi, poi andavo anche da sola, quindi la mia infanzia e in parte la mia adolescenza l’ho vissuta anche lì, nonostante io sia nata e abbia vissuto in Umbria. Sono state due Terre che allo stesso modo mi hanno accolto e che fanno parte di me. Io vivo queste due Regioni in modo molto viscerale per tanti aspetti. Per questo sono stata molto combattuta, perchè pensavo che non sarebbe interessato a nessuno una cosa del genere, così intima per certi versi, così mia. In realtà poi ho lasciato perdere questo pensiero e mi sono detta: “Senti, questa cosa, questo disco serve a me, per riscoprire certi luoghi e di conseguenza per riscoprirmi”. E’ un lavoro dove veramente ho raccontato attraverso la musica e le parole cosa significa per me appartenere a uno e a più luoghi, e diciamo che a un certo punto c’è stato un momento in cui mi sono fermata, pensando “cavoli, però, questi sono brani belli, i testi sono forti”. Mi sono infine autoconvinta che questi testi ce l’hanno una propria forza, ce l’hanno per me, per come li ho vissuti e per come li ho cercati. Ad esempio, hai nominato mia zia (lei non è una musicista, ma si diletta a scrivere anche in dialetto ed è davvero molto brava)… ecco, lei quando ha scritto il testo, io le avevo parlato di quelle sensazioni, delle emozioni che provavo ed è nata “Una rundine in sas aeras”.

“Un brano, come accennavo prima, a mio modo di vedere splendido, che apre il disco in maniera molto suggestiva e subito ti culla, sapendo creare quell’atmosfera così accogliente, nonostante il testo abbia poi anche altri significati. A seguire c’è poi “Terra rossa”, una sorta di tua rivendicazione, una canzone più “battuta” e che si avvicina a un certo tipo di folk, meno legato in apparenza alla Sardegna e all’Umbria”

“Lo hai ascoltato bene questo disco, mi fa piacere”.

“Certo, l’ho ascoltato benissimo e fa parte degli ascolti di queste ultime settimane, tanto che io analizzerei anche i singoli episodi, se non ci fosse il rischio di diventare un po’ pedante. Però se hai qualche considerazione da fare su una particolare canzone, sono qui pronto a raccogliere ogni cosa. Per esempio il tuo mi sembra un meticciato, molto vero, e sei riuscita a renderlo benissimo insieme a diversi collaboratori come ad esempio Claudia Fofi (con cui tu avevi già avuto ottime esperienze in tempi non sospetti). Tu come definiresti il tuo stile?”

“Tutti i musicisti che hanno collaborato con me a questo disco conoscono bene il mio percorso musicale, e mi hanno fatto riscoprire in alcuni casi delle emozioni nate da musiche adatte a me, a parte forse proprio “Terra rossa”, un brano di Claudia Fofi che avevo già cantato e che era stato inserito nel progetto “Le Core” ma che sentivo l’esigenza di inserire qui, perchè avevo la necessità di un pezzo che parlasse di una terra effettiva, rappresentando bene la Sardegna, la quale ha una parte di terra rossa e una parte di terra nera. Parla della voglia di non avere una sola radice insomma:“voglio essere senza radici”, canto a un certo punto”.

“Infatti, quella frase lì è molto forte, arriva diretta, e sembra quasi una contraddizione in termini anche se non lo è…”

“No, non lo è perchè è vero che sono radicata, ma di fatto sono radicata in due terre”.

“Ecco, il meticciato di cui ti chiedevo prima riflette musicalmente questa tua ambivalenza delle radici. Volendo lo si può catalogare nel macro genere del folk ma poi ascoltando “Torrendeadomo” (che significa appunto Ritorno a casa) ci si imbatte in brani che si collegano alla tradizione (la splendida “Pitzinna deo”), in dialetto sardo (l’intensa “Bentu Lentu”) altre in dialetto eugubino (“Solo ‘nna vita”); ci sono delle  filastrocche, delle canzoni in italiano e un irresistibile strumentale come “Già gioca”. E’ stata voluta questa cosa di “spiazzare” un po’ l’ascoltatore?”

“E’ stata voluta questa cosa, perchè la ricerca del sound non è stata casuale. Io credo comunque che il suono di questo disco sia omogeneo, a prescindere che poi ci siano canzoni magari in dialetto umbro e in dialetto sardo. C’è stato inoltre un lavoro di rilettura di queste filastrocche, con arrangiamenti molto particolari e utilizzando oltretutto degli strumenti che non siano tradizionali, anzi, io mi sono in un certo senso molto allontanata dall’utilizzo degli strumenti tradizionali, ricercando un sound che sia più attinente alla world music, che è quella che a me appartiene di più. Ho inserito così le percussioni mediterranee ad esempio in un brano come “Staccia minaccia”, oppure in “Solo ‘nna vita” ci ho messo i Krakeb marocchini e il Daf iraniano”.

“C’è a monte un grande studio e anche tutti questi strumenti particolari che vanno a impreziosire indubbiamente l’intero lavoro”

“Sì, è stato molto pensato e ricercato il suono, attraverso strumenti diversi ma che, anche grazie al contributo importante del percussionista Francesco Savoretti, alla fine è risultato omogeneo e riconoscibile. Lui, insieme a Goffredo Degli Esposti e a Paolo Ceccarelli hanno fatto un grande lavoro, ognuno col proprio strumento ha reso tutto molto caratteristico, anche se poi ti rendi conto che lo strumento principe è in ogni caso la chitarra. Una chitarra che può essere classica come acustica, e alla quale poi si aggiungono armonicamente il colore dell’organetto, il pianoforte di Lorenzo Cannelli, il basso di Franz Piombino, tutti insomma hanno contribuito alla riuscita del progetto”.

“Il pianoforte in effetti risalta molto nello strumentale (“Già gioca”), ti da’ quel giusto stacco laddove il brano potrebbe sembrare un classico strumentale come lo potresti trovare, chessò?, in un album di musica irlandese (che io adoro!). Invece il suono di quel pianoforte, che sorregge il tutto, lo definisce al meglio e finisce per caratterizzarlo, rendendolo molto originale”

“Sì, “Già gioca” è un brano di Goffredo che assomiglia a una tarantella, se lo vogliamo pensare alla maniera tradizionale; in realtà ha un sound molto moderno, per l’utilizzo appunto del pianoforte che si sposa bene anche con strumenti tradizionali come la zampogna e il tamburo a cornice, però lì c’è proprio un suono che porta a una visione moderna. E’ stato un lavoro di arrangiamento sensato, omogeneo, volevamo non riproporre brani tradizionali nella maniera tradizionale, anche perchè penso che sia stato già fatto egregiamente come tipo di lavoro, se pensiamo a una Elena Ledda in Sardegna e a una Lucilla Galeazzi in Umbria”.

“Infatti, questo ti ha portato a cercare una tua via?”

“Una nostra chiave, io preferisco riferirmi al plurale, perchè io ho pensato a tutto e negli anni ho elaborato questo lavoro come una sorta di viaggio fra queste due isole e ai miei musicisti ho voluto trasmettere il frutto della mia ricerca”.

“Già, perchè tu per isola intendi anche l’Umbria che, anche se non ha sbocchi sul mare, al contrario essendo avvolta dalle montagne, risulta comunque isolata e quindi possono esserci delle affinità tra le due terre?”

“Esatto, questo è proprio un concetto fondamentale del disco, le due isole Umbria e Sardegna, che volevo riuscire a trasmettere. Io ho raccontato ai musicisti proprio quello che volevo ottenere, e loro hanno trasformato in musica insieme a me, a mia zia, quelle parole. Volevo realizzare qualcosa e in pratica ho detto: “voglio che questo album racconti di me e che però che non sia noioso e abbia un sound moderno!” Allo stesso tempo i testi non sono scontati, e ciò non è per niente facile… devo dire che sono soddisfatta del risultato finale”.

“Direi che fai bene, visto quanto è bello e piacevole il disco e quanto stia piacendo anche tra gli addetti ai lavori. Tornando a te, guardandoti indietro, quand’è che è scattata la molla della musica world? Cos’è che ti ha portato ad approfondire i tuoi studi, le tue ricerche al punto da realizzare album che andassero in quella direzione lì?”

“Guarda, la scelta di rimanere su questa linea è perchè sono stata influenzata sempre da tante cose. Ho avuto un maestro, Bruno De Franceschi, gli sarà sempre grato, che mi ha indirizzata verso questa musica, studiavo tecnica vocale e lui mi disse: “tu devi assolutamente riscoprire la musica sarda, la musica umbra…”.

“E questo poteva aiutarti anche a valorizzare la tua vocalità e il tuo modo di cantare immagino”

“Sì! Assolutamente! E’ iniziato tutto un po’ da lì, nel 2009, questa cosa, e io ero già abbastanza grandicella voglio dire, venivo già da un’esperienza vocale di un certo tipo. Avevo un background intenso, perchè già cantavo, da autodidatta poi, e dall’incontro con questo maestro, ma anche con Claudia Fofi, sono entrata a far parte di un quartetto vocale dove cantavamo proprio di emigrazione, di radici. Da lì ho scoperto una vocalità che per me era abbastanza sconosciuta, ho deciso di approfondire e in pratica non mi sono più fermata. Non solo metaforicamente, perchè ho fatto anche tanti viaggi, sono un’appassionata di musica sudamericana, quindi sono andata in Brasile, ho scoperto la loro musica tradizionale. Attraverso questi viaggi, ho avuto modo di conoscere bene Paesi come appunto il Brasile, l’Uruguay, l’Argentina e mi sono resa conto che lì la musica folk viene molto alimentata anche dai Festival: c’è veramente tanta attenzione, tanto fermento e sono molto bravi pure a esportarla, perchè la musica brasiliana, spagnola, il tango, riscuotono tanto interesse, è una cosa molto rilevante. Ho capito che anch’io ero portata per questo e ho voluto in tutti i modi approfondire questo tipo di musica, poi io sono anche molto curiosa, ho studiato tanto e mi sono affiancata anche ai più grandi, la già citata Elena Ledda per la musica sarda, per quella napoletana Nando Citarella, poi Giovanna Marini, secondo me a livello italiano mi sono accostata ai più grandi”.

Foto di Isabella Sannipoli

“Hai visto che anche in Italia, nonostante la musica folk e world non abbiano la stessa risonanza e visibilità mediatica che hanno in Sudamerica, c’è un retaggio storico e culturale che vale la pena riscoprire e divulgare?”

“Certo, dici bene! Penso però che forse si dovrebbero aprire di più le Regioni. Se tutte le Regioni facessero ad esempio come la Puglia, impegnata in questi progetti ambiziosi di divulgazione, sarebbe l’ideale e avremmo anche tutti la possibilità di attingere a questo tipo di musica più facilmente. Probabilmente dico questo alla luce del grande successo che ha avuto la Notte della Taranta che, vuoi o non vuoi, è un evento che attira moltissima gente”.

“Che poi, adesso è vero che è diventato anche un business in un certo senso, ma ha mantenuto la sua funzione e la sua autenticità. Arrivare in prima serata Rai amplifica tantissimo il tutto e da’ un’esposizione enorme ai musicisti”

“E’ un mondo che mi piace, mi rappresenta, infatti da dieci anni ormai mi ci dedico e sin dal primo disco ci divertimmo a rielaborare e riarrangiare brani anche famosi, avevo già studiato con Francesca Breschi e ho sentito sempre più la voglia e la necessità di esprimermi in questo modo. Poi tante altre esperienze, in duo in cui cantavamo musica etnica, insomma, le ricerche in questo campo continuano, non si fermano. Un lavoro di questo tipo, con questo approccio, comporta molta ricerca. Ci vuole costanza, passione, ci vogliono anche i viaggi: non è sempre facile, ma se affrontati in un certo finiscono per arricchirti con le musiche di luoghi diversi, vieni attraversato da ritmi, suoni, culture, sensazioni e questo diventa un bagaglio molto importante che poi uno si porta dietro. E’ fondamentale infine riuscire a comunicare questo bagaglio di esperienze”.

Parole sante quelle di Sara Marini, che mi sento di condividere pienamente. Le chiedo, in dirittura d’arrivo della nostra chiacchierata, qualcosa sui suoi progetti, e lei torna a soffermarsi sull’importanza di portare in giro le sue nuove canzoni.

“Ho molta voglia di far ascoltare questo album che è ancora nuovissimo in pratica: come detto non ho avuto modo di presentarlo ufficialmente dal vivo e al momento quello è il primo obiettivo che, per fortuna a breve si realizzerà. C’è stato tanto lavoro dietro da parte di tutti e va assolutamente valorizzato. Voglio parlare delle mie radici, della ricerca che ho fatto. E’ vero, si nomina sempre la globalizzazione, è un aspetto importante ma lo è altrettanto per l’uomo riconoscersi in qualcosa che gli appartiene. E’ la mia missione in questo momento!”.

“E tu ti sei completamente riconciliata con la tua parte sarda?”

“Sì, nel modo più assoluto, altrimenti non sarebbe potuto uscire niente di tutto ciò”.

“Ti confermo che sei riuscita con “Torrendeadomo” a trasmettere tutto il tuo amore e la tua passione per le due Terre da cui provieni”

“Il mio legame è molto forte con entrambe, mi rappresentano allo stesso modo. Sono due Regioni anche ostiche se vogliamo, non sempre è stato facile, da una parte c’è tanta bellezza, dall’altra anche una certa chiusura, specie nei centri più piccoli, non solo per i musicisti. I legami sono profondissimi ma non sempre facili da gestire, ecco. Con la musica ho trovato però la mia via e il modo, la voglia di comunicare la mia autenticità”.

E questa autenticità, questi legami emergono egregiamente fra le pieghe di questo album che, cari miei lettori, vi consiglio caldamente di ascoltare, non solo se già predisposti a un certo tipo di musica: fidatevi, non ne resterete delusi!

Un disco da riscoprire assolutamente: “Lost spring songs” di Grand Drifter

Dietro il nome Grand Drifter si cela il piemontese Andrea Calvo, artefice con “Lost spring songs” di un album d’esordio che merita di essere scoperto e di emergere per poter splendere in tutta la sua bellezza.

Avevo il contatto dell’artista di Acqui Terme su Facebook e quando mi propose di ascoltare la sua musica lo fece in modo molto educato, lontano da tanti altri suoi colleghi che a volte nemmeno si presentano e ti piazzano subito il link al loro progetto in cambio di un like in più. Sembra scontato approcciarsi in maniera gentile ma non è affatto così e, al di là di questo, il suo background musicale e il suo mondo di riferimento si sposavano piuttosto bene col mio spettro di interessi, cosicché mi ripromisi di dargli un attento ascolto.

Amo la musica e mi piace molto occuparmene, anche se talvolta mi lamento di quanta ne venga proposta; tutti giustamente ambiscono e sgomitano per farsi notare, ascoltare, giudicare, ed io pur non essendo certo una prima firma di un quotidiano nazionale o un volto noto della tv, vengo lo stesso “sommerso” da richieste.  Occorre fare delle scelte e inevitabilmente selezionare gli artisti cui dedicare il giusto spazio.

Foto di Ivano A. Antonazzo

Fatta questa premessa, devo dire che le mie sensazioni in merito all’album di Andrea non erano certo sbagliate, anzi. Ammetto che, essendo io un grande estimatore degli Yo Yo Mundi, valente gruppo folk rock di casa nostra sin dai mitici anni ’90, e del leader Paolo Enrico Archetti Maestri in particolare, il fatto che dietro questa raccolta di canzoni ci fosse il marchio “Sciopero Records” (l’etichetta fondata dalla band) mi dava un certificato di garanzia sulla bontà del prodotto. Proprio Maestri fra l’altro è qui presente in veste di produttore e musicista. Toccava adesso alle canzoni dire la loro, trasmettermi emozioni e farsi largo tra i miei variegati ascolti. E quando ti accorgi che, appena salito in macchina, fai ripartire lo stesso disco più volte, beh, direi che la missione di Grand Drifter è andata a buon fine: le sue sono canzoni davvero ispirate e di gran pregio.

Grand Drifter è stato scelto come pseudonimo per il significato più o meno velato che si porta dietro, vale a dire quello del viaggiatore vagabondo che si trova a spostarsi di luogo in luogo senza mettere su radici e lasciare particolari tracce. Diviene lui l’osservatore della realtà che lo circonda, il primo giudice che poi saprà valutare cosa portare con sè e cosa invece lasciarsi alle spalle, che siano insegnamenti preziosi o semplici ricordi. E’ un’espressione tratta dall’immaginario americano, che delinea il mood di diversi cantori, semplici menestrelli o raffinati cantautori. Andrea sembra appartenere di diritto alla seconda specie, qualitativamente parlando, e fra le sue canzoni è facile sentire echi della lezione di Elliott Smith – per il tratto gentile della chitarra e le atmosfere crepuscolari – e dei Fleet Foxes, per le musiche calde e ariose, ma possiede un’attitudine lo-fi, genuina, che me lo fa accostare appunto agli antichi musicisti che armeggiavano i loro strumenti intrattenendo e incantando.

In realtà nonostante il disco si muova su coordinate stilistiche facilmente interpretabili come indie-folk, tra le pieghe dei brani è possibile riscontrare tutta una serie di influenze che finiscono per definirne un aspetto peculiare, un suono tutto suo, reso egregiamente (giusto sottolinearlo) da una produzione discreta ma sicura che valorizza nel migliore dei modi idee e spunti, di per sè già degni di nota.

E’ così che in un episodio come “Circus Days” – che subito arriva a mutare l’atmosfera delineata dall’apripista “The Ballon’s Boy”, acustica e sognante -, un pianoforte scintillante e vivace caratterizzi il tutto dandogli una spruzzatina di Big Star, mentre la seguente traccia finisca per tirare in ballo addirittura i Beach Boys. Altrove i padrini putativi sembrano essere i miei amati R.E.M. (specie in”Flesh and Bones”, una delle mie preferite con i suoi freschi intarsi pop rock) e Iron & Wine; insomma, ovunque si peschi appare chiaro che siamo davanti a un musicista che è riuscito a declinare le sue ascendenze artistiche in un disco che diventa molto personale.

Foto di Ivano A. Antonazzo

Grand Drifter ha finito per realizzare un album classico da cantautore ma rivestendolo di arrangiamenti assolutamente particolari e gustosi – valga come esempio la quasi eponima “A lost spring song”, con i suoi toni autunnali resi magnificamente dagli interventi alla fisarmonica.

Pur essendo un progetto solista, con il Nostro abile a disimpegnarsi come polistrumentista, è ricco il parterre di collaboratori coinvolti (alcuni strettamente collegati agli stessi Yo Yo Mundi), tra cui mi piace ricordare l’interessante duo Cri + Sara Fou, che dà un apporto prezioso alla delicata e melodica “The Way She Knows”.

Uscito un anno e mezzo fa, mi rammarico di non averlo ascoltato all’epoca – si torna al discorso iniziale: escono veramente tanti album ogni anno ed è complicato riuscire a dare un ascolto a tutto, con il rischio che rimangano sommersi dei dischi di valore – ma dopotutto non è mai troppo tardi per recuperare la bella musica.

In fondo non si tratta di un campionato di calcio, non ci sono graduatorie e piazzamenti da stabilire. L’unico criterio è riuscire, per chi fa critica, a orientare l’ascoltatore e, se vi fidate di me, lasciatevi dire che “Lost spring songs” merita di essere conosciuto, per la varietà e la qualità dei singoli brani e per quel sapervi amabilmente cullare e rasserenare.

Alla scoperta di “Lost in the desert”, secondo album di RosGos

Dietro il nome RosGos si cela l’artista lombardo (di Crema, per l’esattezza) Maurizio Vaiani, che fu attivo alla guida dei Jenny’s Joke negli anni zero, pubblicando tre album di rock obliquo e notturno e suonando in concerto un po’ ovunque.

La voglia di scrivere e di mettersi in gioco non si è mai spenta però in lui e appropriatosi di questo curioso nickname (da un termine dialettale delle valli lombarde) ha dapprima realizzato un album in italiano (“Canzoni nella notte”) per poi tornare ad esprimersi in inglese con questo nuovo “Lost in the desert”, uscito a metà aprile, in piena emergenza Covid-19.

Vale la pena quindi soffermarsi su quest’ ultimo lavoro, anche perché nonostante i buoni propositi, come molti altri pubblicati nel medesimo periodo, giocoforza non ha potuto usufruire della giusta promozione, visto il lockdown cui siamo stati tutti necessariamente sottoposti.

La copertina di “Lost in the desert”, il nuovo album di Maurizio Vaiani, in arte RosGos

Messi da parte gli spunti cantautorali del lavoro precedente, alcuni in ogni caso molto interessanti, bisogna ammettere che RosGos pare sentirsi maggiormente a suo agio nei panni del folk rocker sedotto dall’epica e dalla tradizione musicale americana.

Basta mettersi all’ascolto dell’iniziale “Free to weep”, per immergerci nella giusta atmosfera: il brano, con i suoi tocchi acustici e sognanti ci fa inoltrare in un metaforico viaggio che si alimenta di canzone in canzone, andando a braccetto con il mondo di riferimento dell’autore.

Siamo già così predisposti dopo un solo assaggio ad assistere quindi al viaggio interiore dello stesso Vaiani, che ci viene tradotto in undici tappe che somigliano molto a un cammino disseminato nel deserto, dove si possono incontrare le luci abbaglianti del sole ma anche le fresche ombre notturne.

Nella prima specie vanno annoverate canzoni come la paradigmatica “Standing in the light”, accogliente e ammaliante con i suoi delicati arpeggi di chitarra, la countryeggiante “To daydream” e l’ode elettrica “Mary Ann”, mentre più ispide e urticanti appaiono la dilatata “Lost”, la dimessa “Misery” e l’evocativa “Sparkle”.

Una menzione a parte merita la dolce, sussurrata “Sara”, con la voce del Nostro che sembra provenire da scenari lontani. Ma sarebbe un po’ fuorviante incasellare questo lavoro unicamente alla voce folk, perché in realtà ci sono alcuni episodi dove emerge ancora prepotente l’anima rock, certo memore della lezione a stelle e strisce. Un esempio lampante è dato da “Telephone Song”, il cui solido e vivace arrangiamento mette in luce una vocazione da band, con sezione ritmica incalzante, la chitarra che apre squarci nella nebbia e la voce filtrata ma che emerge piena e forte in superficie.

Non è più un ragazzino Maurizio Vaiani ma questa improvvisa prolificità compositiva è giusto che sia alimentata, seguendo questa indole naturale, che magari non sarà quella che finisce nei piani delle classifiche, ma di certo è in grado di arrivare al cuore dell’ascoltatore, perché appassionata e viscerale.

 

Le mie recensioni di Gennaio 2016 per Troublezine: il disco OndAnomala di Mimmo Crudo e Lady U e quello di Difiore.

Amici del blog, condivido anche con voi alcune delle mie recensioni uscite per la rubrica “Recensioni in pillole”, su Troublezine.it,  relative alle ultimissime novità provenienti dall’indie italiano. Io ho scritto dei dischi di OndAnomala di Mimmo Crudo e Lady U e Difiore.

Linko volentieri tutto il pezzo con le uscite di Gennaio 2016, così avrete modo di leggere tutti i contributi dei vari collaboratori del sito e trovare musica per tutti i vostri gusti. 🙂

http://www.troublezine.it/columns/20115/recensioni-in-pillole-gennaio-2016

OndAnomala di Mimmo Crudo e Lady U “Tu ci sei” (MK Records/Self)
Un connubio riuscito quello tra uno dei nomi più significativi del Parto delle Nuvole Pesanti (il bassista e compositore Mimmo Crudo) e la performer Francesca Salerno, in arte Lady U, poetessa e cantante. Un progetto costruito a Bologna ma che ha radici lontane, viste le affinità intellettuali tra i due e l’idea che balenava in testa in realtà già da molto tempo. In questi dieci pezzi si respirano tante atmosfere diverse, all’insegna di una “patchanka” musicale efficace e di un’urgenza comunicativa, a volte affidata al calore e alla sensualità della voce (come ad esempio inStringimi o nella struggente Cori Umani, altre all’irruenza dei suoni, penso a Le cose che mi restano, che viene sin troppo semplice accostare agli episodi più rock del gruppo primigenio di Mimmo Crudo. Ci sono temi anche forti e ben scanditi, ad esempio in Salvami o nella malinconica Tunnel. Suoni folk, più legati alla Terra sono quelli di Salta Anita, in odor di pizzica o nella vivace e ballabile Acikof Song. Un disco ben scritto e suonato, che piacerà molto probabilmente ai cultori del genere folk rock mediterraneo, pur non rappresentando uno dei vertici artistici di quel filone.

Difiore “Scie chimiche” (L.M.European Music)
Giordano Di Fiore, in arte Difiore, in queste 13 canzoni spazia da tematiche politiche (come nella convincenteNovecento) ad altre esistenzialiste (Un’altra carta, L’amore non c’è) o più prettamente intime (nella riuscita ballata In bilico, la più ritmata Emotili e la conclusiva Occhi di donna, molto degregoriana nel cantato). Il brano più ficcante, in cui il testo si distingue maggiormente, è la diretta titletrack, in cui il tema sociale va a braccetto con una poetica felice. Molto esplicita è Compagni (senza rancore), anche se forse troppo infarcita di luoghi comuni. Musicalmente, a parte forse l’ironica e vivace Ti voglio bene e un breve intermezzo folk, il disco suona molto minimale, essendo praticamente acustico o al limite spruzzato di un’elettronica vintage usata da corredo. Del Brasile, nota passione del Nostro, che dalle frequenze di Popolare Network conduce un seguito programma dedicato alla variegata musica di quel Paese, non c’ è purtroppo traccia, e il disco finisce per ripiegarsi un po’ su sé stesso, risultando fragile e senza quei guizzi di fantasia che forse era lecito attendersi.

Recensione di “Muoviti Svelto”, di Zibba & Almalibre: uno dei migliori dischi italiani del 2015

Condivido anche per gli amici del blog la mia recensione del bel disco di Zibba & Almalibre, pubblicata sul sito di Troublezine

http://www.troublezine.it/reviews/21694/zibba–almalibre-muoviti-svelto

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La consueta ondata di classifiche e graduatorie inerenti alla stagione musicale in corso sta per giungere anche per noi di Troublezine e, andando a ritroso tra le varie uscite, mi rendo conto quanto sia stato significativo l’ultimo di Zibba & Almalibre: “Muoviti svelto”, al punto che, ve lo anticipo, lo inserirò fra i top pubblicati fra gli italiani nel 2015.
Uscì a marzo un po’ in sordina, senza grossa eco mediatica, ma in fondo al cantautore ligure sembra importare poco, considerando lo status acquisito fra i cantautori di ultima generazione, così lontano da logiche “da cameretta”, così care ai vari Dente, I Cani, o il nuovo fenomeno da web Calcutta.
Lui da più di un decennio oramai propone un solido folk d’autore, se proprio vogliamo azzardare una catalogazione, genere alquanto di nicchia e pure poco incline agli hypsterismi, ma in realtà le commistioni con una musica più di largo consumo sono state molte, così come le occasioni di incontro col grande pubblico, con impennata di popolarità ottenuta un paio d’anni fa, partecipando a Sanremo fra le Nuove Proposte. Che fosse fuori luogo lo capimmo a un primo ascolto del suo bellissimo pezzo “Senza di te”, giustamente acclamato dalla Critica ma pure ben assimilato dal pubblico, che dimostrò di saper apprezzare la sua voce calda e la sua poetica efficace, pur se scevra di tecnicismi.
Questo album, giunto tre anni dopo l’interessante “Come il suono dei passi sulla neve”, ribadisce la sua centralità nell’ambito di una forma canzone raffinata, sofisticata eppure rassicurante. Echi di antiche atmosfere calde, soffuse, venate di folk rock, si mischiano ad altre intrise di blues, più dell’anima che non di genere. Altrove è invece la canzone d’autore a farla da padrone, sempre però accompagnata da un suono pieno, denso, avvolgente e ricco, quasi antitetico all’immaginario “cantautore con la chitarra a tracolla”. D’altronde il progetto, imperniato su Sergio “Zibba” Vallarino, rimane assolutamente collettivo e gli Almalibre in fase di composizione fanno eccome la loro parte.
Un album, questo “Muoviti svelto”, ricco al solito di collaborazioni, sin dal brano apripista Farsi male, in cui duetta amabilmente con Niccolò Fabi, a proseguire con La medicina e il dolore dove a intervenire è Patrick Bonafei, fino ai riusciti episodi con Bunna in Le distanze, pezzo dalla forte impronta sociale, Il giorno dei santi, con la voce graffiata di Omar Pedrini e la conclusiva Vengo da te con Leo Pari.
A farla da padrone è la maestria con cui Zibba coordina le parti, equilibrando istanze e atmosfere, svettando in Ovunque, in cui nella coda finale sfoga tutta la sua poetica in uno spoken word, e nella ritmata Il sorriso altrove, dall’insolito arrangiamento.
Un album assolutamente da riscoprire, qualora ve lo foste persi nei meandri delle molteplici uscite discografiche di quest’anno ormai prossimo all’epilogo.

Tempo di bilanci in campo musicali: il mio elenco (molto parziale) mi induce a dichiarare che il 2015 sia stato più interessante dell’anno precedente

TOP DISCHI 2015 Gianni Gardon per Troublezine

L’anno che va chiudendosi ha regalato, dal mio punto di vista, dischi di maggior qualità e originalità rispetto ai corrispettivi del 2014, o forse più semplicemente mi rendo conto che molte uscite discografiche hanno soddisfatto maggiormente la sfera dei miei gusti. Il sito di Troublezine, per cui collaboro, mi ha chiesto un elenco, che ora qui vado a esplicare.

Visto che la classifica in questo caso spetta a me, ecco quindi che compariranno album che si avvicinano a ciò che sento nelle mie corde, nonostante la rilevanza avuta da alcuni lavori lontani un po’ dal mio mondo. Alludo a gente come  D’Angelo, tornato fra i ranghi con un solido album all’insegna dell’R’n’b più nobile, Kendrick Lamar, con la sua commistione originale di atmosfere “moderne” e “antiche” o il jazz visionario, quanto astruso, di Kamasi Washington. Non sono mancate nemmeno le delusioni, ma riguardano, nel mio caso, artisti che da tempo hanno smesso di suscitarmi emozioni, quindi non parlerei di veri flop.

Bando alle ciance, e chiuse le premesse, ecco un elenco parziale, anche se redigere una graduatoria è sempre azzardato… I miei favori sono condizionati spesso dall’umore del momento e dalle circostanze: resta il fatto che QUESTI per me rappresentano il top del 2015.

  • 1 Beach House “Thank yours lucky stars”, perchè le atmosfere semplici, sognanti, dilatate, così intrise di dream pop fanno sempre breccia nel mio cuore. Unica cosa: di due dischi a distanza così ravvicinata – poche settimane sono intercorse dal precedente, altrettanto fulgido “Depression Cherry” a questo – forse se ne poteva pubblicare uno solo con le migliori di entrambi e ne avremmo molto probabilmente ricavato un lavoro ancora meglio del capolavoro “Bloom” ,uscito ormai tre anni fa. Ma poco importa, a loro va il mio scettro di miglior disco dell’anno!
  • 2 Tame Impala “Currents”, un po’ alla stregua degli Arcade Fire: o li si ama, o li si odia, io propendo per la prima. Siamo anche qui dalle parti di una psichedelia rinnovata, anche se di quelle più allucinate.
  • 3 Sleater Kinney “No cities to love”, a sorpresa annoverate un po’ ovunque fra i dischi dell’anno, devo dire che mi accorsi subito che, tra le pieghe di canzoni in fondo semplici nella loro accessibilità e immediatezza, vi fosse tanta cruda sostanza. Ci mancavate, ragazze
  • 4 Asaf Avidan “Gold Shadow”, sarà stata la suggestione offertami nella splendida cornice del Teatro Romano a Verona, dove l’israeliano ha furoreggiato tra virtuosismi e barocchismi, ma a me questo disco ha riconsegnato tante emozioni nel suo riecheggiare atmosfere sixties, un po’ come faceva magistralmente la compianta Amy Winehouse. Poi, come si dice in questi casi, con quella voce Asaf renderebbe interessante anche l’elenco telefonico
  • 5 Julia Holter “Have you in my wilderness”, deliziosa interprete che si muove fra languide ballate e costruzioni armoniose destabilizzanti, creandomi un effetto che in tempi recenti mi assicurava solo la splendida Fiona Apple
  • 6 Jim O’ Rourke “Simple songs”, il titolo è programmatico e nel suo caso ci sta, visto lo scarto con sue composizioni ben più ostiche, ma in questo disco prevalgono comunque la densità emotiva che traspare dai pezzi e un senso di spiazzamento, laddove è venuto a mancare lo struggimento a lui caro
  • 7 Panda Bear “Panda Bear meets the grim reaper”, lo avevo già detto vero che in questo 2015 sono usciti parecchi dischi a mia immagine e somiglianza? Anche qui siamo dalle parti di un pop onirico, a tratti ondivago ma al più scintillante
  • 8 Courtney Barnett “Sometimes I sit and think, Sometimes I just sit”, un disco quasi perfetto, quell’indie rock al femminile che non lascia indifferente. Non so se a colpirmi l’immaginario sia stato più la sua attitudine o la sua reale collezione di canzoni, sta di fatto che non potendomi basare su riscontri oggettivi riguardo la sua personalità – visto che non la conosco..- posso affermare che intanto mi bastano quelle a rassicurarmi.
  • 9 Florence and the Machine “How big how blue how beautiful”, avevo quasi dimenticato il disco che segnava il ritorno della “rossa” per eccellenza del rock di questo scorcio di secolo. Questo perché ormai non ci si stupisce più che Florence possa sfornare album impeccabili dal punto di vista formale, così come da quello degli arrangiamenti, alla ricerca di un “quasi” perfetto equilibrio tra atmosfere in grado di trasmettere all’ascoltatore una vasta gamma di stati d’animo.
  • 10 Laura Marling “Short movie”, ammetto che c’ho messo diversi ascolti per assimilare il nuovo sound della giovane cantautrice inglese. Non che sia stato rivoluzionato in toto il suo sound, ma è certo che qui le chitarre, che emergono clamorosamente, laddove finora a brillare erano solo suggestioni calde e acustiche, se da una parte hanno arricchito il suo bagaglio e la sua proposta, dall’altra hanno forse fatto perdere in intensità interpretativa. Siamo dalla parti del “de gustibus”, però per me rimane un’artista da seguire assolutamente.

Altri dischi a mio avviso validi sono quelli dei miei pupilli Mumford and Sons, che non ho inserito in top ten perché credo che certe vette dei primi due album non verranno più raggiunte, specie ora che alla freschezza e urgenza comunicativa, è subentrato il mestiere. L’album però, anche qui segnato da una svolta elettrica – che però non ha contaminato l’essenza della band, che resta riconoscibilissima – è assolutamente ricco di spunti.

Mi è piaciuto anche il disco intimista di Father John Misty “I love you, honeybear”, veramente raffinato e intenso, che sembra riportarci indietro negli anni ’60, e quello della sfuggente Joanna Newsom (“Divers”), una conferma, anzi, una certezza. Poi, anche se sulla lunga distanza non mi ha fatto impazzire, ammetto che avevo salutato con grande entusiasmo e calore il disco della reunion dei Blur, “The magic whip”, finalmente un intero album di inediti per gli antichi eroi britpop, con la formazione al completo e ancora affiatata. Non ho gridato al miracolo per il disco di Bjork, ma un’artista del suo calibro non può essere recensita negativamente!

Ah, tra i dischi che mi rendo conto aver ascoltato piuttosto frequentemente c’è quello degli Alabama Shakes, ruggente, sporco e trascinante.

Tra gli italiani mi sono piaciuti molto gli album di Zibba e Almalibre “Muoviti svelto”, in cui l’artista ligure ha rinnovato la sua posizione nella scena della canzone d’autore italiana, e l’esordio del duo cremonese La Scapigliatura, in cui i fratelli Bodini hanno confezionato piacevolissime canzoni pop, densi di spunti d’interesse e dai testi notevoli, ricordando a tratti certe intuizioni dei primi Baustelle, laddove però alle atmosfere vivaci di Bianconi e co., hanno preferito puntare su suoni acustici e minimali, degni del miglior “new acoustic movement”. Si confermano, con un disco mutevole, denso di significato e valore, i Bachi da Pietra… peccato siano quasi “sfuggiti” alle mie orecchie, fino a un mese fa, suggeriti in tempo dall’amico e collega di penna (in questo caso “sportiva”) Alec Cordolcini, attento e fine ascoltatore musicale.

“Die” di IOSONOUNCANE ha fatto incetta di riconoscimenti, dal PIMI 2015 in coabitazione con Cesare Basile, fino alle nomination al Tenco, ma ammetto che, da giurato al Mei di Faenza, i miei favori fossero andati a un album uscito nella seconda metà del 2014 (per quel premio si tiene conto dell’anno”scolastico”). Tuttavia, l’artista sardo è davvero in grado di non lasciare indifferente, con una proposta particolare che strizza l’occhio al pop anni ’70, vicino a certe atmosfere battistiane, in chiave assolutamente moderna, a partire da azzeccati, quanto azzardati, arrangiamenti.

Tra i flop, spiace constatarlo, metto al primo posto il ritorno dei Coldplay, che mi paiono ormai incapaci di tornare ai fasti “pre Viva la Vida”, quando con le loro atmosfere malinconiche erano emersi a paladini del nuovo britsound di inizio millennio. In Italia, rimanendo per lo più in ambito mainstream, ho tutto sommato invece apprezzato il tentativo di Jovanotti di dare ampio respiro a tutte le sue molteplici inclinazioni sonore, anche se ovviamente un album composto da 30 canzoni difficilmente riesce a mantenere vivo l’interesse dall’inizio alla fine. Ci sono riusciti invece i Verdena che, però, furbescamente, hanno preferito dividere il loro ultimo lavoro (“Endkadenz”) in due volumi, risultando molto efficaci. Li ritengo ancora una volta la migliore espressione dell’attuale rock nostrano. Non avrei voluto inserire tra le mie delusioni il disco programmatico di Carmen Consoli “L’abitudine di tornare”, essendo stato grande fan della “cantantessa”. Ma il suo ritorno a un pop semplice, seppur mischiato con le atmosfere più folk degli ultimi due lavori, mi ha lasciato l’amaro in bocca, riscontrando tra le sue inedite composizioni poca dell’ispirazione che l’aveva sempre contraddistinta.

Ho avuto modo, forse mai come quest’anno, di ascoltare tanti dischi di artisti emergenti, soprattutto italiani, e con rammarico devo ammettere che, pur con qualche fragorosa eccezione (i dischi de La Belle Epoque, Davide Ravera, Jarred the Caveman, Plastic Man, David Ragghianti, Tamuna), sono stati invero pochi quelli in grado di assestarmi un “colpo emozionale”. Ma forse la colpa principale è… la mancanza di tempo da dedicare a prodotti che magari necessiterebbero di maggiori ascolti, in contrapposizione con la vastissima (auto)produzione di lavori pubblicati.

In ogni caso non mi va di perdermi in lamentele assurde, perché in fondo avere la possibilità di ascoltare quanta più musica possibile e cercare di trovare delle perle nascoste, è sempre un bene per l’anima.

Ripeto, di dischi da segnalare e recuperare ce ne sarebbero a iosa, e allora vi invito a consultare ad esempio un bellissimo e accurato resoconto del grandissimo Carlo Bordone, dal suo blog “Whitnail e io”,  https://withnailblog.wordpress.com/2015/12/05/50-x-2015/ in cui compaiono dischi di notevole spessore e, ovviamente, i suggerimenti degli amici di Troublezine!