“9/1/50” è un documentario sull’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena assolutamente da vedere, per non dimenticare

Apprezzo molto il percorso artistico di Carlo Albè, scrittore e autore di reading e performance teatrali che spesso e volentieri affrontano tematiche sociali, andando a perpetrare la memoria di fatti salienti della storia d’Italia. Così come seguo dagli inizi della loro entusiasmante carriera i Modena City Ramblers, da quando cioè esordirono nella prima metà degli anni novanta codificando un genere come il combat-folk, la cui matrice linguistica già connota nel migliore dei modi una componente sociale che ben si poteva sposare appunto con l’etica del già citato Albè, nativo della provincia di Varese ma da qualche tempo di stanza in Emilia.

Dal loro connubio non poteva che nascere qualcosa di interessante e l’occasione si è materializzata con la rievocazione di un tragico fatto di storia, di Modena nella fattispecie, ma che non può non toccare le corde di tutti noi.

(credit foto – Samuele Mosna)

Il 9 gennaio del 1950, quindi settantatre anni fa, è ricordato come un giorno nefasto, in cui ci fu l’eccidio delle Fonderie Riunite di Modena, dove persero la vita sei persone e molte rimasero ferite.

Un evento che Legacoop Estense ha voluto testimoniare con un’iniziativa in cui sono stati coinvolti Carlo Albè, i Modena City Ramblers e il regista Samuele Mosna, al fine di realizzare un docu-film in cui attraverso parole, musiche e immagini, non andassero dimenticate in alcun modo le tante persone accorse quel giorno a uno sciopero indetto dalla CGIL per protestare contro il licenziamento di ben 500 operai metalmeccanici.

Ma quella che in origine doveva essere una legittima forma di protesta si è trasformata in un massacro, quando la polizia – già allertata – fece fuoco contro i manifestanti.

Albè narra i fatti con rigore storico, partendo da lontano, dalla nascita delle Fonderie, e in modo puntuale vi segue lo sviluppo, gli avvicendamenti e l’inizio della crisi e delle tensioni sociali; i Modena inframmezzano il tutto interpretando brani attinenti, a partire dall’iniziale “Figli dell’officina”, un tradizional sempre di grande attualità riadattato dai Nostri e già inciso ne l’album “Fuori campo”, senza tralasciare ovviamente “La strage delle fonderie”, che il gruppo aveva inserito in “Niente di nuovo sul fronte occidentale”.

Non mancano immagini di repertorio e testimonianze dirette di chi c’era al tempo, con la storia che poi si sofferma giustamente sulla nascita della Coop Fonditori a opera di nove dei lavoratori licenziati dalla Valvedit, i quali non si persero d’animo, decidendo di dare a se stessi e alla propria gente un’altra possibilità.

“9/1/50” è un documentario che andava fatto, e che merita assolutamente di essere visto, perché il tema del lavoro, delle morti associate ad esso e delle forti ingiustizie che ancora oggi si riscontrano dentro certi ambienti non può essere messo in secondo piano.

Certo, cambiano i periodi storici, la società è in continua trasformazione e si alternano i governi, ma ricordiamoci che, prima ancora che di lavoratori, si sta sempre parlando di uomini, con le loro storie, la propria dignità e delle vite che vanno rispettate.

N.B. Consiglio vivamente di iscrivervi al canale You Tube di Carlo Albè, dove lo storyteller pubblica materiale di varia natura, inerente all’arte e alle realtà sociali ma non solo.

https://youtube.com/@carloalbe9078

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“Tutto può cambiare”: quando la musica davvero può aiutarti a dare un senso alla tua vita!

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Ieri sera la cocente sconfitta dell’Hellas Verona è stata mitigata, anzi, del tutto cancellata, dalla visione di uno splendido film: “Tutto può cambiare” del regista irlandese John Carney già segnalatosi nel 2006 con l’altrettanto efficace “Once”. Anche quello era un film fortemente intriso di musica, seppur forse più struggente, ma alla seconda vera prova d’appello, direi che il giovane Carney, già musicista a sua volta e realizzatore di videoclip, ha dato il meglio di sè, aggiungendo elementi diversi che hanno conferito spessore e omogeneità in diverse atmosfere del film. Sarà che a me coinvolgono molto quelle storie in cui la musica diventa a sua volta protagonista del film stesso e non semplice contorno funzionale atto a evidenziarne i momenti salienti. Fatto sta che qui tutti gli ingredienti sono egregiamente miscelati, virando quindi su un mainstream che però non significa che il film sia destinato a diventare un blockbuster. Presentato con successo un anno fa al Festival di Toronto, è sbarcato dapprima in Usa e quindi in Europa, suscitando ovunque cori di ammirazione. Molto efficace il cast di attori presenti, a partire da una convincente, anche negli insoliti panni di cantante, Keira Knightley (ex bambina prodigio del cinema Made in England), fino all’ancora più credibile Mark Ruffalo, che qui ricopre i panni di geniale produttore di recente caduto in disgrazia. Due storie che si intrecciano, e che si rinnovano incontrandosi, dimostrando che davvero “tutto può cambiare”, anche quando la vita ti sembra aver girato definitivamente le spalle. Un ruolo secondario, ma comunque importante, se lo ricava anche la pop star Adam Levine, tuttora impegnato con il nuovo disco della sua band, i Maroon 5. Paradossalmente però mi sono piaciute di più le canzoni interpretate alla maniera della Knightley, in versione acustica, scarne e naturali, così come è sembrato azzeccato il personaggio da lei messo in scena, quello di Greta, che ha visto dissolversi il suo amore a causa del successo improvviso e “che tutto cambia” del suo fidanzato ( nella fiction appunto, Levine). Un bel film, che parla di riscatto, della voglia di non arrendersi, di inseguire i propri sogni e di non disperdere il vero e puro talento… con un finale davvero bellissimo! Non dico altro, se non che dovete correre al cinema!

“Sole a catinelle”: alla fine anch’io ho pagato il tributo! Ecco cosa penso del buon Checco e del suo film campione d’incassi

Spesso all’interno di questo blog mi sono prodigato in recensioni di spettacoli o di film: non sarà questo il caso, ma non perchè voglia fare lo snob o sbolognare il film in questione come il classico film campione di incassi e poco interessante ai fini di una disamina più accurata. No, perchè il film di Checco Zalone, visto nel weekend dopo che era già uscito da settimane e dopo che, con amarezza, si erano già viste e commentate alcune delle battute più fulminanti della pellicola (strategia non del tutto condivisa dallo stesso protagonista quella dell’eccessiva esposizione su Internet di alcune scene topiche), non è assolutamente un “cattivo” prodotto, specie se paragonato ai celeberrimi cinepanettoni che per decenni ci hanno accompagnati in questa stagione, a suon di parolacce, volgarità e doppi sensi. Armi che in parte costituiscono anche la “poetica” del buon Luca Medici, ancora in sodalizio vincente con l’amico Gennaro Nunziante, alla sceneggiatura e regia, in “Sole a catinelle” avviato a polverizzare – che non l’abbia già fatto dopo questo ulteriore weekend da tutto esaurito nelle sale – il precedente record di una produzione italiana, appannaggio del suo “Che bella giornata”.

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A mio avviso, “Sole a catinelle” racchiude il meglio delle sue due produzioni: chiaro, facessimo una disamina seria, da critici cinematografici, quali non siamo, non spenderemmo troppe parole… in fondo di una commedia atta a svagare, più che a indignare o riflettere, si tratta, anche se Zalone ha saputo ben miscelare, nel contesto di una storia che, se letta con occhi attenti, sa di malinconico, le sue anime, giocando sulla parodia, sul sarcasmo, ma anche sulla semplicità e sull’ignoranza, spacciata per tale, finanche a creare degli antipatici equivoci, visto che invece il ragazzo pare evidentemente conoscere i segreti del suo successo, ottenuto in maniera assolutamente meritata, ripensando alla sua lunga gavetta.

Zalone mette in scena una crisi famigliare, che è anche specchio di una crisi più allargata e invita all’ottimismo, in un senso però trasfigurato: l’ottimismo figlio di una decade, per non dire di un “ventennio” impregnato di “berlusconismo”. Ci sono ancora le parolacce, una sola scena davvero volgare, ma ciò che colpisce è proprio il fatto che da tempo ormai, abituati a una tv sempre più degradata nell’ospitare personaggi di bassissima lega, non ci si scandalizza certamente per un “coglione” o uno “stronzo” buttato lì, ma al di là di questo, il film, pur giocando su molti stereotipi riesce nell’intento di far ridere in maniera genuina, grazie alla simpatica faccia del protagonista, che anche quando scade nel “politicamente scorretto” (specie quando si trova a che fare con la malattia dell’amico del figlio) risulta comunque divertente, senza urtare troppo la sensibilità altrui.

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Peccato il contesto generale… come capita sovente in occasioni di eventi dove la partecipazione della gente è altissima, in sala si è trovato di tutto e di più. Gente che ha parlato dall’inizio del film, intere famiglie con bambini disinteressati (piccola postilla, già messa in evidenza da altri.. il film non è adatto e comprensibile per i bambini, diciamo sotto i 10 anni di età), un vociare incontrollato, come può succedere se si va ad assistere, chessò, a un concerto di Vasco, dove per alcuni conta soprattutto esserci.

Recensione di “Music Graffiti”, il film di Tom Hanks sull’ascesa e la rovina di una giovane band degli anni ’60

Ho rivisto di recente “Music Graffiti”, un film musicale uscito nelle sale nel 1996, e scritto e diretto da Tom Hanks, qui all’esordio dietro la macchina da presa, lui che –  da attore protagonista – in quel periodo era reduce dai due trionfi ravvicinati di pubblico e critica “Philadelphia” e “Forrest Gump”.

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“Music Graffiti” tenta di recuperare l’atmosfera magica dei “sixtees” americani, quando ogni sogno sembrava davvero a portata di mano, specie per i giovani, che agli albori di quel decennio cominciavano ad emanciparsi, se non proprio a divenire “categoria” a sé, diventando protagonisti in prima persona di questi epocali cambiamenti di portata storico.

Il tutto favorito anche da alcuni fatti storici che crearono un circolo virtuoso, dagli anni ’50 in poi: il boom economico, la ripresa torrenziale di uno sviluppo sociale e culturale tutto a stelle e strisce, e le relative nuove possibilità offerte (dopo gli anni della Grande Depressione e una Guerra Mondiale in pratica quasi immacolata su suolo americano, eccezion fatta per la base di Pearl Harbour).

Il contesto in cui si muove la pellicola è quello legato alla musica, o meglio – verrebbe da dire – allo show business, che vedremo già agli albori, in un certo senso spietato.

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Pur non fortemente caratterizzato a livello ambientale – specie se paragonato ad alti film inscenati nella medesima epoca, penso ad “An Education” o al biopic di John Lennon “Nowhere Boy” – il film vuole ricalcare un fenomeno di massa davvero avvenuto in quegli anni negli USA, conseguente alla dilagante “beatlesmania”, avvenuta all’incirca nel periodo da cui partono le avventure dei ragazzi protagonisti, alle prese con un’ ascesa imperiosa quanto estremamente veloce nel mondo delle classifiche.

Un immaginario, quello delle college band che ben si sposava appunto nel 1964 con quanto si stava assistendo davvero, con giovani musicisti ingaggiati per fronteggiare l’invasione britannica.

Gli One-ders, poi ribattezzati con un più efficace Wonders, nascono come un semplice prodotto della più genuina provincia americana, lontana dai lustrini e impegnata con ballate morbide e suadenti a conquistare un pubblico di ragazze romantiche, sull’onda del talento del frontman Jimmy, ai quali viene affiancata una devota e splendida Liv Tyler, qui quasi agli esordi, appena diciannovenne e che da lì a poco diverrà famosissima grazie alla sua efficace interpretazione di Lucy nell’acclamato “Io Ballo da Sola” del nostro Bernardo Bertolucci.

Le cose per il gruppo cambieranno drasticamente quando verrà ingaggiato in modo del tutto fortuito – il batterista originario si ruppe un braccio in maniera piuttosto comica – Guy (ben interpretato da Tom Everett Scott), abilissimo dietro ai tamburi e dalle forti influenze jazz. Il giovane ragazzo accelera incredibilmente le composizioni della band, facendo diventare così gli Wonders un gruppo da ballo, capace di coinvolgere fino a scatenare le folle, di studenti e studentesse prima, e poi di una Nazione intera.

Dapprima vinsero una sorta di talent scolastico – viene da pensare che gli Americani fossero avanti anche in questo, visti i tempi odierni dove nascono come funghi fenomeni legati a eventi simili – poi grazie a un manager illuminato, cominciarono a mietere i primi successi e accumulare sempre più esibizioni live nei locali, una dietro l’altra, fino a farsi ingaggiare da un discografico competente ma in un certo senso privo di scrupoli, ben inserito nel meccanismo del business musicale, con gli agganci giusti e pienamente consapevole di quelle che potranno essere le carte del successo.

Tom Hanks, nel ruolo del talent scout, è davvero efficace e il suo personaggio risulta essere in linea con quello di molti manager dell’epoca, capaci di sfruttare al massimo le potenzialità della band, ma non di pianificare per forza una sorta di carriera vera e propria. Musica come prodotto, già all’epoca – e del resto in quei tempi in America spopolava le classifiche una band costruita “in vitro” come i Monkees che seppero, a livello di vendite, contrapporsi addirittura ai Beatles.

Ascesa fulminea e crisi paventata e poi avvenuta quindi per gli Wonders, secondo un destino che si dispiega pian piano nel corso del film, e comune come detto a molte band finite nelle mani abili ma poco sensibili di manager in cerca della “gallina dalle uova d’oro” alla quale attingere finchè possibile.

Un film godibile, assolutamente credibile soprattutto, da recuperare se siete amanti del genere storico-musicale.

Io ballo da sola: quando “troppa” bellezza può penalizzare un film

Avevo 19 anni quando uscì in tutte le sale italiane “Io ballo da sola”, l’atteso film del Maestro Bernardo Bertolucci. Ero in trepidazione perchè sapevo ovviamente che protagonista sarebbe stata Liv Tyler, la figlia del leader degli Aerosmith, che già avevo visto recitare in una pellicola giovanilistica uscita un anno prima (Empire Records, nella quale lavorava in una vecchia videoteca insieme a degli scapestrati colleghi).

Ma Liv Tyler l’avevo ammirata prima, nel celebre video di “Crazy”, del padre Steve, nella quale era una collegiale ribelle insieme all’amica Alicia Silverstone, meteora del panorama cinematografico.

“Io ballo da sola” però rappresentava un bel salto per la giovane modella, non ancora affermata e nota ai più appunto come “la figlia di…”.

Invece. a mio avviso, il film di Bertolucci spariglia le carte, proponendo un tema particolare (il valore della verginità) ma con estrema delicatezza e raffinatezza. Ammetto che ero un po’ scettico all’epoca.. non perchè in fatto di sesso fossi così esperto (insomma, le prime storie adolescenziali sono importanti e ti fanno vivere emozioni intense ma ci si rende conto col senno di poi che non ti lasciano chissà quali segni), ma perchè ritenevo poco probabile, ai fini della storia, che un’americana diciottenne piombasse nella tranquilla campagna senese, portando con sè questi valori in una società che stava repentinamente mutando pelle.

Stupendo i detrattori, la bella Liv ce l’ha fatta a tratteggiare un personaggio credibile, la romantica e dolce Lucy, anche se il film avrebbe meritato maggior considerazione. Lo dico ora a distanza di tanti anni e trovandolo alla visione ancora molto toccante e profondo. Penso che all’epoca ci fosse stato un po’ di “pregiudizio”, proprio per la presenza della Tyler, senza tener conto che a dirigere ci fosse uno dei nostri migliori registi, di livello internazionale.

Con quel film mi innamorai della terra toscana e della zona collinare senese in particolare, che ebbi modo in seguito di perlustrare e conoscere a fondo: che posti magnifichi! Non nego che nell’ambientare il mio primo romanzo a San Gimignano, nella Val d’Elsa, abbia voluto rendere un sincero omaggio a quelle terre, già conosciute in una gita scolastica che mi è rimasta nel cuore.

Poi, nel film di Bertolucci riaffioravano altri temi importanti, come la malattia che attanaglia il personaggio interpretato da un bravissimo Jeremy Irons, l’amore nascosto e segreto dello zio di Lucy che poi si rivelerà molto più profondo.

So che è un azzardo affermarlo, ma credo che al di là delle 5 candidature ai David di Donatello e 2 Ciak d’Oro vinti per il miglior film dell’anno e migliore regia, “Io ballo da sola” meritasse di più. Forse troppa “bellezza”, nel senso più ampio del termine ha penalizzato il film, distogliendo i giudizi. D’altronde il titolo originale la dice tutta: “Stealing Beauty” significa “rubare (rapire, sottrarre) la bellezza” ed è la stessa che gli spettatori si portarono a casa dal cinema.

ps.. piccola chicca nascosta nel mio romanzo.. come si chiama la band fondata da Johnny Castellani, uno dei protagonisti di “Verrà il tempo per noi”? Sì, proprio “Stealing Beauty”! 🙂

Checco Zalone: il fenomeno è servito!

Con 18 milioni di euro incassati in meno di una settimana al botteghino, si può ben dire che sia nata una nuova stella: Checco Zalone! I milioni di euro sono poi saliti vertiginosamente, tanto che la sua “bella giornata” ha superato addirittura il film di Benigni, vincitore del Premio Oscar, “La vita è bella”.Sorprendente che il simpatico comico e cabarettista barese abbia soverchiato tutti i pronostici natalizi, scalzando dalla posizione di vertice il trito e ritrito “cinepanettone” targato Neri Parenti-De Sica- De Laurentiis, una sorta di efficace tridente cinematografico.

Come sia riuscito un umile ragazzo, popolarissimo a Zelig, specie per le sue azzeccate e spiritose parodie di cantanti famosi, ma autentico outsider alla prova del grande schermo, a reggere l’urto di blockbuster americani come “The Tourist” dell’inedita coppia Depp/Jolie e affermati artisti nostrani come Aldo, Giovanni e Giacomo e Silvio Muccino, è un argomento ancora in divenire.

Voglio provare un po’ ad analizzare il nuovo fenomeno cinematografico italiano.

 
 
 Primo Punto: è sostanzialmente un cabarettista, forte di un seguito di fedelissimi fans raccattati in questi anni grazie alla celebre trasmissione televisiva condotta da Claudio Bisio (tra l’altro finito di recente anche lui a mietere un successo dietro l’altro al cinema).L’assunto è veritiero ma prima di lui vi erano stati altri numerosi casi di comici zelighiani acclamatissimi che non seppero replicare le proprie fortune al di fuori della scatola televisiva. Pensiamo ai bravissimi Ficarra e Picone, che con disinvoltura passano dalla conduzione di Striscia la Notizia a film di incassi come “La matassa”. Anche loro se la sono cavata benone alla prova cinematografica ma riscontrando nemmeno di striscio un successo pari a quello di Checco.

E prima di loro avevano fallito la prova altri due assi del cabaret, per il quale sembrava scontata una piena affermazione lontana da Zelig: parlo di Ale e Franz.

Cosa distingue allora l’affermazione su vasta scala di Zalone? Una prima risposta potrebbe essere il fatto che lui si sia di molto staccato dagli stilemi televisivi che lo hanno fatto emergere. Nel grande schermo lui inscena un personaggio altro rispetto all’irriverente comico che irride mostri sacri della musica nostrana come Jovanotti o Sangiorgi dei Negramaro.

In questo senso si può affermare senza timore di essere smentiti che lui ha provato a smerciarsi dal proprio personaggio e dai suoi clichè.

Secondo punto: cosa cercano gli italiani in un film come “Che bella giornata!”?

Lungi dal voler fare un’analisi scientifica di un fatto che invece tocca la sfera dei gusti personali, il primo pensiero che mi viene in mente è che si cerchi soprattutto il disimpegno e lo svago. Non potrebbe essere altrimenti in una commedia leggera all’italiana… Tuttavia è un po’ vago affermare che sia poi così lontano dalle commedie vanziniane e dalle recenti escursioni esotiche di De Sica & Co.

In fondo già nel precedente film di Zalone (“Cado dalle nubi”), uscito poco meno di un anno fa, facevano da sfondo e non solo (in alcuni casi sostenevano tutta la storia) tutta una serie di gag, di freddure, che non sembravano discostarsi tanto dai territori più conosciuti dei cinepanettoni.

Certamente non si rasentavano le volgarità gratuite ma in fondo tutto il proscenio era rappresentato da Checco e dalle sue battute fulminanti, legate a doppio filo a tutta una serie di luoghi comuni e piccanti doppi sensi. Il tutto miscelato dall’originale personalità del comico che faceva della sua finta ignoranza un vessillo di credibilità e una chiara dichiarazione di intenti.

Anche in “Che bella giornata” sono presenti i numerosi doppi giochi, i non sense e i luoghi comuni la fanno da padrone, questa volta incentrati maggiormente sulla paura e il sospetto del “diverso”, ragion per cui il film, prima ancora di uscire, portava già con sé un’eco di velata accusa di razzismo gratuito.

Qui però mi sento di dissentire in pieno e di assolvere completamente l’attore.. In Italia a quanto pare in pochi sembrano conoscere l’arma dell’ironia che a volte riesce nel migliore dei modi a tratteggiare la realtà in cui stiamo vivendo.

La macchia Checco Zelone, lontana dal divenire una screditante “macchietta”, funziona alla perfezione per il pubblico che intravede in lui finalmente un interprete magistralmente genuino e spontaneo che per una volta sembra mettere d’accordo tutti, da nord a sud. Certamente sono privilegiati i meridionali che possono godere appieno dell’inflessione dialettale e dell’efficacia delle battute. Io non sempre riuscivo a capire tutte le sfumature linguistiche del film ma sono riuscito a compensare questa mia lacuna (appurata la mia provenienza nordica) grazie alla mia fidanzata che, pur parlando il dialetto veneto meglio di me, è pugliese doc, essendo originaria della provincia di Foggia.

Vedremo se nel prossimo film Checco Zalone riuscirà a soddisfare le (a questo punto) notevoli aspettative di tutti gli appassionati del genere e non, visto che spesso è dal successo di questi film altamente commerciali che si decidono il destino di altre produzioni italiane, votate ad una proposta di qualità e per questo quasi sempre di nicchia… perché tornando al quesito sollevato all’inizio, l’italiano vuole essenzialmente lo svago e il divertimento.