Sono stati resi noti i vincitori delle Targhe Tenco 2022, in un’edizione che non vedeva dei favoriti assoluti alla vigilia (e meno male…) e che pertanto portava in dote un alone di mistero e di curiosità su chi alla fine si sarebbe aggiudicato l’ambito riconoscimento.
C’è da ammettere comunque che, pur regnando un certo equilibrio, con alcune categorie in particolare dove si è giocato punto a punto (mi riferisco soprattutto a quella della miglior Opera prima e dell’Album collettivo a progetto), una volta svelati i nomi dei cinque finalisti tutto sommato non si è assistito a grandi sorprese.
MIGLIOR ALBUM IN ASSOLUTO
MARRACASH – “Noi, loro, gli altri”
OPERA PRIMA
DITONELLAPIAGA – “Camouflage”
CANZONE SINGOLA
“O Forse Sei Tu” – scritta da ELISA TOFFOLI e DAVIDE PETRELLA
cantata da Elisa
INTERPRETE DI CANZONI
SIMONA MOLINARI – “Petali”
ALBUM IN DIALETTO
‘A67 – “Jastemma”
ALBUM COLLETTIVO A PROGETTO
“The Gathering” prodotto da FERDINANDO ARNÒ
I vincitori ritireranno le rispettive Targhe al Teatro Ariston – Sanremo
RASSEGNA DELLA CANZONE D’AUTORE (PREMIO TENCO)
20, 21, 22 OTTOBRE 2022
Personalmente, anche se non si sono affermati tutti i nomi che avevo votato al ballottaggio, non mi viene da gridare allo scandalo visti gli esiti finali.
Ecco quindi nel dettaglio un mio commento su questa edizione, con considerazioni sparse sui vari protagonisti.
MIGLIOR ALBUM IN ASSOLUTO
Ad aggiudicarsi la Targa più ambita è stato quindi Marracash, che con 53 voti ha battuto con qualche brivido quella che era forse la sua rivale più accreditata, vale a dire Cristina Donà (che si è fermata a 47 preferenze totali). Più staccati Giovanni Caccamo e Max Manfredi, rispettivamente con 42 e 38 voti, mentre terminano ex aequo i due outsidersErica Boschiero e Federico Sirianni che chiudono la posta in palio in modo comunque dignitoso, raggranellando 20 preferenze.
Erano tutti dischi a loro modo gradevoli e di qualità, che in una Rassegna d’Autore dovrebbe sempre valere come primo requisito, ma forse in effetti quello di Marracash, su cui all’inizio non avrei scommesso molto, si stagliava di netto non solo a livello stilistico ma proprio per l’immaginario evocato.
Al ballottaggio ho votato proprio lui, pur apprezzando molto Cristina Donà ed altri artisti qui presenti (specie la Boschiero e Max Manfredi), perchè anche se magari i dischi di Caccamo e di Sirianni – validissimi nel genere – erano più conformi alla storia del Tenco, secondo me mancavano di quel quid in più per sbaragliare un nome “forte” come quello del rapper milanese.
Tornando alla Donà, che seguo da inizi carriera con molta passione, dal mio punto di vista non ha realizzato il suo lavoro migliore, pur essendo “DeSidera” una spanna sopra la miriade di produzioni che ogni anno viene immessa sul mercato.
MIGLIOR OPERA PRIMA
Nella sezione che aveva destato più “scalpore” (le virgolette sono d’obbligo, pur sempre di musica in fondo si sta parlando) per la presenza massiccia di artisti di forte matrice pop-mainstream, per un nonnulla si stava per consumare il “colpo grosso” da parte di un progetto artistico sulla cui sostanza “d’autore” nessuno ha proprio da eccepire (e a cui ho dato fiducia sin dalla prima fase delle votazioni).
Se Ditonellapiaga (artista in fortissima ascesa dopo la positiva partecipazione al Festival di Sanremo) alla fine ha vinto come ci si poteva aspettare, lo ha fatto con un solo punto di vantaggio rispetto al duo Djelem do Mar composto dalle talentuosissime Sara Marini e Fabia Salvucci, accompagnate da un pool di musicisti eccellente: 51 a 50 il verdetto finale quindi a favore della romana Margherita Carducci ma con un bel po’ di suspense!
Il “grande sconfitto” a questo punto è stato Blanco (45 preferenze), il ragazzo che in coppia con Mahmood aveva sbancato il Festival e che era percepito alla stregua di un asso pigliatutto… francamente, però, la sua musica, che potrà pure avere un valore per i tanti giovani che lo seguono, è al momento molto lontana da ciò che una manifestazione come il Premio Tenco dovrebbe veicolare.
Più staccate le due giovani Isotta (28 voti) e Ariete (27), molto differenti come proposta musicale, con la seconda già proiettata verso il successo di massa, col suo it-pop non così lontano da quello di tanti ragazzi di “Amici”.
MIGLIOR CANZONE
Ho sperato vincesse Alessandro D’Alessandro, magnifico musicista (qui coadiuvato da gente del calibro di Elio e David Riondino), autore di una canzone deliziosa e in un certo senso arguta; il fatto che tra i competitor ci fosse una fuoriclasse della nostra musica pop come Elisa rendeva la faccenda (per lui e per gli altri concorrenti in lizza per la Targa) molto complicata.
Mi concedo ora una digressione, d’altronde questo è un blog personale e ogni giurato avrà i suoi gusti e le sue idee.
Nulla da dire sulla bravura di Elisa, però quante volte mi è già “uscita” la parola “Pop” in questo articolo? Ecco, il succo delle tante polemiche, che da anni si abbattono puntualmente su questa storica e amata Rassegna, sta tutto lì, in questa apertura a brani e artisti di area commerciale che un tempo, nemmeno troppo lontano, non sarebbero mai stati accostati a Luigi Tenco, ma tant’è… pur non condividendo appieno questa nuova politica, credo che difficilmente si potrà tornare indietro e ammetto che l’inserimento di certi nomi in cartellone abbia avuto anche l’effetto di avvicinare un pubblico maggiore alla manifestazione. Chiusa partentesi.
La Toffoli, tutto sommato, non ha certo demeritato con quella “O forse sei tu” che già era notissima sin dal Festival di Sanremo, però forse da parte della Giuria si poteva “osare” di più.
Alla fine dieci voti di differenza non sono pochi tra lei e D’Alessandro (53 a 43), eppure dal punto di vista qualitativo lo scarto non era poi così netto.
Si sono difesi bene anche Zen Circus e Brunori Sas che in coppia con la loro “generazionale” canzone “Ok Boomer” (titolo pessimo!) hanno raccolto 41 preferenze, facendo meglio di CristinaDonà (34, e quindi rimasta all’asciutto nonostante avesse due nominations in gara), di Andrea Tarquini (la sua “In fondo al ‘900”, classica canzone da “Premio Tenco”, si è fermata purtroppo a 26 punti) e di Rancore, che con l’interessante “Freccia” ha convinto solo 18 giurati.
MIGLIOR INTERPRETE DI CANZONI
Confidavo in una vittoria di Olden, che eseguendo dei brani inediti di Gianni Siviero ha realizzato un album di indubbio valore, ma non avevo fatto i conti con l’appeal ancora forte esercitato dalla bravissima Simona Molinari (alla fine impostasi proprio sull’artista perugino per una decina di preferenze: 53 a 43).
Il fatto è che in passato la Molinari aveva fatto di meglio, quindi mi ha abbastanza sorpreso che abbia conquistato lei la Targa. In ogni caso non posso dire che il suo sia un brutto disco, anche se la mia preferenza era andata appunto altrove.
L’equilibrio alle spalle della vincitrice è stato assoluto, se pensiamo che dietro Davide Sellari (alias Olden), i validi Peppe Barra, Cristina Zavalloni e Mario Venuti hanno rispettivamente accumulato 42, 41 e 40 preferenze.
MIGLIOR ALBUM IN DIALETTO
Mi ha sorpreso positivamente, invece, l’esito di questa sezione – che ritengo da sempre la più affascinante -: in cinquina erano arrivati alcuni “mostri sacri” come James Senese, Nino D’Angelo e Davide Van DeSfroos, eppure ad aggiudicarsi la prestigiosa Targa sono stati gli ‘A67, autori di un album pregevolissimo come “Jastemma”.
Posso ritenermi soddisfatto perchè, anche se al ballottaggio avevo indicato il bellissimo disco di NinoD’Angelo, al primo turno tra i miei tre nomi avevo con convinzione inserito anche il gruppo di Scampia, in grado poi con 54 voti totali di battere sul filo di lana il fuoriclasse James Senese (che ha chiuso con 53 preferenze).
Più staccati D’Angelo (48), Davide Van De Sfroos (46) e soprattutto la bravissima Manutsa (solo 19 giurati hanno speso il suo nome), in lizza con un album contaminato, intenso e viscerale: sono sicuro che sentiremo parlare a lungo di lei.
MIGLIOR ALBUM COLLETTIVO A PROGETTO
Infine, anche per la sezione più particolare, quella degli album a progetto, c’è stato un testa a testa finale che ha tenuto col fiato sospeso.
A vincere la Targa è stato “The Gathering”, prodotto dal valente Ferdinando Arnò con 54 preferenze, contro le 52 di “Parole liberate”, e per quanto io avessi votato al ballottaggio quest’ultimo disco, devo ammettere che l’affermazione di Arnò è meritata, trattandosi di un disco davvero molto interessante e suggestivo.
Più indietro, a livello di punteggio, sono finiti “Lella per sempre” (29) e, a pari merito, “Capo Verde, Terrad’amore. Il vinile” e “Music for Change #21”, con 26 voti.
POSTILLA FINALE
Chi mi legge su questo blog (ma spero pure altrove) avrà capito che mi interesso e mi occupo di musica d’autore anche una volta spenti i riflettori sul Premio Tenco; anzi, spesso durante l’anno mi piace dedicare spazio ad alcuni dischi e progetti di qualità che, a mio avviso ingiustamente, faticano ad emergere e a trovare collocazione in altri contesti.
Eppure in questo mese, o meglio, principalmente a ridosso dell’elenco dei finalisti – e ovviamente una volta conosciuti i vincitori – la Rassegna e le Targhe in particolare diventano quasi un trend topic fra gli appassionati di musica; per lo meno è ciò che accade nella mia “bolla” social (molto frequentata da cultori musicali, addetti ai lavori, giornalisti e musicisti), come se davvero ci fosse un interesse tangibile per le sorti della nostra canzone d’autore.
Il più delle volte però il tutto si riduce a scontro dialettico, a polemiche senza fine, talvolta anche costruttive e sensate, ma più spesso inconcludenti e faziose, tanto che verrebbe voglia veramente di dire agli interessati che nessuno è obbligato a scrivere o parlare del Tenco, come in realtà di nessun argomento se veramente non c’è un reale interesse.
Di musica d’autore (questo è il topic del mio post, se non lo si è capito, e ciò che mi sta più a cuore) se ne produce per fortuna ancora tanta in Italia, e di buona fattura: per fortuna non tutto dipende da un Premio, seppur importante come questo, o da quanto si è noti e conosciuti.
Basta informarsi, cercare, ascoltare, tenere le orecchie dritte e attente, e avere soprattutto sempre accesa la lampadina della curiosità e della passione: solo così non troveremo più motivi di lamentarci che la musica contemporanea “fa schifo”!
Quando iniziai questa rubrica, intitolata fieramente (e consapevolmente) “La canzone d’autore resiste”, si era nel mezzo di quel dibattito che puntualmente, come un orologio svizzero, si anima all’indomani dell’annuncio dei vincitori delle Targhe Tenco, riconoscimenti prestigiosi che vanno a premiare i migliori lavori suddivisi per categorie.
A dire il vero, il dibattito ha una sua prima parte nel momento in cui vengono elencati, a giugno, i nomi dei cinque finalisti in lizza per le suddette targhe, ma, insomma, ci siamo capiti: per un (seppur breve) specifico lasso di tempo, almeno nella mia bolla (si dice così vero?) non si fa altro che lanciarsi in commenti e giudizi, che spesso non si limitano a rimanere nel campo del “secondo me meritava Tizio…”, oppure “non capiscono un cavolo, come hanno fatto a far vincere Caio?”, ma vanno oltre, senza contare quelli che puntualmente arrivano a dire che è tutto già scritto e si sanno già i vincitori mesi prima…
Ormai non partecipo più a queste diatribe, ma posso almeno dire che, figurando con orgoglio tra i giurati della rassegna, ho sempre votato in totale autonomia e ho sempre scelto secondo il mio criterio, con scrupolo e passione… di presunte pressioni (che ridere!) di case discografiche e uffici stampa non ne ho mai avute.
Ma al di là di questo, e mi rendo conto che il Direttivo ci abbia messo del suo in tal senso, la discussione nei mesi precedenti riguardava più il concetto stesso di canzone d’autore, per alcuni a quanto pare ormai forma desueta di espressione… o peggio, non esiste più, non occorre fare una distinzione, cosicchè (cit.) “esistono solo due tipi di musica, quella buona e quella cattiva”, antico adagio già in uso dal buon PinoScotto, per i più avvezzi a certe sonorità rock.
Scherzi a parte, il fatto che io abbia voluto inaugurare questa rubrica la dice lunga sul mio pensiero in merito: a mio avviso, la canzone d’autore si sarà pure rinnovata (ci mancherebbe!), si sarà contaminata ma esiste (e resiste) eccome, e con questi dieci articoli tematici ho voluto quanto meno puntare l’attenzione su determinati album che, indipendentemente dal mio ruolo di critico, mi sono piaciuti molto e che possiedono peculiarità tali da farli inserire in uno specifico filone.
Dieci sono anche pochi, per me infatti la canzone d’autore si annida felicemente in ambiti più noti della (pur pregevole) nicchia da qui ho attinto: i nomi sono quelli celebri di Samuele Bersani (che si è aggiudicato proprio la Targa per il miglior album dell’anno in assoluto), Pino Marino (pregevole il suo ultimo “Tilt”), Paolo Benvegnù, Lucio Corsi, Cristina Donà, Vasco Brondi (che ho recensito con entusiasmo sulla rivista Vinile), i più sperimentali Amerigo Verardi e Iosonouncane, ma anche Olden (che si è ripetuto a distanza di un anno con un disco altrettanto valido) e Andrea Chimenti (entrambi recensiti da me sul sito Indie For Bunnies), Emma Nolde o, perchè no?, la stessa Madame, che tra mille polemiche si è portata a casa ben due Targhe, per il miglior disco d’esordio e addirittura per la miglior canzone dell’anno con “Voce”, già presentata con grandi riscontri al Festival di Sanremo.
Tanti altri nomi li avrò pure scordati, ma il succo della questione è che la canzone d’autore fa parte del dna degli artisti italiani, ci sarà sempre qualcuno che inizierà a suonare perchè folgorato dalle opere di gente come De Andrè, Dalla, De Gregori, Mia Martini, Lolli, Guccini, Fossati, Capossela e così via: il nostro patrimonio è immenso, e i nomi citati hanno sempre avuto a che fare con una controparte “commerciale”, anch’essi insomma hanno convissuto con la musica “usa e getta”, quella più smaccatamente pop, leggera…
Le due parti si sono sempre incrociate nella storia della musica, ma ciò non ha impedito a questi “grandi” di fare la propria strada, seguendo una vera inclinazione. Per questo dico che potrebbe benissimo uscire ancora oggi un artista che volesse ambire a proporre qualcosa di diverso da quello che dice o vuole la massa: alla fine a fare la differenza è sempre la qualità, non solo ciò che è più trendy su Spotify (piattaforma che pure utilizzo molto, proprio perchè ti da’ modo di ascoltare tutta la musica che vuoi, a tutte le latitudini).
Scusate il pistolotto, non me ne voglia soprattutto il protagonista dell’ultimo scorcio di questo viaggio attraverso la canzone d’autore, ma mi sembrava giusto riaffermare un mio punto di vista, prima di arrivare al focus dell’articolo.
Last but not least, oggi finalmente mi va di dedicare qualche riga a un album che ho ascoltato con interesse, e che mi ha trasmesso molto: ogni singola parola, ogni suono, le atmosfere evocate, l’interpretazione, i tanti significati, insomma, il disco di Patrizio Trampetti ha un contenuto importante, di valore, e lo si capisce bene sin dal suo titolo, così amaramente ironico: “‘O Sud è fesso”.
Patrizio Trampetti in una foto inserita nel libretto del suo cd “‘O Sud è fesso”
Anch’esso in lizza per una Targa Tenco (nella fantastica categoria degli “album in dialetto”), bisogna ammettere che aveva i numeri e le qualità per ambire pure al bersaglio grosso, essendo il suo tra i migliori lavori pubblicati quest’anno.
Non ha vinto ma la concorrenza era davvero agguerrita, e credo nessuno possa in fondo sindacare sull’affermazione dei Fratelli Mancuso (di cui scrissi in tempi non sospetti su questo blog), autori di un album meravigliosamente suggestivo.
Di tutt’altra indole musicale appare il suo “‘O Sud è fesso”, che mostra come detto un equilibrio perfetto delle parti: parole, musiche, strumentazione, arrangiamenti, ospiti a collaborare, tematiche, rimandi, atmosfere.
L’artista napoletano aveva davvero molto da dire, diverse erano le storie chiuse nel cassetto (alcuni episodi risalgono veramente a tanti anni prima, vedremo poi nel dettaglio) che necessitavano di prendere vita e di essere divulgate, perchè la bellezza in fondo non ha una scadenza, e allora ben venga che proprio nel 2021, in un periodo che ricorderemo per sempre, Trampetti ci abbia fatto dono di questo piccolo scrigno di gioielli.
L’introduzione mette subito in chiaro quale sarà il tenore dell’opera: “Villaggio Vomero” fotografa già uno specifico spicchio di quel Sud evocato nel titolo, e il brano (recitato magistralmente da GianfeliceImparato e Angelica Ippolito) è paradigmatico dell’ambivalenza insita nella città di Napoli, stupenda anche con le sue contraddizioni: “Non mi piace più questa città…veramente non mi è mai piaciuta…e tanto non mi piace che a volte…mi piace tanto per un niente!”.
Segue la magnifica title track, dall’apparato rock, grazie a una produzione mirata di Jennà Romano (già con i Letti Sfatti), il quale ha il merito di rinvigorire e dare nuova linfa al sound, con inserti chitarristici preziosi e una collaborazione che si estende in generale anche in fase di scrittura e composizione.
Il singolo è corredato inoltre da un videoclip che assomiglia a un piccolo film, girato da ADC Produzioni per la regia di Lorenzo Cammisa, con protagonisti, oltre allo stesso Trampetti, le splendide RosaliaPorcaro e Gina Amarante.
Proseguendo ci si imbatte nella briosa “L’ora da cuntrora”, tra i pezzi più caleidoscopici e coinvolgenti, grazie anche all’apporto di Ambrogio Sparagna.
L’atmosfera cambia radicalmente con “Canzone ‘e niente”, una di quelle tracce realizzate molti anni prima, visto che un suo provino era stato realizzato da Trampetti addirittura nel 1983 e presentato a PinoDaniele, in previsione di una collaborazione con la Nuova Compagnia di Canto Popolare (dove all’epoca il Nostro ancora militava) allora in cerca di rilancio. Non se ne fece nulla ma finalmente il brano ha visto la luce, e in effetti il suo andamento, lo stile melodico e struggente, può ricordare quello del compianto cantautore che ci ha lasciati poco meno di sette anni fa.
E a proposito della vecchia band di Trampetti, la storica sigla dei NCCP si intreccia nuovamente con il suo presente, grazie alla partecipazione dell’inconfondibile voce di Fausta Vetere, che con lui duetta nell’intensa “Ammore”.
Prima ancora però l’autore ci aveva stupito con una canzone assai toccante, ispirata, di quelle che fanno respirare l’aria buona e che trasudano amore e rispetto per la tradizione. E’ bellissima la genesi di “‘O mare”, che Trampetti e il sodale Romano hanno realizzato insieme ai ragazzi di un centro di riabilitazione mentale. Il gruppo Meglio Insieme è intervenuto attivamente e ne è uscita una canzone che mostra una volta di più come l’incontro tra due realtà diverse può dar vita a qualcosa di unico e straordinario, con la musica che può veramente essere terapeutica.
Un’altra interessante collaborazione è quella con Giovanni Sorvillo, leader dei Tiempo Antico nella raffinata “Chiove”, dai toni jazz; su coordinate stilistiche simili si muove “Senza passione”, anche se rivestita di un arrangiamento più versatile, che ci proietta nei favolosi sixties.
Con le rimanenti ultime due tracce, il cantautore napoletano si congeda all’insegna di un intimismo sofferto ma non dimesso, dove in primo piano finiscono giocoforza le emozioni primordiali, quelle connaturate che non si possono più contenere, a iniziare dalla crepuscolare “E’ tardi”.
L’atto finale invece è appannaggio di “Lacreme”, commovente brano che si rifà ad alcuni passaggi delle lettere di condannati della Resistenza, interpretate da Sandro Ruotolo: è un episodio emblematico del disco, che ne conferma una volta di più il grande spessore e il peso specifico in una stagione in cui la canzone d’autore, riallacciandomi alla mia lunga introduzione, ha ancora una sua importante ragion d’essere.
Il nome di Giancarlo Frigieri potrà dire poco in ambito mainstream ma al contrario è ben noto per chi invece la musica ama scovarla nel sottobosco underground, popolatissimo da artisti che, come lui, continuano a percorrere una strada personale, autentica e lontana da certi clamori e strombazzamenti.
Il cantautore sassolese è stimato e rispettato da sempre nell’ambiente alternativo, ma sarebbe il caso che qualcun altro si approcciasse alle sue canzoni e ai suoi dischi, sicuro che ci sarebbe da rimaner stupiti davanti a tanta maestria e qualità, distribuite senza mezzi termini nei numerosi lavori disseminati lungo una carriera che si dipana fiera e sicura da più di trent’anni a questa parte, se consideriamo le embrionali esperienze con band come Love Flower e i più celebri Julie’s Haircut (dove suonava la batteria nella primissima fase del gruppo).
Fu però a capo dei Joe Leaman che Frigieri iniziò a mettersi in luce, fungendovi da leader e factotum musicale, impegnato finalmente anche alla voce, oltre che come autore e compositore.
I riferimenti a certi songwriters d’Oltreoceano erano ben riconoscibili, ma allo stesso tempo era evidente anche il desiderio di veicolare qualcosa di indubbiamente più vicino al proprio mondo.
La scelta di esprimersi con la lingua del Belpaese ha contribuito mirabilmente a far emergere una scrittura suggestiva, ricca, dai risvolti narrativi e piegata alla bisogna su temi più prettamente esistenziali.
Nel suo vasto catalogo, dove non si contano gli incidenti di percorso e anzi abbondano i momenti di gran pregio (pensiamo ad album come “I sonnambuli” o “Troppo tardi”), ha saputo maneggiare la materia, declinandola via via in una forma di canzone d’autore dagli echi folk e classicheggianti, con la chitarra sempre fedele compagna di viaggio e un’attenzione crescente alle parole.
Foto tratta dal sito di New Model Label, etichetta con cui è uscito anche l’album “Sant’Elena”
Frigieri infatti sembra proprio “vivere” le proprie canzoni, riesce a trasmetterci le emozioni che le hanno guidate fino alla loro pubblicazione e non si limita mai a banalizzare i concetti, seppur vi sia una chiave di lettura spesso comune fra i suoi lavori, o meglio, un humus culturale e sociale su cui intessere storie che attingono il più delle volte da una sfera privata o per lo meno vicina, con l’Emilia Romagna a farne da sfondo. Una Terra da sempre vivace, caleidoscopica, e capace di coltivare i suoi talenti, ispirandone l’apparato artistico.
“Sant’Elena”, pubblicato nella prima parte nel 2021, diventa specchio fedele del suo autore e, pur arrivando per ultimo, sembra adattissimo a segnare le coordinate di un intero percorso, discostandosi stilisticamente in maniera piuttosto netta dal precedente, altrettanto riuscito, “I ferri del mestiere”, votato a un solido cantautorato rock.
Sono infatti qui inserite sedici tracce che racchiudono tante tappe di una vicenda che si corrobora di uscita in uscita, e che delineano con sempre maggior chiarezza il suo valore, che si innalza laddove sente l’esigenza di descrivere i fatti della sfera quotidiana, la cosiddetta poetica delle piccole cose, che però stavolta viene spesso adoperata anche per episodi dal più ampio respiro.
Basta mettersi all’ascolto della magnifica title track, che si dispiega per oltre nove minuti di intenso lirismo: un brano che diventa emblematico biglietto da visita dell’intera opera, e ne delinea irrimediabilmente il mood, inchiodando all’ascolto.
In “Quattro chiacchiere” ci imbattiamo nel primo ritratto della raccolta, quello di una giovane donna dall’animo gentile: la dolcezza della composizione è resa bene dai suoni rassicuranti della chitarra acustica e dell’armonica, altro strumento principe del Nostro; diversa atmosfera si respira nella calligrafica “Un’altra settimana (Bruna)”, dai risvolti drammatici.
Vien da dire però che anche i momenti più cupi e ispidi non vengono mai enfatizzati, permettendo alla narrazione di mantenere una sua omogeneità e compattezza, sia che si raccontino storie di speranze e realistiche consapevolezze (in “41042”, il c.a.p. di Fiorano Modenese, paese del protagonista del brano, o in una “Franco destino” di gucciniana memoria), sia che in primo piano ci vada la terra d’elezione, quell’Emilia Romagna, come detto, cartolina vivente nella quale inserire di volta in volta virtù e contraddizioni (vedi “L’onesto spettatore” o “Paesi Bassi”).
Giancarlo Frigieri sembra essersi svuotato in questo disco, lasciandoci in dote alcuni dei gioielli più splendenti della sua collezione (come “Lontano”, “La curva del risentimento”, degna del miglior ClaudioLolli, o una “Manzoni”, che col suo lieve candore arriva finanche a commuovere), e per una volta vorrei evitare anch’io di cadere nei paragoni, per quanto mi sia venuto spontaneo farlo anche in quest’articolo.
Più che altro, quelli che assurgono a modelli di riferimento, su tutti Bob Dylan, hanno certamente contribuito a tracciare un confine nel suo percorso, assecondandone l’indole di cantautore, ma poi Frigieri si è costruito mattone su mattone un repertorio solido e credibile, mostrando uno stile che lo distingue nel panorama tricolore odierno, essendo tutto suo, peculiare ed estremamente affascinante.
Ammetto candidamente di amare la musica che contiene una matrice folk, popolare, sia per quanto concerne dei testi ricchi di storie e significati differenti, sia per le musiche suggestive, coinvolgenti, calde e profonde che li caratterizzano.
Spesso gli artisti che scelgono questa strada musicale, decidono al contempo di comunicarci la propria arte e il proprio messaggio attingendo a piene mani ai dialetti locali e regionali, a mio avviso un valore aggiunto, considerato l’immenso patrimonio artistico che contraddistingue la nostra Penisola nella sua interezza.
E sono poi le commistioni stesse che avvengono tra parole espresse in dialetto e l’italiano (e altre lingue), a dare vita a qualcosa di particolarmente evocativo e originale; medesimo incanto che si ottiene quando a sonorità classiche, tradizionali e per lo più acustiche, si mescolano sagacemente quelle dal tocco più moderno, contemporaneo, il più delle volte affidandosi alle molteplici possibilità date dalle tastiere e dai computer, esplorando i quali si può scoperchiare un mondo fatto di suoni, rimandi, ritmi e vibrazioni.
Autentici maestri a fondere antico e moderno, cultura e ricerca, tradizione e contemporaneità, sono i Renanera, duo che affonda le proprie radici in Basilicata, Terra eletta dove operano, sperimentano e coltivano la loro passione Unaderosa (aliasConcetta De Rosa) e Antonio Deodati.
Antonio Deodati e Unaderosa dei Renanera – foto dalla pagina Facebook del gruppo
Sono loro la forza motrice del gruppo, il cuore da cui partono idee e ambizioni, dove il progetto si fa vivido e pulsante, affinato da una sinergia tanto vincente quanto naturale (i due sono una coppia anche nella vita) che fa sì che ogni singolo pezzo di questo mosaico chiamato “Terra da cammenà” sia assolutamente autentico e “sentito”.
La voglia di raccontare i luoghi, i miti, le leggende, i desideri e la quotidianità della Lucania è sempre stata presente nella loro vicenda artistica ma si è, in questa ultima fatica realizzata ormai più di un anno fa, rinnovata e rinsaldata.
Il risultato è stato poi tradotto in diciotto emozionanti episodi, che si fanno apprezzare presi anche singolarmente, ma che vanno considerati meglio nell’insieme, perchè tutti concorrono in egual misura a renderci mirabilmente il senso di quello che, senza timore di smentita, possiamo definire un vero concept-album.
La Basilicata traspare infatti in tutta la sua bellezza e fiera dignità, tra personaggi ed eventi che meritano di essere ricordati e tramandati, luoghi dell’anima e luoghi fisici a testimoniarne l’unicità, consapevolezze e contraddizioni, credenze a cui aggrapparsi e altre da rifuggire, la ragione che impone di rimanere ancorati alla terra e l’amore che permette invece di sognare e sospirare.
Tanti sono i temi, innumerevoli gli spunti, che per condensarli nel migliore dei modi non “bastava” la forma canzone – che pure è innalzata spesso e volentieri su livelli d’eccellenza -, cosicché i Renanera hanno voluto regalarci qualcosa di più, e “Terra da cammenà” è diventato alla fine un lavoro assai ricco e completo, la cui narrazione è corredata da un album-libro (di ben 104 pagine) fatto di immagini, con le splendide foto di Francesco La Centra e di Federico Cataldi, anche regista della docu-fiction “Voci di una terra: Basilicata” (andato in onda su Rai Storia), e di parole, ad opera principalmente di Unaderosa, che possiamo definire la vera anima del gruppo, autrice di tutti i testi, oltre dei prologhi delle canzoni.
Il book è impreziosito inoltre dalla prefazione di Antonio G. D’Errico, un’introduzione di Pierpaolo Grezzi, la postfazione di Yvette Merchand e da un interessantissimo Alfabeto dei Dialetti Lucani (A.D.L., elaborato dalla professoressa Patrizia Del Puente, ricercatrice del dipartimento di Dialettologia dell’Università della Basilicata), molto utile perchè le canzoni sono tutte scritte e interpretate come detto in dialetto.
Uno sforzo immane, quindi, reso possibile da “Brigante Editori”, con sede a Lagonegro (PZ), che e pure il luogo di nascita di Antonio Deodati, il quale oltre ad averne curato la produzione con la moglie, si è occupato degli arrangiamenti, a mio avviso uno dei punti di forza dell’intero lavoro.
Venendo agli aspetti prettamente musicali, è evidente come ad emergere sia un apparato world davvero ispirato e multiforme, che risulta essere adattissimo, con i suoi caleidoscopici inserti elettronici, a rivestire brani cui pensa poi l’evocativa ed espressiva voce di Unaderosa a conferire di volta in volta solennità, mistero e fascino.
Musica elettronica ma non solo, se è vero che Deodati e gli altri musicisti intervenuti a collaborare (il già citato Pierpaolo Grezzi, Alberto Oriolo, Massimo Catalano, Gaetano Stigliano, Pierangelo Camodeca, Roberto Tempone, Federico Celano e Roberto Palladino) sono stati impegnati a suonare anche chitarre, mandolino, violino, flauto, fisarmonica, percussioni, oltre che vari tipici strumenti etnici.
Ne deriva, insomma, un connubio intrigante di mondi musicali diversi, legati però in maniera indissolubile fra loro a plasmare un mood cangiante ma invero rappresentativo in toto dell’animo dei suoi autori.
La title-track ha il compito di accompagnarci in questo lungo viaggio caratterizzato da diciotto tappe, ed è paradigmatica dell’essenza della Basilicata, terra che può solo essere “camminata” – magari in modo lento e circospetto – per farsi infine trovare; più vivace la successiva “Croce e corna”, dove vengono cantate le tante sfaccettature delle credenze meridionali, mentre con “Arriva arriva” ci imbattiamo nel primo piccolo capolavoro del disco, in un brano ispirato a un’antica preghiera a San Biagio.
“Diceme sì” è un’altra canzone che non può lasciare indifferenti, col suo carico di pathos dato dal Coro Vjeshi i Shën Paljit: l’amore che si canta in tutte le lingue del mondo, in questo caso l’antica lingua Arbëreshë, retaggio culturale dell’insediamento albanese di cinque secoli prima.
L’amore rimane protagonista assoluto anche nella struggente “Senza filtri nè magia”, ballata intrisa di misticismo, e sfocia in un emblematico pezzo identitario come “‘A voce e sti briganti”, forte di un ritornello ficcante e carico di significati: “Simmë diavëlë e ssimmë santë, simme a vosë ‘e tuttë quantë, Simmë diavëlë e ssimmë santë, simme a vosë ‘e sti bbrigante, Simmë diavëlë e ssimmë santë, simme a vose ‘e tuttë quantë , Simmë diavëlë e ssimmë santë, peccatore comma’a ttantë”.
“Masciara masciarella” è una storia che, trattando di magia, affonda quindi le sue radici nell’anima più profonda del sud, che resiste e arriva ai giorni nostri; stessa valenza etno-culturale la possiamo attribuire ad altri felici episodi, quali l’onirica ballata “Tu sì tu”, la spirituale “Nera”, dedicata alla Madonna di Viggiano, in cui spicca il canto intenso e appassionato di Unaderosa, e la placida “Acqua cheta”.
Altrove invece riaffiorano sentimenti come il rispetto e l’orgoglio, per la propria storia e per la gente che ha contribuito a scriverla, come nel caso dell’incalzante “Eran’ nove”, introdotta dal canto di Rosmy, di “L’eroe di Melfi” o di “Stupore d’o munn’”, sincera ed emozionante ode a Federico II di Svezia, Re di Sicilia e Imperatore del Sacro Romano Impero.
Colpiscono infine altri passaggi cardini dell’opera, dove i Renanera, sempre ricorrendo a musiche suggestive e sognanti e a un canto ammaliante in grado di suggellare magiche atmosfere, ci guidano, portandoci per mano, attraverso luoghi simbolo (e dell’anima) dell’amata terra lucana: da “Ponte alla luna” alla delicata “Se parti tu”, dove echeggiano i famosi Sassi di Matera, fino alla conclusiva e frenetica “Ballano i calanchi”, che segna il nostro punto d’arrivo.
E’ stato bello ragazzi avventurarsi con voi, perdersi e ritrovarsi, attraverso canzoni simili, che nobilitano il concetto stesso di questa Arte, perchè sanno non solo intrattenere e far sognare, ma anche stimolare la curiosità e la sete di conoscenza, e, cosa ancora più importante, perpetrare la memoria, intessendola nel presente. Perchè alla fine, ciò che siamo ora, i valori che ci portiamo dietro, hanno radici lontane che non devono mai essere recise.
Scrivere dell’artista pugliese Alessia Tondo e del suo album d’esordio mi riempie di gioia, lo dico a costo di sembrare esagerato o fanatico: il tutto infatti si spiega, andando a scandagliare le emozioni che l’ascolto della sua voce mi ha sempre provocato.
Seguo Alessia da tantissimi anni, so che anche questa affermazione pare un’iperbole, essendo la stessa ancora molto giovane, eppure di certo i più appassionati di musica folk sapranno bene come i suoi primi passi musicali li abbia percorsi quando era ancora una bimba, col suo nome salito agli onori delle cronache in particolare dal 2004, in cui divenne a soli tredici anni la voce solista dell’Orchestra della Notte della Taranta.
Credit foto: Lucia Pagliara
Una predestinata, insomma, un’enfant prodige piombata nel mondo delle sette note a rinverdire i suoni della tradizione della sua magica Terra, e in grado col suo canto di incantare letteralmente.
Se ai tempi dei Mera Menhir seppe già stupire cantando insieme alla nonna Immacolata (figura determinante per la sua formazione), fu prestando la propria voce nella bellissima “Le radici ca tieni” dei Sud Sound System che non poté in alcun modo passare inosservata.
Da lì la giusta dose di curiosità e la voglia di agire in questo affascinante campo – che è il macro mondo della musica popolare –, sperimentando in prima persona le favolose commistioni tra antico e moderno, non si sono mai fermate, corroborate da un talento davvero innato e inconfondibile.
Eclettica e cangiante, l’abbiamo vista così protagonista in egual modo nel Canzoniere Grecanico Salentino o a fianco al compositore Ludovico Einaudi, esperienze in cui la sua voce si fondeva efficacemente nei rispettivi contesti e diveniva essa stessa strumento, per la fantastica espressività e la naturale inclinazione con la quale si trovava a interpretare scenari e orizzonti musicali sempre diversi, i quali assumevano ancora maggiori suggestioni proprio grazie ai suoi brillanti interventi.
Pensiamo in tal senso al peso specifico della sua parte vocale in “Nuvole bianche”, noto brano di Einaudi reso in questa maniera ancora più indimenticabile.
Eccola giunta, quindi, finalmente, dopo tanto creativo seminare, alla prova da solista in veste di cantautrice, per un lavoro che mette in luce, se possibile ancora più chiaramente, le sue notevoli qualità.
Questa raccolta di otto nuovi pezzi, evocativa sin dal titolo “Sita” che, nell’indicarci il frutto della melagrana vuole simboleggiare l’augurio di una vita nuova, fatta di incontro e condivisione, è in tutto e per tutto rappresentativa della sua autrice, la quale è riuscita a esprimere al meglio se stessa in ogni episodio.
Canzoni nate sì in solitudine, ma pronte ad accogliere e farsi accogliere da anime predisposte a scoprire la bellezza nelle piccole cose, quelle del quotidiano, imperniate di solidi valori e storie personali da cui attingere.
Alessia Tondo si è guardata dentro, non abdicando la matrice folk ma innestandola in un tessuto “d’autore”, e finendo altresì per abbinare la tradizione con la contemporaneità, senza rinunciare alla sua essenza salentina. Valga come fulgido esempio al riguardo il mesmerico incedere del singolo “Aria”, dove si incrociano voci e atmosfere.
E’ un disco che si fa apprezzare in toto e il cui unico limite sembra constare nel fatto che dura solo 21 minuti e poco più, necessari però al fine di non disperdere nemmeno una particella del suo contenuto.
Introdotto da “A pucundria”, ripresa e arricchita a metà dell’opera (nella traccia “A pucundria rimedio”), si delinea in tutto il suo valore mediante la candida dolcezza di una “Me putia basta’” intrisa di poesia, in cui fa capolino anche il delicato violino del compagno d’avventure Mauro Durante, autentico asso del Canzoniere Grecanico Salentino.
Dopo il trip etereo della già citata “Aria”, piombiamo in un cuneo avvolgente formato dalle malinconiche e profonde note di “Pacenza”, sorretta da un magnifico sound di chitarra, minimale eppure capace di ammaliare.
Il rimanente pezzetto di viaggio è segnato ormai da questo mood vivido e struggente al tempo stesso, in momenti emblematici come “Cacciala fore”, quasi terapeutica con i suoi accorati versi, e nella passione stringente dell’ode “Sta notte”, impreziosita oltremodo dal violoncello di Redi Hasa.
Immersi in questi languidi quadretti di vita vissuta o desiderata, ci si può abbandonare silenti al candore della paradigmatica “Filastrocca”, dove la Tondo non ha bisogno di alcun supporto o artificio sonoro per comunicarci l’ultima parte di se’, quella più autentica forse, laddove basta la sua voce (pulita e sinuosa) a saturare l’aria, colorando il cielo di un azzurro accecante.
Prendetevi il tempo di assaporare pian piano questo album, ne uscirete quanto meno alleggeriti nel cuore e scevri da quelle negatività che la società odierna si diverte, talvolta con troppa veemenza, a gettarci addosso.
Nell’approcciarmi al nuovo disco del cantautore Marco Sonaglia, ero ben a conoscenza del fatto che ne sarei uscito quantomeno arricchito, visto lo spessore di una proposta artistica già evidenziato nelle altre pubblicazioni a suo nome (valga la pena citare almeno l’intenso “Il vizio di vivere”, datato 2015)
Tuttavia, il tempo intercorso tra il precedente lavoro solista e questo nuovo, dall’evocativo titolo “Ballate dalla grande recessione” (con il marchio di qualità Vrec), è stato inoltre corroborato dalla pandemia che ha colpito tutti noi, condizionando giocoforza le esistenze e rimettendo in discussione priorità e valori.
Ciò ha influito, per lo più in maniera inconsapevole, anche nel modus operandi dell’artista di Fabriano, che ha denotato una ulteriore evoluzione, mosso com’era da una sincera urgenza comunicativa e dall’innato desiderio di assegnare alla forma canzone un valore “alto” e “altro” da quello che, oggidì, spesso riscontriamo nel marasma di uscite discografiche dal gusto dell’effimero.
Il cantautore Marco Sonaglia
Sonaglia ha realizzato un album (che non è azzardato etichettare come concept) indubbiamente ambizioso nei contenuti, trattando storie (rigorosamente sotto forma di ballate) che andassero a ripescare fatti e persone reali – e significativi – del nostro tempo, di cui non bisogna assolutamente perdere memoria.
Lo ha fatto affidandosi a una penna speciale, quella del poeta siciliano Salvo Lo Galbo (che firma le dieci le tracce qui inserite, tutte gemme preziose dal forte impatto e strenuo fascino), musicando a sua volta testi pregni di significato lavorando più per sottrazione, rivestendo il tutto cioè in chiava acustica.
Il connubio risulta così pressochè perfetto, con sonorità adattissime ad accompagnare quelle liriche; last but not least, occorre evidenziare il particolare cantato di Sonaglia, che intende farci arrivare in modo forte e chiaro certi messaggi, rendendo giustizia a quei volti, quegli uomini, quelle donne.
Talora arriva quasi a declamare, enfatizzando i momenti cruciali, come in “Ballata della vecchia antropofaga”, azzeccata metafora per definire una società odierna sempre più guidata dal capitalismo e disposta a mangiare i pesci piccoli, dimenticandosi delle loro esistenze.
Andando a ritroso, le emozioni ci giungono copiose sin dal brano introduttivo, quel “Primavera a Lesbo” cui spetta l’onere di indicare come stella cometa il focus dell’intera opera, imperniata su tematiche che, ricorrendo a suggestive punte poetiche, non vogliono rinunciare alla funzione di recupero della storia, connotandola oltretutto sul piano sociale e politico.
Una matrice politica presente, la quale però non necessita di slogan per farsi manifesta, e che acquisisce peso parola dopo parola, perdendo al contempo ogni implicazione retorica, che si parli di Cuba (in “Ballata per Cuba”, contemporanea folk song) o di Mimmo Lucano nell’orgogliosa e identitaria “Ballata dello zero”.
Sonaglia lesse vari testi di Lo Galbo durante lo stop forzato per il Covid, scegliendo alla fine di mutarne in canzone solo alcuni ma tale fase deve essere stata evidentemente molto accurata, se è vero che nessuna di queste ballate suona come un riempitivo; anzi, risulta complesso (e vieppiù fuorviante) indicarne i punti cardine, perchè tutte sono accomunate da una grande carica espressiva e hanno medesima dignità, la stessa che presentano i protagonisti evocati e omaggiati, nonostante le differenze legate alle rispettive vicende.
Se “Ballata per Stefano”, dai toni elettrici e claustrofobici, fa luce sulla triste e drammatica sorte toccata a Stefano Cucchi, la successiva “Ballata per Claudio” diviene dolce e nostalgica riferendosi a uno degli artisti che più ne hanno ispirato il percorso,vale a dire il compianto Claudio Lolli, di cui il Nostro appare come credibile erede.
I versi accorati di “Ballata per una ballerina” delineano la figura emblema del coraggio e dell’autodeterminazione, dedicati mirabilmente a Lola Horowitz, alias la ballerina ebrea Franceska Manheimer-Rosenberg che fu uccisa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, non prima di essere riuscita a ribellarsi un’ultima volta a quel destino tanto terribilmente ingiusto, quanto a quel punto ineluttabile. Parole che colpiscono l’ascoltatore finanche a commuoverlo.
“Ballata per Sacko” pone anch’essa l’attenzione su un fatto increscioso, occorso in questo caso al sindacalista maliano SoumailaSacko, fucilato alla testa: un altro di quegli atti di denuncia che emergono in questo disco e che puntano il dito contro uno Stato, il quale, non solo non sa sempre tutelare i cittadini, ma talvolta è pure responsabile di irrimediabili destini.
Sullo stesso tenore viaggia “Ballata dell’articolo 18”, questa sì di stampo fortemente sociale, ancorata a stilemi cari a quelli degli amati cantautori anni settanta, laddove si parla di diritti (negati) sul lavoro agli operai.
“La mia classe” è posta in chiusura di scaletta non a caso, fungendo infatti da summa di un’intera poetica; un brano che Sonaglia fa letteralmente suo, immedesimandovi e facendo in modo che una sorta di coscienza collettiva possa riemergere, alfine di riappropriarsi di quanto lasciato per strada (abbandonato e calpestato), senza essere quindi spettatore passivo di una realtà nella quale non ci si riconosce più.
Sarebbe semplicistico, oltre che sinceramente ingiusto, definire “Ballate dalla grande recessione” (quella dei tempi in cui viviamo) un album “difficile” e non adatto a tutti, poichè mai come ora c’è bisogno di voci come quella di Sonaglia a ricordarci che la musica non è solo intrattenimento, competizione spiccia, gara di sopravvivenza a un televoto e mera ricorsa a modelli precostituiti, tanto leggeri se non proprio inconsistenti. La musica infatti può essere ancora molto di più!
La sua sembra essere una sfida, nel veicolare un modello di canzone (dove, senza timore di smentita, possiamo affiancarvi l’accezione “d’autore”) così poco apparentemente affine alla contemporaneità.
E’ plausibile immaginare che il cantautore marchigiano avrebbe goduto di consensi unanimi e maggiore visibilità se fosse vissuto nell’epoca d’oro dei cantautori impegnati, ma in fondo non si può prescindere dalla propria natura, dalle radici che stanno lì a testimoniare da dove proveniamo, e la musica di Marco Sonaglia, nel 2021, è talmente autentica e sentita nel profondo da non poter lasciare indifferenti.
La stessa dedica di questo album, rivolta a Ermanno Lorenzoni, «sindacalista SGB, militante e quadro rivoluzionario del Partito Comunista dei Lavoratori», nell’onorarne la memoria, è indicativa una volta di più dell’ animo nobile e sensibile di un artista che non può, in alcun modo, rinunciare a trasmetterci quei valori con cui è cresciuto.
Uno degli album italiani che più mi hanno sorpreso nell’anno in corso è stato sicuramente quello del cantautore romano Piero Brega, intitolato “Mannaggia a me” (edito da Squilibri).
Sorprendente non certo perchè dubitassi delle sue qualità, d’altronde il ricco curriculum parla per lui, che fu tra i promotori e maggiori esponenti di esperienze entusiasmanti tra recupero della tradizione, commistioni folk e prog e l’impronta della miglior canzone d’autore, quali il Canzoniere del Lazioin primis, poi nel progetto Carnascialia (con assoluta protagonista la musica etnica, world) e le fruttifere collaborazioni con la grande Giovanna Marini, anticamera di una esigua ma densa e ispirata carriera da solista.
Credit foto: Cristina Canali
Arriviamo dunque al punto: la sorpresa stava proprio nel fatto che in teoria non doveva dimostrare a nessuno, con questo nuovo lavoro autografo che segue di ben 12 anni il precedente “Fuori dal paradiso” (pubblicato da Il Manifesto, così come il suo album d’esordio “Come li viandanti”, di cinque anni prima), tuttavia Brega, lungi dall’essersi adagiato e per nulla arrugginito dal lungo periodo di assenza dalle scene, ha realizzato un disco veramente interessante, vivo, ricco al solito di suggestioni, ma anche molto solido e coeso da un punto di vista prettamente strumentale.
Già, se in precedenza infatti la lampadina della curiosità, approcciandosi alle sue opere soliste, si accendeva necessariamente sulle parole, ora invece procede di pari passo con la scoperta di sonorità coinvolgenti, quasi inedite, se pensiamo ai vari inserimenti delle chitarre elettriche suonate dal valente Ludovico Piccinini; valga come fulgido esempio la magistrale performance nell’evocativa “San Basilio”, che il Nostro aggiorna, ripescandolo dal debut-album, ma lo stesso si potrebbe dire della suadente “Tempo arido”, altro pezzo che albergava da tempo nella mente e nel cuore romantico e malinconico dell’autore.
Ecco che senza accorgermene, rapito dai rimandi e dalle tante impressioni piovutemi addosso sin dal primo ascolto e ora rimembrate per l’occasione, mi sono ritrovato quindi a parlare delle canzoni, la vera sostanza di questo ritorno, tanto atteso quanto appunto sorprendente.
Rimettendo in file le varie tracce, libretto alla mano, e assecondando l’istinto di premere subito play, viene naturale, pressochè automatico direi, farsi coinvolgere da ogni singolo episodio incluso nella prima facciata.
Scusate il linguaggio desueto.. ma d’altronde “Mannaggia a me” contiene dentro di se quel gusto antico dei lavori di una volta, l’immaginario tanto caro dei settanta, ottimamente però ri-attualizzato ai tempi odierni: insomma, ci siamo capiti, è un disco questo da assaporare pian piano, per non far disperdere ogni singola sfumatura e i diversi passaggi narrativi salienti.
L’apripista “Il sorriso di un pensatore” ha un affascinante andamento folkeggiante, pullula di quella consistenza perfetta che conferiamo alla canzone popolare per antonomasia e presenta un testo oltremodo interessante, in versi incisivi ed emblematici come: “E non mi importa dei quattrini/non m’importa del successo/tale difetto m’ha permesso/di evitare me stesso”.
Fondamentale l’apporto della talentuosissima Oretta Orengo, che qui suona il corno inglese (mentre altrove incanta con l’oboe e con la sua bella voce).
La successiva, caustica eppure lieve nel suo brillante incedere ritmico, “Triangoli quadrati”, affonda il suo focus narrativo su esperienze magari vissute, o comunque ben note, con la storia di un artista che vorrebbe mantenere una certa integrità al cospetto di un manager cinico e rivolto al successo con ogni mezzo. Il pezzo cambia tono e registro, e conseguentemente muta l’atmosfera generale, specie verso il finale, caratterizzato dal suono toccante della chitarra e da un cantato sofferto e consapevole della propria condizione: “Io che mi sento io/e passo giorni e mesi/per cantare un minuto/mi inchino e vi saluto/sogno il vostro perdono/alla mia normalità”.
Il livello si mantiene altissimo con l’irresistibile title track, che a livello di sonorità segue e insegue le (dis)avventure di un gruppo di senzatetto nei pressi della Stazione Termini, per un brano adattissimo anche alla forma teatro-canzone.
Vale la pena, a maggior ragione per questo brano dal risvolto dolce-amaro nel rispecchiare un particolare tessuto sociale, porre l’attenzione sulla grande cura per gli arrangiamenti, tutti a opera del già citato Ludovico Piccinini e di Luciano Francisci (impegnato nel disco anche alla fisarmonica), e mi pare doveroso citare anche Adriano Martire, col quale la canzone prese vita grazie a dei riff durante le prove.
Tutt’altro umore riscontriamo nella successiva “Strada scura”, elettrica e bluesy (sorretta dal basso di Emanuele Marzi e dalla batteria di Piero Fortezza), a contornare un pezzo che mescola un fatto preminente legato alla Città Eterna (la libreria incendiata a Centocelle) all’intimità (e universalità) delle storie di tutti i giorni: “Nella città bruciata/le storie sono chiodi/dopo la fiaccolata/due negozi vuoti….”Tu sotto le coperte/silenziosa dormi/dormi tranquilla/contro il mio viso e hai sorriso”.
La strada è così spianata per denudarsi e mettere in scena il proprio io, fragile e pieno di insicurezze, oltre che di speranze sopite, tra le pieghe della disarmante dolcezza di “Gelosia”: “Non mi guardare con quegli occhi/anche tu mon amour/anche tu mi dai giù/come fa il mondo che non s’ama/Voglio star con te/ma non dobbiamo più/farci male mai”.
Le tematiche esistenziali riaffiorano e prendono piede sin dalla successiva “Sono un vecchio marinaio senza mare”, nostalgica col suo apparato musicale acustico e così raffinato, e un testo dove, a braccetto con una ispirata prosa, fa felicemente capolino la poesia: “Adoro la metafora/mi attira il paradosso/sono schiavo della carne/solo quella intorno all’osso…. “Sono un campo di grano/una scintilla smarrita/Voglio bruciare dentro la vita/ogni giorno una fiamma nuova/che fuori piova o non piova”.
La seconda parte dell’album denota medesimi standard qualitativi, accentuando se vogliamo la componente ariosa e melodica e i tratti intimistici, resi comunque attraverso il linguaggio narrativo, che sa dare sempre nuovi impulsi dal punto di vista autoriale.
A iniziare da “In mezzo al mare”, che chiarisce sin dall’incipit questa natura ondivaga ma assolutamente autentica: “Sono un uomo/in mezzo al mare/nuoto con difficoltà/sferzo quest’acqua/amara e profonda/dove ho nascosto la verità” – canta Piero Brega con una voce roca e assai espressiva.
Prima di arrivare alla cruciale “San Basilio”, a mio avviso uno degli apici della sua poetica, ci si imbatte nella solare (a dispetto del titolo) e onirica “Tempo arido”, dove la parole catturano bene l’essenza di un dialogo interiore: “Noi disillusi al chiaro delle stelle/cercando nel mosaico sparso/che la vita ci ha dato…. Sarà un mondo riemerso/isole nell’universo/un sogno inesplorato/l’ombra di un volto amato”.
Il finale è appannaggio di due brani ancora dal forte imprinting cantautorale, dove la nostalgia si fa carburante per alimentare nuove realistiche aspettative in “Dal lago della giovinezza”, in passaggi come: “Fidando nell’effimera tua gioventù/dietro quel sorriso d’innocenza/hai continuato come volevi tu/a ridere della coscienza” e nei versi conclusivi in cui Piero Brega si riappropria dell’amato dialetto (“Diglielo luna e non me fa’ aspetta’/la forza se n’è andata/dimme che devo fa’/luna biancastra/quando che vieni qua/l’amore mio me lassa/si tu nun me vo’aiutà”).
In “Centomila pensieri fuggono” invece, mediante un ficcante racconto per immagini a mascherare una sorta di flusso di coscienza, l’io narrante (mai come in questo caso da identificare con il titolare del progetto) ci lascia in dote degli spunti di riflessione, senza la pretesa di insegnare ma con l’acutezza e il pudore di chi tanto ha raccolto e osservato, e ora può rivelare: “E io l’ho visti con questi occhi/l’ho visti affondare/mimetizzarsi nell’invisibile/là nella polvere del piazzale”… “Sentire il male che c’è nel vivere/quando non c’è più niente da fare/vedo sfuggire anche l’ultimo/anche l’ultimo andare… “Perchè alla fine prima o poi/sarà manipolato/irretito imbrogliato/spremuto e buttato”.
Parole che sembrano fare da preludio a scenari pessimistici, ma che invece sono il manifesto di un animo cosciente e profondo, e fungono da giusto compendio di tutto il significato sotteso dell’opera. Un’opera che senza remore mi viene da definire “classica”, nel senso più nobile del termine.
Non si tratta di essere o meno “di moda”, quanto di veicolare messaggi e storie, e in tal senso la missione di Piero Brega si può dire assolutamente compiuta.
La sua è una proposta senza tempo… certo, magari i cantautori emergenti si esprimono attraverso nuovi sound e linguaggi, ma mi fosse capitato un’opera prima di uno di essi dall’identica potenza espressiva di questo “Mannaggia a me”, avrei subito drizzato le antenne, poichè è assai raro ascoltare dischi così densi di contenuti e al contempo piacevoli, in cui non ci si debba sforzare per capirli.
Tuttavia, sono conscio che di artisti con le doti e la sensibilità di Piero Brega ne nascano pochi, per questo gli concediamo pure un ragionevole lasso di tempo tra un disco e l’altro, se poi gli esiti sono così fulgidi e preziosi.
Il 2020, musicalmente parlando, non smette di stupire, e lo fa ancora una volta mettendo in bella mostra due artiste, accomunate dallo stesso nome, ma soprattutto da un talento vocale e autoriale di prim’ordine.
Chiara Raggi e Chiara Ragnini sono invero molto diverse per provenienza, esperienze e attitudine ma dalla loro hanno una capacità di raccontarsi e di mettersi a nudo, in particolar modo toccando nei loro testi temi amorosi ed esistenziali, che colpisce sin dal primo ascolto.
La prima, riminese, viene quasi riduttivo considerarla esclusivamente una cantautrice, perchè la Raggi, fondando e dirigendo il marchio “Musica di seta” non solo ha modo di realizzare mettendo tutto se’ stessa i propri lavori (tra cui l’ultimo in ordine di arrivo, il bellissimo “La natura e la pazienza”), ma può spaziare tra più arti, valorizzando appieno la cosiddetta “musica d’autore”, corrente della quale a pieno diritto sente di appartenere.
“Musica di seta” infatti non si occupa solo di pubblicare album, non funge quindi da etichetta discografica e basta, ma è anche magazine online e dedita all’organizzazione di eventi collaterali.
Venendo alla musica di questo disco, uscito due settimane fa ed anticipato a novembre da “Mosaico”, brano adattissimo a delinearne mood e principali peculiarità, occorre ammettere che quanto di buono avevamo già sentito all’altezza dei lavori precedenti (solo un anno fa era uscito l’album in lingua Esperanto “Blua Horizonto” ma grande qualità era impressa sin dal precedente ancora “Disordine”, del 2015), viene qui fragorosamente confermato.
Chiara Raggi in una foto artistica di Tamara Casula
Ogni canzone, citando di nuovo il primo singolo, è un tassello appunto di un mosaico, messo al posto giusto a rendere l’ascolto un’esperienza assai piacevole e appagante.
Il cantato è davvero interessante, pulito eppure permeato da tante sfumature, mentre il suono, di qualunque arrangiamento sia rivestito, è sempre raffinato e infonde una infinita classe al tutto.
L’autrice fa la parte del leone, scrivendo testi e musiche, eccezion fatta per la nona e ultima traccia “EtericoLibero”, opera di Piero Simoncini, che assieme alla stessa Chiara, a Massimiliano Rocchetta e Michele Iaia cura anche gli splendidi arrangiamenti dell’intero album.
Musicalmente, a livello stilistico, l’album rivela un equilibrio pressochè perfetto tra immediatezza e ricercatezza, tanto che potrei definire il tutto come “la canzone d’autore che incontra il jazz”.
A brani sorretti da voce, pianoforte, chitarre, contrabbasso e batteria si unisce un delizioso apparato orchestrale, che conferisce ulteriore profondità a parole cariche di pathos e di vita.
Dicevamo della forte impronta esistenzialista e amorosa di cui è connotato il disco: della prima serie fa parte sicuramente il trittico posto in apertura, che oltre al singolo comprende la soave e intimista “Horizon” e la jazzata“Naturale”, che tira in ballo Cesare Pavese e il suo “Il mestiere di vivere”.
L’amore fa la sua comparsa in “Ripensamenti coscienti”, in cui la protagonista sembra poter giungere a un proprio equilibrio interiore al termine di una relazione importante; “Lacrimometro” rivive di luce propria in questa nuova versione acustica e appare molto interessante a livello concettuale, mentre in “Mi ritroverai” la Raggi apre definitivamente il cuore a chi la ascolta, in una canzone sincera e sentita. Toni che si mantengono autobiografici anche nell’emblematica “Navigo a vista”, sorta di “biglietto da visita del proprio essere”.
“Vedrai” si muove pimpante e leggiadra, nel tentativo di incoraggiare chi non crede più nella forza dei sentimenti, e nello specifico dell’innamoramento, a darsi una nuova chance.
A concludere il viaggio c’è “Eterico Libero”, che rappresenta una perfetta chiusura del cerchio laddove vengono raccontati i pensieri di una donna in attesa di donare vita.
Con il suo quarto album “La natura e la pazienza” Chiara Raggi è riuscita ad alzare l’asticella della qualità, in un disco in cui ogni tassello, dalla suggestiva copertina (un acquerello realizzato appositamente da CarloLanzoni) all’artbook, dalla produzione (ad opera della stessa autrice con il già citato Massimiliano Rocchetta) alla cura per ogni episodio, concorre all’ottima riuscita del progetto.
La cantautrice ligure Chiara Ragnini è tornata di recente in pista con l’Ep “Disordine”, contenente quattro brani di matrice acustica, diretti e intensi.
Chiara Ragnini fotografata da Giacomo Ricca
Nel suo percorso, sin qui corredato da due album (“Il Giardino di Rose”, 2011 e “La Differenza” del 2017) e svariate partecipazioni nelle più importanti rassegne d’autore, si è sempre mossa con consapevolezza e disinvoltura, mostrando una forte attitudine con quel mondo, sulla scia di tante interpreti che, ognuna con una propria cifra stilistica, sta contribuendo a far emergere in superficie un movimento davvero vivo ed eterogeneo.
Le quattro tracce sono piuttosto omogenee a livello di sonorità (caratterizzate dalla chitarra acustica) e atmosfere, con “Paradiso” che però si staglia per un’interpretazione più accorata e liriche decise e taglienti.
Tuttavia, a colpire maggiormente sono canzoni come l’iniziale “Facciamo finta (senza pensarci)”, intima e raccolta, oltre che intrisa di malinconica dolcezza, che fa capolino sin dal suo incipit: “Facciamo finta che siamo diversi/che dentro i versi di una canzone/ci siamo persi per ritrovarci/senza un minuto di esitazione”.
Si tratta di una dichiarazione d’amore genuina e disarmante, i cui umori si possono ritrovare anche in “Fra caose paura”, nella quale ugualmente la Ragnini si racconta senza filtri con le sue fragilità e i suoi rimpianti, in versi poetici e profondi come: “Avrei voluto perderti dentro un abbraccio/e non perderti per aver perso coraggio”.
Io con la mia copia di “Disordine”
Indubbiamente un punto di forza è dato anche da una splendida voce e dal modo in cui la Nostra interpreta i propri pezzi, riuscendo a trasmetterci intatte tutte le emozioni evocate.
L’Ep si chiude con la delicata “La sera è ormai notte”, a suggellare un lavoro che funge da antipasto promettente per il prosieguo della sua carriera.
L’artista siciliana Eleonora Bordonaro si sta imponendo come una delle più talentuose e versatili cantautrici impegnate in una proposta che, partendo da un apparato folk si sta via via contaminando brillantemente lungo il percorso.
La sua ultima prova discografica “Moviti ferma” le è valsa quest’anno l’entrata tra i cinque finalisti in lizza per le prestigiose Targhe Tenco nella categoria “Miglior album in dialetto”.
Un riconoscimento certamente importante a coronamento di una carriera che, muovendosi su più fronti, ne sta mettendo in luce l’indubbio valore.
La cantautrice siciliana Eleonora Bordonaro in un intenso primo piano – credit foto: Julia Martins Miranda
Da tempo avevo intenzione di dedicarle il giusto spazio nel mio blog e finalmente l’occasione è arrivata. Durante la nostra telefonata, Eleonora ha tratteggiato al meglio la sua vicenda umana e artistica, aprendosi su tante tematiche al di là di un discorso prettamente musicale.
“Ciao Eleonora, scusa se ti ho fatto attendere, come stai?”
“Ciao Gianni, bene grazie. Figurati, ero qui con degli amici percussionisti di “Sambazita”, una scuola di percussioni brasiliane, potrei mandarti una foto di loro che provano, per ricrearti l’atmosfera in cui mi trovo!”
“Ottimo, ancora meglio, è una bella colonna sonora per la nostra chiacchierata…”
“Non hanno ancora cominciato, quando lo faranno, succederà l’inferno!”.
“Inizio io allora parlandoti di questo tuo disco, “Moviti ferma”, uscito ormai diversi mesi fa e che ad ogni ascolto è in grado di regalare sorprese ed emozioni. Volevo chiederti da dove è partita la scintilla che ti ha fatto approdare a questo lavoro, che è ricchissimo di suggestioni, di immagini, oltre che di significative collaborazioni… Quando hai capito che volevi realizzare un album “proprio così”?”
“La scintilla è partita dalla ricerca di quella sensazione di disperata necessità di creare arte, di vivere con fantasia l’arte. Nel senso che lavoro da anni nel mondo dello spettacolo, sotto tanti punti di vista, e mi è capitato di vedere che in situazioni istituzionali o relativamente comode, la spinta alla necessità artistica in qualche modo si perde, diventa un’altra cosa, un po’ si annacqua. Quindi dentro di me sentivo montare questa specie di disagio e cercavo di capire perché, finchè mi è stato più chiaro capire cos’era che mi ha fatto venire questa spinta e in pratica lo riconducevo all’ambiente che frequentavo, l’aria che c’era a Catania in quel periodo”.
“Nonostante la Sicilia e proprio Catania da dove vieni sia un ambiente molto ricettivo per l’arte rispetto ad altre zone d’Italia…”
“Molto ricettivo, sicuramente, ma io poi sentii l’esigenza di fare altre esperienze. Me ne sono andata quindi vent’anni fa e ho girato varie città in Italia, finché mi è venuta una sorta di nostalgia per la leggerezza con cui nella mia città creavamo vicende artistiche senza accorgersi neanche fino in fondo forse di quello che stavamo facendo… eppure stava accadendo!
Dunque quello che mi mancava in principio e che mi aveva messo in crisi era proprio quella forza istintiva, selvaggia, senza aver bisogno necessariamente di condizioni migliori per creare. Facevamo uno spettacolo senza pressioni ma solo perché “si deve fare” e se non ci saranno i soldi per i costumi li faremo lo stesso, e se non ci sono le luci, troveremo le soluzioni migliori alla bisogna, capisci che intendo? Cercavo quella cosa là, così immediata e così “violenta” che sicuramente colpisce il pubblico, che altrimenti è “addormentato” perché non vede una vera necessità nell’artista: questa cosa non lo potevo sopportare più, per come sono fatta io, preferisco di gran lunga, anzi, lo ritengo vitale, mantenere quell’approccio, quel modo magari scombinato, fantasioso, quelle esibizioni in situazioni particolari, ad esempio il cantare dal balcone della pescheria (questo da molto prima del covid, che per fortuna nemmeno sapevamo cosa fosse…).
L’idea era del tipo: “vediamo cosa succede, facciamolo e assistiamo alle reazioni”, quelle cose insomma istintive che vanno oltre la zona di conforto dove ci si sente protetti… E’ qui che io mi ci trovo, sembra un paradosso ma mi sento molto più comoda ad affrontare una cosa che mi mette a rischio, anziché trovarmi in un posto in cui la gente si aspetta delle cose e io gliele do’ in cambio in modo preciso; se devo affrontare un momento di emergenza in cui mi ritrovo sul palco da sola con la mia voce, per me va benissimo, perché quella cosa è nel mio “campo di battaglia” in cui io posso giocare e mi trovo strutturata in tal senso, più che in una situazione patinata, istituzionale”.
“Questa presumo sia prima di tutto una tua componente caratteriale, al di là dell’aspetto musicale: il saper gestire le situazioni meno previste…”
“Sì, mi ci trovo a meraviglia in simili contesti, poi ovviamente anche a me viene l’ansia, sono una perfezionista maniacale in altri aspetti del lavoro, stresso i musicisti, il booklet deve essere impeccabile, le foto pure: come a dire, c’è anche tutto l’altro versante da considerare e capisco che l’arte tenga conto di altro ma non deve mancare la parte istintiva, la “scintilla” appunto da cui far partire le cose”.
Il suggestivo video di “Moviti ferma”, diretto da Giovanni Tomaselli
“Ecco, Eleonora, una cosa che mi ha colpito leggendo il libretto (che in effetti è molto curato, con tutte le note, le traduzioni dei testi per chi come il sottoscritto non è siciliano) è che tu parli di collettività, un concetto che ho riscontrato anche in altri artisti di recente, quel bisogno di ricreare una comunità dove l’individuo possa esprimersi al meglio e che ci sia come una sorta di “mutuo aiuto”.
Anche tu fai riferimento a questo e la cosa si riflette nel tuo disco dove hai raccolto tanti elementi di spicco della musica siciliana ma non solo. E’ un bisogno che sentivi tu, ti è venuto naturale un approccio al disco di tipo “comunitario”, di gruppo, è un modo con cui tu concepisci la tua arte?”
“Dunque la mia arte io la concepisco come “collettiva” perché è stata coltivata nella collettività. Vengo da un’esperienza di teatro di strada che per me è stata importante, con un gruppo che si chiama Batarnù: ognuno con delle proprie peculiarità ma eravamo un gruppo ed eravamo “potenti”, scapestrati, fantasiosi, uniti e soprattutto istintivi, e quello è la culla della creatività, senza unione e scambio continuo la creatività non cresce.
E’ vero che il disco racconta storie individuabili e classificabili all’interno di un racconto che parla di una donna della mia età del Sud Italia, lo puoi facilmente ricondurre a una persona fisica, capisci che ci sono idee femminili e temi come la maternità, la sostenibilità, l’ecologia; ci sono una serie di argomenti che arrivano cioè da una persona singola, specifica, ma se tutti questi non sono sostenuti da una collettività non hanno nessun senso. E succede a maggiore ragione quando il tema è particolarmente delicato, quando ad esempio racconto della maternità, o della mancata maternità o del mancato desiderio di maternità e di che cosa vuol dire tutto questo, perché attorno a me ci sono tante persone che provano gli stessi sentimenti ma magari non hanno il coraggio di raccontarlo. Per quanto capisca che non sia facile parlare in una canzone di questo, ho voluto farlo, perché il tema sarà sì controverso da affrontare nella vita di tutti i giorni ma in fondo la creazione artistica ci viene in supporto e sublima tutto”.
“Il disco è molto apprezzabile e profondo nel suo complesso ma anche gli episodi presi singolarmente interessano molto, e prima facendo riferimento a “Ramu siccu” ripensandoci notavo che in quel caso hai utilizzato l’espediente poetico; il tema è bene a fuoco ma il testo assomiglia un po’ a una poesia”.
“Si, è vero ma in genere i miei testi non sono mai troppo espliciti, in questa canzone l’affidarmi a una metafora rende dolce un pensiero come che cosa pensate si possa fare con un pezzo di legno secco? Invece il testo nasconde tante cose e apre quegli spunti di riflessione cui accennavo prima”.
“Ramu siccu” è uno dei brani più rappresentativi del disco
“È molto evocativa in effetti questa immagine, poi in generale già il titolo dell’opera porta con se’ un’ambivalenza che è la stessa che emerge più volte tra i solchi del disco, e che possiamo associare in parte alla stessa Sicilia, una Regione che personalmente porto nel cuore, Terra piena di bellezza e di contraddizioni. Tu, pur non calcando la mano su certe situazioni e aspetti specifici sei riuscita ugualmente a trasmettere il senso di una Terra che vuole lottare e andare avanti, soprattutto raccontandocelo dal punto di vista femminile e lo hai fatto inoltre attingendo a diversi mondi musicali. Come hai coinvolto i vari ospiti in questo album? Sembrano proprio quelli “giusti” per far riversare nell’album le tante emozioni per un lavoro folk ma che presenta all’interno un’anima universale”.
“E’ stato come comporre un mosaico, ogni pezzettino aveva la sua enorme importanza e ha saputo colorare la relativa parte. Ogni mio brano comincia sostanzialmente dal testo, la musica di solito viene dopo, tranne che in un caso (che possiamo vedere come la classica eccezione che conferma la regola), il riff del giro di basso di “Moviti ferma”. Le parole vengono poi rivestite col giusto tono, l’andamento determina lo stile musicale che finisce quindi per rappresentare fedelmente il testo.
Ad esempio “Cunurtato”, che è una specie di reggae e in siciliano vuol dire coccolato, si dice di un bambino che viene cullato, e il reggae per me ha quell’andamento un po’ sensuale, dolce, che ti fa dormire ma ti tiene allo stesso tempo in attività, il reggae da sempre esercita molto fascino su di me”.
“Questo brano poi a primo ascolto mi colse proprio di sorpresa, per il suo stacco così evidente dagli altri che lo precedono. Penso sempre ci sia uno studio alla base di ogni scaletta, è così anche nel tuo caso?”
“Sì, è così, quella canzone si trova al posto giusto! Le sono molto legata, il testo vuole trasmettere un senso di conforto e quello te lo da’ il reggae, genere che ho ascoltato tanto, ci sono cresciuta ed è per me una naturale contaminazione che viene dai miei ascolti. Come detto, le musiche variano a seconda dei temi trattati e delle atmosfere evocate dalle parole stesse. Nel già citato “Ramu siccu”, il versante musicale si adagia su una specie di elettronico trance rock molto vario, in cui gli arrangiamenti di Michele Musarra hanno aiutato molto a trasmettere proprio quello che avevo in mente e che già era connaturato in quegli episodi”.
Credit foto: La Flan
“A me ha colpito tanto anche il brano in cui hai coinvolto Agostino Tilotta. Ascolto molto indie rock e immagino che gli Uzeda a Catania siano un’istituzione, com’è stato lavorare con lui?”
“L’hai detto, lui è un personaggio enorme! Diciamo che per questo disco ho avuto due shock artistici se possiamo definirli così ma in fondo è proprio come mi sono sentita. Il primo è avvenuto per Cesare Basile(che è intervenuto suonando chitarra e percussioni in “Tridici maneri ri farisi munnu”, di cui ha anche curato l’arrangiamento), il secondo proprio per Agostino Tilotta.
Sai, sono stati due incontri che mi hanno anche aiutato a pormi in modo diverso, aprendo uno spiraglio su qualcosa che sono anch’io e che non sapevo di essere. In genere sono abbastanza guascona, non mi spaventa nulla, canto in tutte le tonalità e mi butto nelle cose, ma mi sono come “bloccata” quando ho incontrato quelli che sono anche dei miei miti! Ho dovuto ripensarmi e c’ho messo un po’ in effetti per ritrovarmi.
“Menza spogghia” è nata da un testo di Gaspare Balsamo (che introduce in modo suggestivo il brano), c’è lui che racconta una scena; avevamo dato il testo ad Agostino e Gaspare nel frattempo aveva inventato un pezzetto della melodia centrale. In pratica Agostino aveva solo quello, si è fatto lui il film della canzone, l’idea era di lavorare in studio tutti insieme per vedere cosa ne sarebbe uscito. Lui è arrivato, si è seduto con la sua chitarra acustica – Michele stava montando i microfoni – e si è messo a suonare, al ché mi sono ritrovata a piangere dall’emozione, credo proprio lui non se ne sia accorto e magari lo scoprirà soltanto adesso. Era del tipo “wow! Che mi sta succedendo?”. Quel giro di chitarra era così emozionante, se l’era inventato e costruito per me e per il mio disco, ed era già così “perfetto” per quella cosa che dovevamo raccontare. Anche il brano con Cesare è molto suggestivo e significativo, su una melodia di PuccioCastrogiovanni: sono così onorata che abbiano collaborato con me”.
“Mi sembra una figura molto importante fra gli altri anche Puccio Castrogiovanni, no?”
“Certamente, lui si occupa della direzione artistica, lavoriamo insieme e siamo molto affiatati. E’ sempre così visionario e pratico insieme, ha delle visioni e le mette in pratica, letteralmente; io ho intuizioni, illuminazioni ma sono anche autodistruttiva, dico potremmo fare quella cosa là e un attimo dopo si però verrà malissimo, sarà un fallimento, e lui invece tranquillo mi risponde: ma no, prendiamolo e iniziamo a lavorarci e poi finalmente vediamo che riscontro hanno nella realtà. E’ un po’ il mio contraltare artistico”.
“Tornando alla scaletta, e ribadendo quanto sia “magico” per me un pezzo come “Tridici maneri ri farisi munnu” (scritto dal poeta Biagio Guerrera),noto come siano ben bilanciati momenti in cui l’aria si fa più greve, quando racconti determinate situazioni, e altri in cui pervade un maggior senso di leggerezza: direi che i due poli ci stanno benissimo nell’album. Mi viene in mente ad esempio un brano come “Picchiu pacchiu”, una canzone deliziosa che segue un certo filone e mostra un’altra faccia rispetto a quei pezzi più intimi e chiaroscurali. Cosa mi puoi raccontare in merito?”
“Picchiu pacchiu” rappresenta la mia parte teatrale, ed è nata da un testo geniale di Carmelo Chiaramonte, che è uno chef. La mia idea alla base era di raccontare un mondo riferimento, scandagliando quel particolare humus creativo che vedevo attorno a me in questo momento, in questi anni a Catania, coinvolgendo quelle persone la cui creatività sentivo simile alla mia. Volevo assolutamente scambiare delle cose con loro: se ci pensi i vari Giovanni Calcagno, Marinella Fiume, sono tutte personalità pazzesche!
A ognuno avevo chiesto di interpretare un tema, a Carmelo nella fattispecie una ricetta, ma lui è andato molto oltre, avendomi addirittura costruito attorno una storia dove sembro proprio io la protagonista, se si facesse un videoclip potrei benissimo essere io a interpretare la scena, anzi mi vedo con la vestaglia allacciata davanti che va al mercato e poi torna a casa e cucina: sono “dentro” a quella cosa, è come dicevo la mia parte teatrale che riemerge prepotente, come nel primo disco dove interpretavo un personaggio”.
“Questo brano mi ha colpito molto, perché a differenza di quelli dove sei meno diretta, qui invece attraverso le parole di Carmelo ti si disegna davanti la scena e lo stesso effetto me lo fa “A merca”: questo particolare aspetto del disco me lo rende vitale, in quanto non c’è un’unica direzione né a livello musicale né di atmosfera del pezzo o nei testi, cosicché ogni traccia acquista la sua importanza nel contesto generale.
Eppure, al di là di un racconto molto immediato, nell’introduzione di “A merca”, il cui ascolto è appunto lineare, tu hai dato un significato molto importante: l’aver coraggio di osare fin da quando si è bambini. Anche qui ricorri alla metafora affidandoti a un ricordo preciso?”
“Qualche tempo fa avevo assistito a una di quelle short talks, delle brevi conferenze a tema scientifico, nella quale una donna ricordava di essere coraggiose piuttosto che perfette, e io l’ho trovata una frase illuminante, ho ricostruito la mia vita, ricordando un episodio a cui avevo pensato ripetutamente nel corso di questi venti anni. Avevo vissuto sulla mia pelle quella cosa, capivo a che si riferisse. La paura delle sfide era un tema ancora attuale, era “vero” ma perché? La risposta è che il mio ideale inculcato di donna è “essere perfetta”, perchè altrimenti subisci delle implicazioni, estremizzando sei portata a pensare che se non rispondi a certi canoni ti vogliano meno bene, sei meno amata, sei dileggiata, una serie di stati d’animo che i miei amici maschi non hanno mai provato”.
“Mah, forse in misura minore ma credo riguardi anche i maschi…”
“Non so, probabilmente aprirò dei dibattiti quando presenterò spero a breve le mie canzoni sui palchi, magari le mie saranno tesi se vuoi semplici o bizzarre ma penso davvero che le donne sono cresciute con l’idea di essere perfette, mentre gli uomini sono “addestrati” per essere coraggiosi. Poi gente come Puccio o Biagio Guerrera, due compagni “di cuore”, persone molto vicine (quindi parlo di un’umanità non troppo lontana da me), sostengono che questa tesi sia applicabile in genere alle persone e non solo alle donne”.
“Sinceramente lo credo anch’io, specie nella società attuale. Vent’anni fa magari no ma al giorno d’oggi i quindicenni, parlo dei maschi, sentono eccome il peso di essere perfetti. Ho insegnato anni fa in una classe di adolescenti e già si vedeva un cambiamento culturale, quindi concordo con i tuoi compagni musicali”
“Forse perché anche tu tendenzialmente sei un artista, e quindi ci può essere una sensibilità diversa, invece nel maschio tipico questa cosa non l’ho mai riscontrata. Proprio il protagonista del racconto di “A merca” in fondo viene incontro alla mia tesi. Lui è un mio vecchio amico, ora fa l’avvocato, e dice che con quel brano l’ho inchiodato alla sua vera natura, si è rivisto in ciò che ho scritto e che volevo trasmettere. Dice anzi che le sfide lo accendono, e parole sue: “io vivo solo se sono coraggioso”. Non ne avevamo più parlato di quell’episodio ma è stato un attimo rivivere quei momenti, ci siamo subito capito, sapevamo entrambi a cosa si riferisse quella canzone”
Io con la mia copia di “Moviti ferma”, il bellissimo album di Eleonora Bordonaro
“Parlami ora dell’importanza del dialetto siciliano nelle tue canzoni, che a mio avviso dona autenticità e fascino al tutto. Come ti sei avvicinata al suo utilizzo in ambito artistico?”
“Una cosa che mi contraddistingue e che ho sempre voluto portare avanti è con quale dialetto esprimermi? e la risposta che mi sono data è che nelle mie canzoni io avrei utilizzato il siciliano “vero” e di questo, lo ammetto, ne vado abbastanza fiera. La mia attenzione infatti è per il siciliano parlato normalmente, nella vita di tutti i giorni, non un siciliano “italianizzato”, edulcorato; magari può essere un limite ma se devo farlo per amore della lingua, non ha senso che io volendola diffondere lo faccia in modo sbagliato”
“Questo è un punto di contatto che riscontro in altri artisti che si esprimono in dialetto, sono d’accordo che dev’essere come dici tu: verace, autentico, se vogliamo tramandare qualcosa di reale”
“Assolutamente, quello che propongo è il dialetto che parlava mia nonna, è un dialetto degli anni ‘60 e ’70, mi interessa trasmettere qualcosa che ci riguardi più da vicino, senza timore di guardare al passato”.
“Nell’album fai ricorso anche a un dialetto ancora più particolare, il Gallo Italico, in un brano come “Idijevu di Vurchean”,che assieme a “Omu a mari”(dove intervengono i Lautari, nda) rappresenta un’escursione letteraria. Non conoscevo questo dialetto, è così rilevante nella tua zone?”
“In realtà non è preminente affatto nella mia zona d’origine, ma nelle mie “perversioni” sì… è parlato solo da una piccola comunità di 3000 abitanti, San Fratello, e deriva da quei soldati che ai tempi della dominazione normanna arrivarono qui dal Nord Italia, quindi semplificando è indicato come il Lombardo di Sicilia”.
“Un po’ come il Cimbro dalle mie parti, che ha ascendenze totalmente diverse rispetto al veneto”
“Sì, sono quelle storie che mi affascinano enormemente, questa gente ha mantenuto inalterata nei secoli la propria lingua, si capiscono solo tra loro, a 15 km da lì non li comprende più nessuno e per me questa cosa è pazzesca: come si fa a essere così contaminati e allo stesso tempo così isolati e caparbi nel mantenere una propria identità? E poi è una lingua veramente poetica, possiede un suono speciale del quale i sanfratellani hanno sempre sottovalutato la potenzialità. Una lingua in cui le note si appoggiano sulle vocali, e ciò la rende musicale, in fondo anche l’inglese è così e di questo “limite” ne ha fatto la sua forza espressiva”.
“A livello musicale quel brano è altrettanto intrigante, visto che riprende la melodia di un classico del repertorio di Bahia del musicista Paulinho Do Reco, in questo caso come ti è venuta la suggestione?”
“Beh, un altro dei miei amori è per la musica brasiliana, che è in qualche modo la voce del popolo ma parla al cielo, ha con sé una visione trascendente, la versione di Bahia poi si usa nel Carnevale e parla degli Orisha, della divinità, ma racconta allo stesso modo la bellezza della razza nera, degli afro discendenti brasiliani e del loro orgoglio”.
“E quindi hai associato queste caratteristiche alla comunità di San Fratello che si esprime ancora in Gallo Italico, è corretto fare un parallelismo in questo senso?”
“Esattamente, quel testo parlava dei ricchi, che hanno benefici anche se vedono i poveri soffrire, ma si dice che arriveranno prima o poi i diavoli dall’Isola di Vulcano e… infine li prenderanno a mazzate! Che poi quella cittadina si trova di fronte all’isola di Vulcano, nelle Eolie, e chissà loro anticamente cosa immaginavano, che vedevano al di là del mare”.
“Veniamo ora a un altro aspetto, quello della vocalità, che soprattutto nel tuo genere di riferimento che, per quanto sia difficile definirlo, potremmo inquadrare nella world music, diviene fondamentale. La voce infatti diventa essa stessa strumento nei dischi di questa matrice, e l’interprete non soltanto deve mettere la fisicità nei live ma proprio sfruttare al massimo la forza espressiva, l’intonazione: quando hai scoperto che la tua voce sarebbe diventata un mezzo, uno strumento? Quando hai compreso di possedere un talento?”
“In realtà molto presto, direi da quando avevo 2 anni e mi veniva naturale cantare, tanto che dividevo il mondo in chi conosce le parole di una canzone e chi no, cioè quella era per me la discriminante per chi volesse cantare o meno. L’unico ostacolo nel mio pensiero da bambina poteva essere quello: il non conoscere le parole. A 11/12 anni mi hanno detto “tu hai una voce” ma non ne ero ancora del tutto consapevole, anche se poi ricostruendo la mia storia e andando a ritroso nel tempo, è vero che durante le recite facevano cantare sempre me, da sola, non in coro e la canzone la cantavo tutta dall’inizio alla fine ma non sapevo certo di avere un particolare talento rispetto ad altri. Solo molto più tardi ho capito che avevo una peculiarità, ma non ho studiato musica (mi sono laureata in giurisprudenza, per dire), il fatto di fare qualcosa di importante in questo campo lo escludevo proprio dalla mia vita”.
“Però immagino tu avessi già un bagaglio musicale, una tua gamma di ascolti preferiti, prima mi parlavi della passione per il reggae o per la musica brasiliana”
“Sì, se per quello cantavo già in alcuni gruppi e mi cimentavo in alcuni spettacoli, mi esibivo nelle feste di piazza ma nulla che potesse farmi presupporre un mio personale percorso artistico”.
Credit foto: La Flan
“Non pensavi quindi che vent’anni dopo ti saresti trovata finalista al Premio Tenco e intervistata da Gianni Gardon?” (scherzo)
“No, in effetti no, ah ah. Davvero, il fatto di scrivere lo avevo escluso, pensavo che al massimo sarei stata un’interprete di canzoni che esistevano già ma anche come cantante in quei primi tentativi non avevo un genere preciso: cantavo di tutto, da Aretha Franklin agli Skunk Anansie, riuscivo a interpretare perfettamente Tracy Chapman, una dei miei grandi amori! Mi ricordo un mio regalo di Natale di nonna: mi diedi i soldi e andai al negozio a comprarmi la cassetta… disse che non era un regalo “utile” ma era una cosa preziosa che mi faceva stare bene! All’epoca la musica iniziava a insinuarsi sotto pelle, tornavo da scuola, mia mamma magari era ancora al lavoro e io mentre riscaldavo il pasto cantavo e cantavo, cercando le canzoni più difficili e pensavo in un primo momento di non farcela, finché invece poi riuscivo dopo qualche tentativo a riprodurre tutto. Poi è arrivata Rachelle Ferrell e lì è cambiato tutto, la voce diventava la vera protagonista: rappresentava la piena libertà, secondo ovviamente le possibilità anatomiche di ognuno”.
“Quindi a un certo punto i tuoi modelli di ispirazione hanno iniziato a delinearsi, quelli che potevano rispecchiare la tua musicalità. Quando è avvenuto il tuo passaggio in territori world? Quando ti sei specializzata in certi ambiti, che poi ti hanno condotto verso una strada più personale?”
“Mi sono specializzata, o meglio diciamo che sono entrata direttamente in contatto con la musica world nell’Orchestra Popolare Italiana di Ambrogio Sparagna, lì davvero ho scoperto quanto mi venisse naturale cantare in siciliano, senza con questo dover necessariamente seguire gli stilemi tramandati e fatti propri da Rosa Balistreri, la cui musica è stata un privilegio ma allo stesso tempo un limite per chi si affacciava come me alla musica cantata in dialetto. Non avendo molti riferimenti culturali in tal senso, se non quello, praticamente da noi tutti quelli che si avvicinano a questo mondo cercano di emularne la voce e il particolare cantato, ma Rosa Balistreri era autentica e ha cercato e si è costruito il suo modo di cantare perché poteva essere solo quello, l’unico che potesse rappresentarla nella sua sofferenza: aveva quell’emissione, quella carica, quella potenzialità, ruvidità, brillantezza, tutte componenti importanti che lei trasmetteva in maniera spontanea. Le stesse peculiarità esercitate pari pari da noi donne di quest’epoca cresciute in un mondo “borghese” non rendono bene. Anzi, volendo riproporne a forza lo stile, diventa una mera imitazione e tutto ciò lo considero francamente ridicolo”.
“E’ una cosa che ho notato anche in altre Regioni d’Italia, come ad esempio in Puglia, Terra d’origine di mia moglie; anche lì si è in presenza di una vasta tradizione culturale che ricorre all’uso dei vari dialetti ma da parte dei nuovi interpreti si nota un’esigenza quasi di trovare una propria chiave personale a livello meramente interpretativo, senza scimmiottare i grandi del passato, pur rifacendosi inevitabilmente alla tradizione (sennò nemmeno si chiamerebbe “musica popolare”). Credo sia opportuno, e lo dico da amante delle canzoni in dialetto, che ognuno trovi una strada, contaminando la propria musica come hai fatto tu in questo disco”
“Grazie delle tue parole, nel mio caso ho lavorato anche sulla pronuncia, sull’enunciazione di certe parole, poiché in genere la pronuncia siciliana è spesso cupa, gutturale, intensa ma molto chiusa. Io reputo sia importante assecondare l’intensità dell’emissione della parola in base al suo significato. Forzare una pronuncia, calcandola, per assomigliare a qualcos’altro, per me non era una cosa divertente. Così, se tu ascolti una canzone come “Picchiu pacchiu”, intono un siciliano che sembra brasiliano, alle parole do’ un suono più leggero, mai forzato. Almeno speravo di fare questo, non so se in effetti ci sono riuscita”
“Beh, io non sono propriamente di madrelingua ma sento una vocalità per nulla pesante, anzi, a tratti direi che è molto dolce”
“Sì, può essere dolce ma anche disperata, basta che si adatti al tema, all’atmosfera di un determinato momento del racconto, non è più insomma quella cosa gutturale, di petto, che sono poi le riproposizioni uguali allo stile tradizionale. Il mio è un tentativo che ho introdotto in questo album, quello vorrei fare e spero sia così in futuro”.
“Ecco, mi dai il gancio per un’ultima domanda, che vorrei riguardasse il futuro ma che inevitabilmente mai come in questo 2020 è prima di tutto condizionato dal presente. Questo progetto per forza di cosa è stato stoppato sul nascere e mi auguro di cuore che riuscirai a esibirti presto. Quanto ti manca il non aver portato in giro questo lavoro così ricco? Hai nel frattempo messo in circolo altre idee? Cosa vedi a livello artistico nella tua sfera di cristallo?
“Eh, un titolo più premonitore di “Moviti ferma” (che ricordiamo significa “resta ferma”) non avrei potuto trovarlo, visto che è uscito un giorno prima del lockdown generale! Scherzi a parte, dentro di me questo lavoro deve essere ancora vissuto, consumato ed elaborato fino in fondo, sento che ha ancora tanto da trasmettere agli altri e anche a me stessa. C’è un percorso da fare, devo poter raccogliere delle cose che al momento non posso ancora prevedere. Non sono stata molto creativa in questo periodo, ci sono delle fasi quando scrivo, quella dell’incubazione e della restituzione che passa attraverso la produzione, la realizzazione delle idee. Non sono ancora pronta a far ripartire il ciclo creativo ma in realtà c’è un’ idea che mi balena per la testa da quando ho accolto con entusiasmo un’altra grande suggestione di Puccio Castrogiovanni.
Credit foto: Paolo Benegiamo
Siamo in pratica a un bivio, avevamo due scelte dopo che l’album era arrivato in finale al Tenco: o aprirsi alla lingua italiana, qualcosa di più pop, oppure calcare la mano su questioni prettamente artistiche, e siamo concordi che la strada da intraprendere sia quella di osare di più, magari coltivando ancora maggiormente l’utilizzo del Gallo Italico”.
“Il Gallo Italico ha colpito tanto anche me, il brano in questione si stagliava veramente dal resto della scaletta e direi che dedicare un intero progetto a questa lingua così misteriosa e ricca di storia potrebbe rivelarsi una carta vincente e particolare”
“Per me è importante continuare a esplorare nuovi territori, nuove soluzioni, devo sentirmi viva quando scrivo e creo arte. Quando ascolto il Gallo Italico mi giungono sensazioni forti, variegate, e la sfida è poi quella di riuscire a riversarle intatte in un album. Spero che per l’ascoltatore sia emozionante, energico, toccante, e per questo vorrei che i miei lavori arrivassero a più persone possibili”.
“Il tuo disco doveva rimanere fermo, invece è arrivato eccome a parte della critica…”
“E’ vero ciò che dici, il disco si è mosso! Mentre io me ne stavo ferma a casa di mia madre, sull’Etna a guardare le montagne o facevo yoga, lui ha fatto il percorso che doveva fare ma adesso quella strada dobbiamo percorrerla insieme, io con il mio disco devo andare nei teatri e farlo suonare, renderlo vivo più che mai, perché la mia dimensione è il live. Ho fatto finora due dischi di cui sono felicissima e orgogliosa ma il palco è il luogo dove succedono un sacco di cose, dove mi esprimo al meglio, chiacchiero, sono protetta, è la parte di vita in cui sono sicura che non può succedermi niente, è come se avessi tutto sotto controllo, mentre evidentemente sul palco non hai proprio niente sotto controllo!”.
“Beh, è una cosa tua quella lì, ormai l’ho capito!”
“So che sembra assurdo infatti, ma proprio lì dove succede ogni imprevisto (si spegne una spia, manca la luce, mi scappa uno starnuto, insomma di tutto e di più), io mi sento come dire… “invincibile” e questo lo vedo perché prima di tutto mi diverto. A maggior ragione dopo che ho trovato la mia lingua, il siciliano, e con esso un contenuto, perché finchè cantavo le canzoni di Aretha o della Ferrell, sì, volevo bene alla mia voce e mi piaceva l’energia che ne veniva fuori, ma in fondo non ci credevo perché mi mancava un pezzo, e quel pezzo è il contenuto, la mia storia. Prima cantavo quelle stesse cose che avrebbero potuto essere interpretate da altri, adesso che finalmente sto trovando la mia strada e canto le mie cose, è tutta un’altra storia!”
“E io direi che di contenuti ne hai parecchi e sono contento di averli sentiti dalla tua voce”
“Grazie Gianni, a te”
Il consiglio mio, cari lettori, è quello di abbandonarsi alla musica di questa artista, così multiforme e affascinante, perché potrete rimanerne letteralmente conquistati.
Da tempo volevo dedicare in questo blog un po’ di spazio a una delle artiste di casa nostra certamente tra le più interessanti e talentuose, vale a dire la veneziana Rossella Seno.
Il suo “Pura come una bestemmia” infatti rinverdisce a pieno titolo i fasti della canzone d’autore, quella più pregante di significati e densa di spessore, per tematiche, atmosfere, suoni.
Tutto è condensato nel migliore dei modi in queste tredici tracce che, sin dal primo ascolto, non possono proprio lasciare indifferenti.
La copertina dell’album “Pura come una bestemmia” di Rossella Seno
Ogni tassello di questo mosaico (pubblicato dalla label veronese Azzurra Music) è al punto giusto, a iniziare dalla magnetica copertina (opera dell’artista Moby Dick, alias Marco Tarascio), dai toni mistici oltreché implicitamente provocatori, con la Nostra – come da titolo – crocifissa, atta a rappresentare la maniera brutale in cui ancora oggi vengono spesso maltrattate non solo le donne, qui esemplificate dalla stessa Rossella (che oltre a cantare, sa declinare la sua arte mediante la recitazione, impegnata com’è in progetti anche particolari e ricchi di significati profondo come il “teatro sociale” da lei definito), ma anche la Terra in cui viviamo, la natura spesso offuscata, quando non del tutto nascosta, da un mucchio di rifiuti.
E’ facile quindi partendo da presupposti simili comprendere quali siano le finalità e il filo conduttore di un album che guarda agli “ultimi”, agli indifesi, a chi fatica a fare sentire la propria voce.
In questo è innegabile vengano a galla le influenze che accompagnano la Seno da quando ha capito che la musica (e i testi in particolare) potevano avere una grande valenza non solo narrativa ma anche sociale.
Certi spunti affrontati con perizia e grande senso etico devono molto all’esperienza dei più grandi, da De Andrè a Tenco, da Endrigo a Fossati – e in tal senso il pool d’autori occorso a dare il proprio contributo alla realizzazione del disco assomiglia a un vero parterre de rois – ma a rendere memorabili, toccanti e assai coinvolgenti tutti i brani è proprio la presenza e la performance di Rossella Seno, il cui canto appare profondo, passionale, intenso ma mai greve e scostante.
Alcune canzoni partono da più lontano, essendo già state proposte dal vivo nei suoi spettacoli, ormai era arrivato il momento giusto per fissarle su nastro e dare modo a più gente possibile di scoprire degli autentici gioielli.
A coadiuvarla in maniera più preponderante in questo “viaggio” è stato il polistrumentista Massimo Germini (ha suonato chitarre, basso, armonica e mandolino), che ha scritto la musica di ben otto brani e soprattutto ha curato i pregevoli arrangiamenti dell’intero album, ma in fase di scrittura e in studio sono intervenuti a collaborare nomi illustri come Pino Pavone (impossibile non citare la sua fruttuosa esperienza con Piero Ciampi), Michele Caccamo, stimatissimo poeta anche all’estero, Federico Sirianni e Lino Rufo; quest’ultimo poi ha musicato un testo del mai dimenticato Edoardo Sanguineti, per uno degli episodi più suggestivi della raccolta: “La ballata delle donne”, ulteriormente impreziosita dall’evocativa voce di Mauro Ermanno Giovanardi, per un duetto a dir poco struggente.
Giusto però citare tutti coloro che hanno apposto la propria firma in questo progetto così rilevante: Matteo Passante (che con Germini ha scritto tre brani, tra cui il mio preferito ma ci tornerò su più tardi), Paolo Fiorucci, Piero Pintucci (stretto collaboratore di Renato Zero), per non dire dello scrittore Erri De Luca, cui si devono le significative parole di “Mare nostro”, recitate nella prima traccia da Rossella, a indicare il mood di tutta l’opera.
Tra i musicisti vanno segnalati il polivalente Lele Battista (che non ha certo bisogno di presentazioni), Alessandro D’Alessandro che regala il suo organetto nella paradigmatica “Sei l’ultimo”, uno degli episodi più degni di nota di quello che ha tutti i crismi di un concept-album, il percussionista Emiliano Cava e gli archi appannaggio di Simone Rossetti (al violino) e Saverio Gliozzi (al violoncello), già nei Khora Quartet.
Una strumentazione prettamente acustica ma che miscelata in modo mirabile dal già citato Massimo Germini (per anni al fianco di RobertoVecchioni come chitarrista) crea una moltitudine di stili, colori, umori, rendendo oltremodo variegato e ricco l’apparato musicale.
Foto di Carlo Bellincampi
Dicevamo, l’inizio è affidato a “Mare nostro” e alle sue parole cariche di pathos: “Mare nostro che non sei nei cieli/ e abbracci i confini dell’isola e del mondo/ sia benedetto il tuo sale/ sia benedetto il tuo fondale/ Accogli le gremite imbarcazioni/ senza una strada sopra le tue onde/ i pescatori usciti nella notte/ che tornano al mattino/ con la pesca dei naufraghi salvati” che si riconducono alla traccia seguente, l’altrettanto profonda “Ascoltami o Signore”, sorta di invocazione interamente scritta da Federico Sirianni.
Un uno-due posto in apertura in grado di stenderti, non c’è niente da dire!
“Principessa” – il cui testo è di Pino Pavone (autore con Germini anche de “La città è caduta”) si stacca a livello narrativo dalle precedenti e risalta per i suoi toni più riflessivi e intimi; de “La ballata delle donne” ho accennato poc’anzi: si tratta di una composizione di ottima fattura, tra cantautorato e folk, forse la più “deandreiana” di tutte.
Arriviamo così a uno degli episodi più a fuoco, in cui la Seno sembra cantare ancora con maggior trasporto emotivo: lo fa per omaggiare la vicenda di Stefano Cucchi nella toccante “Gli occhi di Stefano”, indubbiamente uno degli apici del disco.
Il brano di Caccamo e Pintucci assume sin da subito toni forti e da metaforici i versi si fanno via via più cruenti e diretti, fino al ritornello intriso di alto lirismo: “Stefano è un Cristo/ ha le stimmate rosse/ ma non sono spine/ piuttosto percosse/ e la sua sindone/ hanno messo nel secchio/ tanto quell’uomo/ non sarà mai vecchio“. Una canzone che non può non toccare gli animi più sensibili.
Si tira un po’ il fiato con la successiva, briosa “La città è caduta”, dall’arrangiamento gentile, mentre “Luna su di me” vanta un testo (ad opera di Paolo Fiorucci) poetico e immaginifico.
E’ questo un caposaldo del disco, dagli importanti risvolti sociali, in quanto inciso in favore di “Animals Asia”, Fondazione bolognese per la protezione e il salvataggio degli orsi tibetani, i cosiddetti “orsi della luna”, costretti a subire atroci sofferenze in quanto la loro bile viene utilizzata come elemento della tradizionale medicina asiatica.
In questo modo l’artista ha voluto sensibilizzare su una questione poco nota e più in generale rimarcare come l’uomo sappia essere crudele nei confronti degli animali.
La tracklist prosegue alla grande con “La chiamano strega”, che già avevamo apprezzato in principio di progetto, essendo stata scelta come singolo: i motivi e i meriti ci sono tutti, visto che si tratta di uno di quegli esempi in cui la canzone d’autore torna a svettare come dicevo nella mia introduzione. Michele Caccamo, che su musica del “solito”MassimoGermini, ha scritto il testo, conferma una volta di più il suo gran gusto nello sviscerare ritratti, poi resi nel migliore di modi dalla titolare del progetto.
Stavolta la vicenda narrata trae ispirazione dalla vera storia della polacca Simona Kossak, artefice di una scelta tanto drastica quanto affascinante e unica: lasciare la sua vita di biologa per andare a vivere a pieno contatto con la natura, nella foresta di Bialowieza, con una concezione del mondo arcaico e genuino. Additata per questo come “strega”, la sua storia ha lasciato un solco profondo nell’anima di Rossella, per come la società tenda spesso a stigmatizzare chi rinuncia consapevolmente a un modello di esistenza legato indissolubilmente agli aspetti più materiali.
Seguono due brani la cui componente musicale attrae quanto quella narrativa (in un album in cui si è ormai capito il livello dei testi è molto alto): “Io che quando posso” e “Remi e ali” (scritti da Passante e Germini) sono affreschi d’autore intessuti in una veste vagamente più pop, specie la seconda (eccola qui, la mia canzone preferita, per quanto possa interessare!) la cui scintillante melodia e un arrangiamento misurato ma ricco la fanno contraddistinguere nell’ambito di un disco per il resto davvero omogeneo. A scanso di equivoci, anche qui il tema portante, quello del dolore dell’assenza, viene trattato con estrema cura e delicatezza.
Si tratta però di un intermezzo più leggero in attesa del gran finale, segnato da un trittico eloquente per eleganza interpretativa, impeto narrativo e pulizia musicale, elementi cardini di “Pura come una bestemmia”.
foto di Carlo Bellincampi
“Lasciatemi stare” è anch’essa baciata dal talento autoriale di MicheleCaccamo, che delinea un racconto crudo, dove le immagini violente si rincorrono e si susseguono a testimonianza di quanto la realtà può essere dura e assai poco consolatoria. Il testo in prima persona enfatizza il dolore e l’angoscioso tormento della protagonista, il cui amato si è suicidato in carcere.
In “Sei l’ultimo” il tono descrittivo si alterna all’afflato poetico – alla De Gregori , specie nel fluido ritornello – e musicalmente ha un sapore antico ma tremendamente efficace.
Se la prima canzone incontrata in questo viaggio – dopo la intro “Mare nostro” portava la firma di Federico Sirianni, è lo stesso cantautore a occuparsi di darne degnissima chiusura con l’incalzante “Puri come una bestemmia”, che come un’epifania si era manifestata a Rossella Seno proprio in dirittura d’arrivo, quando l’album sembrava quasi considerarsi concluso. “Quasi” appunto, perchè evidentemente questo ulteriore, ultimo tassello, aveva urgenza di essere dato alla luce e formarsi.
Le sue parole in effetti suggellano perfettamente ciò che nel frattempo abbiamo ascoltato a amato: “Scagliano pietre e lanciano bengala, mettono al rogo la madre e la bambina, hanno un Vangelo per la cena di gala e un Kirie Eleyson per la messa alla mattina, il grano per la mietitura, il sangue per la vendemmia, hanno tutti il cuore puro, puro come una bestemmia”.
Uno schiaffo a tutti i perbenisti, a chi antepone la forma alla sostanza, agli ipocriti, ai puri come una bestemmia appunto.
foto di Furio Pozzi
Cosa posso aggiungere infine su questo album?
Una parola in più la spendo volentieri proprio su di lei, su Rossella che, come le grandi interpreti del passato, ha marchiato a fuoco l’intero focus artistico, forte di una personalità multiforme in grado di emergere in tutto il suo talento e il suo estro, e di indirizzare il lavoro in una sola direzione, illuminata da tanta passione e qualità.
La pandemia che ancora, ahimè, ci coinvolge tutti ha ovviamente condizionato il percorso dell’artista veneta – e di questo album in particolare – quando la stessa già doveva partire con uno spettacolo che si preannunciava interessante nella sua commistione tra musica e teatro. Ma il tempo di recuperare ci sarà tutto, questo è quello che tutti ci auguriamo di cuore.
Nel frattempo voi amici lettori affrettatevi a recuperare questo disco, a mio avviso tra i migliori usciti in Italia in questo funestato 2020.