In occasione dell’uscita recente della loro ultima fatica discografica “Giorni dell’Eden” – sempre sotto il marchio Mescal, tra le più attive di tutta la scena musicale italiana – approfittiamo di fare due chiacchiere con Luca Lanzi, da sempre voce, anima e leader storico della “Casa del Vento”, collettivo ormai sulla scena da più di 20 anni. In questo modo cercheremo di capire dai diretti interessati non solo l’evoluzione del loro percorso, ma anche approfondire certe tematiche sulla differenza di un ruolo che rivestiva la musica negli anni ’90 rispetto a oggi.

Ciao Luca, vi seguo da sempre, e ho notato che voi siete tra i principali gruppi ancora attivi da vent’anni a questa parte che, pur cambiando rotta a livello di genere, avete mantenuto una continuità di percorso, soprattutto a livello di “messaggio”, che nel vostro contesto è stato sempre qualcosa di ben più che funzionale all’aspetto musicale. Quanto sentivate “urgente”, nei primi anni, l’esigenza di comunicare il vostro pensiero sulla società in genere, esponendovi sempre in maniera chiara e netta? Qual’è stata in pratica la scintilla che ha fatto scattare in voi la molla giusta per dire “ok, buttiamoci nella mischia e proviamo a fare qualcosa di concreto”?
– Iniziammo nell’autunno del 1991, suonando musica irlandese pensando che certa musica di stampo folk rappresentasse al meglio la possibilità per comunicare emozioni, idee e stati d’animo. Certi artisti che ascoltavamo poi, se da una parte davano idea di grande energia, dall’altra tracciavano dei messaggi con la musica. Uno come Shane McGowan scrisse con i Pogues storie di emigrazioni, desolazione sociale, amore e tenerezza. Insomma, senza saperlo piano piano facemmo nostro quel linguaggio e cominciammo a definire melodie sulle quali adattare la scrittura di parole. Nacquero canzoni come “Pioggia nera” e “Inishmore” che ancora fanno parte del nostro live. Sentirsi inoltre parte di una certa “working class” e alcune memorie di famiglia (ad esempio l’uccisione di mio nonno in una strage nazi-fascista nel 1944) ci hanno portato a voler descrivere tutto questo attraverso le canzoni.
I temi delle nostre canzoni furono da sempre coraggiosi e molte persone cominciarono a frequentare i nostri concerti. Sentivamo il bisogno di fare cultura e movimento.
Senza per forza etichettare o distinguere che genere sia migliore o più “vero” di un altro, io da amante di certi suoni generalmente associati al folk, ho sempre pensato che quando un gruppo prende in mano strumenti dal gusto popolare sia perché mosso da una passione autentica, che ha radici lontane. Voi ad esempio siete stati tanto influenzati nella prima fase del gruppo dai ritmi irlandesi, immagino che sia stata una passione comune, legata a qualcos’altro di oltre la musica. Quando vi siete avvicinati a questo tipo di sound vi chiamavate pure in gaelico, e sul palco sprigionavate una tale energia dalla quale era arduo non farsi contagiare. Com’è maturata l’idea di convertirsi alla lingua italiana, pur mantenendo una struttura musicale facilmente riconducibile a un’altra cultura?
– Raccontando noi stessi. Pensa che quando scrissi le parole di “Pioggia nera” lo feci perché stavo realmente decidendo di andare a vivere in Cile, destinazione Santiago. Ero disoccupato e una scuola italiana mi stava offrendo un lavoro. Cominciò una fase di passione fortissima, di pacifismo militante, di recupero della memorie dei fatti della Resistenza. Una scoperta e una ricerca anche per noi stessi.
Quindi era necessario scrivere in Italiano, anche perché era proprio alle persone del nostro paese che volevamo rivolgerci.
Dai primi concerti alla prima uscita ufficiale sono passati quasi dieci anni, non si può certo dire che non abbiate fatto la classica gavetta. L’incontro con Cisco dei Modena City Ramblers (gruppo col quale eravate già in amicizia e con i quali erano evidenti grandi affinità) è servito certamente a darvi notorietà. Che ricordi associ a quell’esperienza?
– Conoscemmo Cisco e Giovanni Rubbiani a Parma, nel 1995, durante un nostro concerto a Parma al mitico Onirica. Loro si entusiasmarono per l’energia e in qualche modo ci considerarono i loro alter ego toscani.
Fu un anno dopo che chiesero a Francesco Moneti e Massimo Giuntini – rispettivamente il nostro violinista e il nostro cornamusista – di entrare nei Modena. Coinvolsero anche me come tour manager. La situazione però divenne molto precaria per noi perchè Francesco e Massimo restarono con i Modena. Io e Sauro Lanzi, in pratica rimanemmo soli. Io decisi di chiudere l’esperienza on the road con i Ramblers perché volevo rimanere nella musica, ma come artista. Fortunatamente trovammo altri musicisti: il violinista inglese Patrick Wright, il batterista fiorentino Fabrizio Morganti e l’attuale bassista Massimiliano Gregorio.
I contatti con Cisco restarono però costanti e sapevo della stima che lui provava per le nostre canzoni. Per questo volle dare concretezza a tutto ciò mettendosi in gioco e realizzando con noi “900” il nostro primo album. Era il 2000 e un pubblico ben più ampio cominciò a conoscere la Casa del Vento. Il disco fu prodotto da Mescal e con la produzione artistica di Kaba Cavazzuti. L’esperienza in studio fu dura ma anche molto formativa.
Man mano che andavate avanti con la carriera, i suoni si sono fatti più levigati, senza però andare a inficiare sui testi, sempre votati all’impegno, al recupero della memoria e a temi di forte impatto sociale. E la poesia ha preso il sopravvento, almeno io ho notato davvero una spiccata vena poetica che ha impresso tanta profondità alla schiettezza. Scelta ponderata immagino o frutto di una nuova consapevolezza, di desiderio di esplorare strade nuove?
– Diciamo che in ogni album abbiamo usato entrambi questi approcci. Le cose da dire hanno determinato il tipo di canzone. Ne “Il grande niente” coesistono brani come “La meglio gioventù”, canzone contro la mafia, e brani come “Alla fine della terra” dedicato alla tenerezza del vivere momenti bellissimi con le persone a te care: una sorta di fiaba. Talvolta era necessario essere diretti, altre volte invece preferivamo usare poesia e metafora.
Ho spesso notato che la maggior parte delle band quando fanno uscire un “best” scrivono un paio di inediti che risultano essere quasi dei “riempitivi” a giustificare la carrellata di canzoni più famose. Nel vostro caso invece non ho avuto dubbi nello specificare come uno dei miei brani preferiti vostri sia proprio un inedito della raccolta, “Il fuoco e la neve”, senza tener conto dell’alta qualità di tutti gli altri che, assieme al recupero di pezzi vecchi, anche riarrangiati, danno davvero un’immagine esaustiva del vostro percorso. Ora invece sembra che sempre più prevalga cogliere l’istantaneo, il momento. E’una caratteristica della sempre più frenetica società di oggi, dove la tecnologia e la rete hanno permesso a dismisura che tutti potessero intasare il mercato, magari grazie a trovate che poco c’entrano con la musica stessa, oppure pensate che Internet possa avere dato linfa a band che non avrebbero avuto spazio, considerata la crisi attuale che ha investito anche il settore discografico musicale? Insomma, pro o contro questo nuovo sistema: era meglio negli anni ‘90, quando c’erano iter ben precisi da percorrere o adesso, grazie a un sistema che molti arditamente definiscono come “democratizzare la musica?
– È indubbio che internet sia uno strumento importante per comunicare la propria musica.
Per assurdo però la gente si muove di meno. S’incontra sul web, ma (mi sembra) meno di persona; gira più musica ma ci sono meno occasioni per suonare e questo è un male soprattutto per le giovani band. Prima c’erano alcuni programmi come Roxy Bar che tutti, ma proprio tutti vedevano. Ora ti puoi fare i video e pubblicare la tua musica che però non sempre arriva. È difficile fare quel salto utile per essere più conosciuti.
Noi preferiamo ponderare un po’ le cose, registrarle e creare delle occasioni d’incontro con il pubblico. “Il fuoco e la neve” ad esempio è una canzone sulla coerenza; una riflessione sul proprio cammino e sulle proprie fragilità.
Negli anni ‘90, inizi 2000, siete stati immancabilmente correlati a una scena, quella del combat folk. In effetti era palese una dichiarazione d’intenti e un’attitudine molto simile per molti gruppi ivi inseriti. Quanto sentivate forte questa “unione” e comunanza d’intenti? Sarebbe ancora possibile oggi che tutta una serie di band alternative riuscisse a emergere, facendo leva appunto su questioni comuni? A me pare che ci sia sempre più una chiusura tra le band, delle nicchie, e raramente delle aperture ad ampio raggio. Alcuni gruppi emergono per qualità oggettive ma forse manca il riconoscimento della gente, che invece va a premiare quasi sempre i personaggi del momento. Come vedete il futuro dei giovanissimi che, magari come voi, iniziano a provare per divertimento, per stare assieme, per condividere una passione o un sogno? Devono rassegnarsi a passare per uno dei numerosi talent musicali?
– A parte un certo legame con Cisco e con i Modena non è che siamo riusciti a interagire molto; diciamolo pure senza peli sulla lingua che alcuni artisti anche geograficamente vicini a noi non ci hanno mai considerato. In definitiva e onestamente penso che le band si parlino molto poco. I motivi non saprei definirli, prendi la cosiddetta musica “indie”. Mai si sognerebbero certe band di mischiarsi con band come la Casa. Noi invece abbiamo cercato di collaborare con molti artisti anche molto diversi da noi: Elisa, Ginevra di Marco, David Rhodes. Per fortuna artisti immensi ti incontrano, si emozionano e partono da New York perché vogliono collaborare e registrare con te.
Consiglio ai ragazzi di essere se stessi, di esprimere le proprie emozioni, di essere onesti e umani nel loro tentativo di comunicare.
Ma i talent show no, please! L’arte, la musica non può essere solo usa e getta.

Trovo “Giorni dell’Eden” molto caldo, affascinante nei temi, dove ricorrono spesso elementi primordiali legati alla natura. Un disco dai suoni vividi, chiari, rivelatori di una capacità melodica forse mai espressa prima, che avvolge ma anche come sempre fa riflettere. Risaltano nella loro diversità in particolare due brani, quello d’apertura “Portato dalle nuvole”, insolitamente dotata di un ritornello cantabilissimo, di quelli che ti entrano in testa sin dal primo ascolto e l’interessante, dolcissimo duetto con Viola in “Icarus”, uno dei miei brani preferiti. Un disco che mette in mostra un gruppo nel pieno della forma, specie dopo l’incontro con un’Artista con la A maiuscola come Patti Smith, in grado di riconoscere in voi il talento come forse mai hanno fatto nella maniera adeguata certi media italiani. Cosa vi aspettate da questo nuovo lavoro e com’è stata la reazione in generale che avete percepito nei vostri sostenitori? Per chiudere in bellezza, dovessi mai scrivere un altro saggio sui gruppi dei 2010, voi contate di esserci ancora con tante nuove idee e progetti: quali sono le vostre sensazioni, sentite ancora quell’entusiasmo dei primi giorni, lo spirito che vi accompagnava?
– “Giorni dell’Eden” è un album di grandissima intensità, coraggioso e per noi molto affascinante. E’ anche – crediamo – molto godibile e avvolgente in certe canzoni che tu menzionavi.
È un disco che si regge sulle metafore per il raggiungimento di una propria salvezza dopo anni di lotta e ferite. “Don’t give up” diceva Peter Gabriel, “Don’t fear… I will be there to dry your tears” cantò Patti Smith improvvisando nel nostro brano “Ogni splendido giorno”.
L’incontro con Patti Smith doveva lasciare una traccia e l’ha lasciata. Non volevamo ripetere le solite ricette; volevamo stupire noi stessi e il pubblico con canzoni intense. La critica lo ha apprezzato; anche chi in passato ci stroncava ora ha cambiato opinione. Poi noi restiamo la Casa del Vento e certi mondi rimangono per noi un tabù. Pensiamo che se una rock star chiede ad una band italiana di realizzare con lei 2 dei 12 brani del suo album “Banga” pubblicato mondialmente, i media di questo paese dovrebbero dare a questa cosa il giusto rilievo. Cosi non è stato il che dimostra come siamo messi in Italia.
Con orgoglio andiamo avanti consapevoli e forti di ciò che abbiamo fatto tant’e’ che stiamo progettando un album dal vivo con tanto di documentario-dvd sulla nostra storia.
(Gianni Gardon)