Musica italiana da scoprire e amare: vi presento i dischi di Kreky, Puah, Giovanni Luca Valea, Raesta, Antonio Clemente, Paolo Zangara e Maria Mazzotta

Chi mi segue da più tempo nel blog avrà imparato a conoscere le mie passioni più grandi, che in questo spazio personale e totalmente libero ho sempre cercato di assecondare, ma allo stesso tempo si sarà pure capito che, causa principalmente i vari impegni, non sono solito soggiornarvi quotidianamente.

D’altronde PELLE e CALAMAIO non è una testata giornalistica, nonostante dia ad ogni pezzo qui pubblicato la stessa valenza e dignità di quelli che invece scrivo per le riviste e i siti con cui collaboro. Anzi, a maggior ragione, essendo questo un blog mio al cento per cento, ci tengo a offrire un servizio fatto bene ai miei lettori o a chiunque passasse di qui anche per caso.

Periodicamente ad esempio mi piace dedicare alla musica italiana, parlo di quella in genere fuori dai grossi circuiti, una particolare attenzione, indicando i nomi degli artisti che più mi hanno colpito, o i titoli che ritengo meritevoli di essere scoperti o quanto meno ricordati.

Ovvio, non posso “accontentare” tutti quelli che mi contattano in varie forme per avere una recensione o anche più semplicemente un parere, e credo che una selezione vada sempre messa in conto e sia doverosa farla, ma come ripeto sempre se qualcosa riesce a colpirmi, il modo poi di metterlo in luce lo trovo, anche dovesse trattarsi di una segnalazione.

È il caso di sette album che ora andrò di seguito ad elencare, lavori molto differenti tra di loro ma in egual misura in grado di contenere più di un elemento di interesse.

In alcuni casi si tratta di album che da tempo ho in stand-by e che per un motivo o per un altro non sono riuscito a trattare prima, e in maniera più approfondita, ma non essendo quello del giornalista il mio principale lavoro giocoforza i tempi di pubblicazione si possono dilatare.

Detto ciò, e scusandomi per la lunga (e magari per molti pleonastica) premessa, ecco quindi sette dischi di artisti italiani che consiglio di ascoltare, appartenenti come anticipato a galassie musicali differenti.

KREKY – TIME RUNS OUT

Il primo nome è quello di KREKY, cantautore sardo con già all’attivo diverse pubblicazioni, la cui musica guarda con ammirazione ad epigoni a stelle e strisce, creando così un ponte tra Italia e USA e in maniera quasi inconsapevole trasmettendoci al contempo un senso di appartenenza a dei luoghi magari lontani geograficamente ma vicini per affinità di spirito.

Nella sua ultima fatica, intitolata “Time Runs Out” il Nostro fa i conti con il tempo che inesorabilmente passa e induce domande e riflessioni, intessendo il tutto di chitarre ora ariose, ora distorte e vagamente rabbiose, senza mai far prevalere però quella sorta di nichilismo che le liriche potrebbero suggerire.
Il fantasma del Boss riecheggia qua e là ma a me Kreky, per la qualità interpretativa e l’innata capacità melodica ricorda più da vicino una band che amo, i Counting Crows. Ascoltate una ballata come “Friday” per credere!

PUAH – DUE ACCA HHO

Cambiamo totalmente scenari e attitudini con l’artista che segue, il cui vero nome è Alessandro Pagani, che per il suo esordio solista dopo varie esperienze non solo come cantante, ma anche come batterista e discografico, ha scelto di farsi chiamare PUAH (acronimo che sta per Piccola Unità Anti Hi-fi)

Mettendosi all’ascolto del disco “Due acca HHO” si rischia di rimanere quanto meno spiazzati, travolti da liriche a tratti ermetiche, quando non proprio nonsense, e da musiche ondivaghe che spesso e volentieri sul più bello, quando credi di essere stato in grado di catturarle, decidono di cambiare direzione, lasciandoti pieno di punti di domande. Ma in fondo è proprio questo che rende queste dieci composizioni affascinanti, perché dopo lo straniamento iniziale, ti accorgi invece di come sanno sorprenderti.
È un indie volutamente sghembo, lo-fi per definizione (e punk nell’indole, a partire dall’urticante copertina) ma certamente ben congegnato (e per nulla raffazzonato) quello di Pagani, una sorta di manifesto programmatico “contro” la musica di facile consumo.
Tra minimalismo, esperimenti, art-pop e vocazione cantautorale, Puah ti fa entrare in una centrifuga di suggestioni, riuscendo anche ad emozionare in un brano delicato come “Noè”.

GIOVANNI LUCA VALEA – CANZONI

GIOVANNI LUCA VALEA è un artista a tutto tondo, arrivato forse tardi alla musica ma che proprio con essa pare aver trovato il modo ideale di esprimersi, facendo confluire al meglio le sue inclinazioni più naturali.

Scrittore e poeta in origine, e quindi abile ovviamente con le parole, abbinando ad esse la forma musicale sente di poter valorizzare al meglio il suo messaggio, che si tratti di temi esistenziali come di trasmettere istanze sociali. Non a caso il suo ultimo lavoro si intitola “Canzoni” a rimarcare questa nuova espressione da coltivare. E pazienza se il canto sembra al momento passare in secondo piano, quasi se l’azione declamatoria facesse parte del suo dna; in fondo basta ascoltare episodi salienti come l’evocativa “La Costellazione del Cane”, “Principessa” o l’iniziale “James Dean” per coglierne un senso di urgenza e di autenticità.

RAESTA – FUOCO DI PAGLIA

L’Ep “Fuoco di paglia” di RAESTA sa catturarti appieno sin dalle note trascinanti e vivaci di “Ehi monsieur”, lasciandoci una piacevole sensazione di novità e freschezza.
Sono in tutto cinque pezzi ma ognuno di essi ti mostra una sfaccettatura diversa, a livello in primis di sound e attitudine, senza mai però far deragliare il lavoro, disperdendone energia e compattezza.
Il comune denominatore del disco è infatti dettato dalla personalità del giovane cantautore, che al brio unisce anche profondità e spessore in un brano come “Ragazzi marsigliesi”, la cui atmosfera rimanda agli anni settanta, seppur ottimamente attualizzati, o nella conclusiva “Pop Corn”, il cui titolo è fuorviante, considerata la nota malinconica che lo contraddistingue.

ANTONIO CLEMENTE – CASAVACANZE

Il nome di ANTONIO CLEMENTE non è nuovo su questo blog, perché al cantautore genovese (siciliano d’origine) avevo già dedicato uno scritto ai tempi dell’interessante “Ai confini del giorno”. D’altronde trovai la sua proposta musicale non solo vicina ai miei gusti personali ma proprio ricca e suggestiva in ogni sua traccia, e questo “Casavacanze” non fa altro che confermare quelle piacevoli sensazioni.
Qui si da’ libero sfogo ai ricordi, alla nostalgia, all’ebbrezza del desiderio, al fascino del tempo che passa, portando asperità ma soprattutto consapevolezze.
Un brano-manifesto dell’intera opera parrebbe essere “La mia casa”, che racchiude molti significati e sa inchiodare all’ascolto, ma all’interno vi si trovano tante scintille di qualità (“Notte di Giugno”, “Parlami di te” fra queste), grazie a un tessuto sonoro assolutamente variegato e multiforme che denota un ulteriore salto di qualità di Clemente, sempre più a suo agio alle prese con una canzone d’autore che non vuole inseguire fantasmi o imitare pedissequamente i più grandi.

PAOLO ZANGARA – SCUSI, DOV’È IL BAR?”

PAOLO ZANGARA ha rappresentato per me la grande sorpresa di questa prima parte dell’anno: il suo album di debutto, o meglio il suo primo pubblicato con tanto di nome e cognome “Scusi, dov’è il bar?” ha davvero un fascino d’altri tempi e sa rapirti abbinando tante componenti tutte importanti e funzionali per l’ottima riuscita del progetto.
Artista navigato, con all’attivo molteplici esperienze e collaborazioni, mai come in questo lavoro ha saputo estrarre l’anima da cantautore lasciando da parte per una volta quelle tentazioni sperimentali che tanto hanno caratterizzato il suo percorso precedente.
Sin dalle notturne e soffuse note di “Silenzi irrequieti” si coglie il senso profondo di un’opera che non teme di scomodare mostri sacri della canzone italiana come Luigi Tenco o Piero Ciampi, ma il disco si sintonizza presto su scenari più morbidi e placidi, come accade in “Dall’altra parte del mare” o nella jazzata “Parole”. Un album volutamente retrò, fuori dal tempo, ma che diventa un ascolto necessario anche oggi, nel 2024!

MARIA MAZZOTTA – ONDE

Infine, ci tengo a spendere qualche riga per un disco “italiano” ma che nell’anima e nel cuore sa guardare molto più al di là di stretti confini.
Quella dell’artista salentina MARIA MAZZOTTA è da sempre musica che rifugge i generi e le definizioni.
È arte allo stato puro, voce sontuosa ed espressiva che si sposa con melodie intense ed eterogenee. “Onde” mette in mostra le qualità che sono riconosciute unanimemente alla sua autrice, quella capacità di dare linfa alle parole e innestarle in un contesto etnico dove le matrici del folk e del rock creano il terreno fertile per un sound in tutto per tutto moderno e contaminato.
Si tratta di un album davvero trascinante, pieno di ritmo e colori, ma anche di dolcezza (come in “Damme la manu”) e pathos (nella struggente “Terra ca nun senti”).

Alla scoperta di Valerio Bruner, autore di “Vicarìa”, album dai pregevoli spunti letterari e musicali

Tra i tanti dischi che mi capitano di ascoltare me ne giungono alcuni che, in ordine temporale, sono usciti diverso tempo fa, il che renderebbe difficile per me poi recuperarli ai fini di una recensione; tuttavia, come dico sempre, la buona musica non ha una scadenza, e soprattutto se ascolto delle canzoni è per il puro piacere di farlo, non necessariamente quindi legato poi al fatto che ne dovrò scrivere da qualche parte.

E di musica, anche buona grazie al cielo, ne viene realizzata molta ancora oggi, e capita quindi di “sfruttare” questo blog per andare a segnalarla, come nel caso di oggi, visto che il personaggio in questione, e il lavoro che ha realizzato, merita assolutamente di essere conosciuto.

Valerio Bruner è un artista napoletano trentaseienne che vanta una lunga esperienza non solo in ambito prettamente musicale, visto che è impegnato ad esempio anche nel teatro, ma che in special modo proprio grazie alla magia delle sette note ha saputo coltivare e miscelare diverse passioni e inclinazioni, costruendosi una via personale, uno stile che diventa presto riconoscibile, basta davvero mettersi all’ascolto dei suoi lavori, purtroppo non così facilmente reperibili ma dei quali si può comunque trovare traccia.

Credit foto: Arianna Di Micco

Il suo ultimo disco in ordine di tempo è anche il suo progetto più compiuto, quello dove si è riappropriato pianamente delle sue radici: “Vicarìa” prende il nome dall’omonimo quartiere della sua città, dove è cresciuto, una zona di Napoli in qualche modo dimenticata, di confine non puramente geografico ma più che altro fra quella parte più rinomate e l’altra, quella non più “alla moda”.
Ed è proprio agli ultimi, ai più emarginati, a quelli che non vivono sotto i riflettori che Bruner ha sentito l’esigenza di dare voce, di dare dignità.

Avendo soggiornato spesso e volentieri a Londra – che ritiene in qualche modo speculare alla sua Napoli, città dalla quale sente talvolta di “fuggire” per poi farne inevitabilmente ritorno, come ne fosse inestricabilmente richiamato – e avendone assorbito le istanze culturali e artistiche, gli è venuto naturale interpretare in lingua inglese i suoi primi dischi, tutti significativi non solo per i contenuti importanti ma anche per la pregevole ricerca musicale, all’insegna di un rock ruvido, trascinante e suggestivo al tempo stesso.

Pensiamo quindi al suo esordio discografico assoluto, segnato da “Down the River” (2017), cui hanno fatto seguito due progetti incentrati sull’universo femminile (“La Belle Dame”) i cui proventi furono destinati all’Associazione Le Kassandre che si occupa del tema ahimè sempre drammaticamente attuale della violenza sulle donne.

Tuttavia per valorizzare appieno il suo nuovo progetto, l’artista, nelle cui vene scorre il rock di mostri sacri come Bruce Springsteen e il fuoco irruente del punk, Bruner ha optato per la lingua napoletana, anche rifacendo dei classici della musica internazionale, rendendoli oltretutto in maniera assai credibile.

Dotato di una voce graffiante ed espressiva, Valerio Bruner, rinnovato il sodalizio con il valente musicista e produttore Alessandro Liccardo – il quale ha composto le musiche del disco su testi dello stesso Bruner, oltre ad aver suonato le chitarre – ha così amalgamato le sue due anime, una più europea e l’altra legata alla sua Terra, realizzando un’opera assai interessante, tra rock, folk, blues e la canzone d’autore.

Credit foto: Arianna Di Micco

L’album è stato presentato una prima volta il 26 maggio scorso presso lo Spazio Comunale Forcella e il 5 giugno in un concerto presso il Carcere di Secondigliano per un gruppo  di  detenuti  di  alta  sicurezza, un’esperienza per lui unica e molto emozionante.

In “Vicarìa” hanno suonato i fidati Antonio Castaldo al basso e Alfonso Capone alla batteria e collaborato nomi prestigiosi quali la grande Brunella Selo nell’intensa “Tutto e niente” (davvero riuscita la commistione delle due voci) e Marilena Vitale, che ha scritto “Ya No Me Voy”, versione in portoghese della già nota “Sempe Ccà”, una delle canzoni più significative del lotto.
Il brano infatti era stato scritto due anni prima da Valerio Bruner in memoria dell’amico Mario Paciolla, giovane cooperante ONU scomparso in circostanze misteriose in Colombia. “Sempe Ccà” faceva parte di un progetto più ampio, fungendo da colonna sonora per il film documentario “Come fuoco”.

Nel momento di mettere nero su bianco il nuovo disco (pubblicato per l’etichetta indipendente napoletana Santa Marea Sonora Records), Valerio ha voluto comunque inserire in coda alla scaletta il brano in questione, in chiave acustica e come ghost track.

Detto ciò, andando più a fondo con la presentazione del lavoro, a colpire sono le intense liriche e la giusta alchimia tra musica e parole di quei brani inediti posti invece in apertura, vale a dire “Priavamo a Dio” – davvero suggestiva e in grado di trasmettere emozioni tangibili all’ascoltatore – e “Core Mio”, altrettanto coinvolgente, esempi lampanti del talento narrativo e poetico del Nostro.

Il rock torna vivido e pulsante in “Carne ‘e Maciello”, mentre reminiscenze folk ammantano la morbida “Ave Maria” che fa da preludio a “Maronna Nera”, ottimo rifacimento della celebre “House of the Rising Sun”, in cui Bruner mostra ottime doti interpretative e vocali.

Nell’album quest’ultima è inserita in versione live, così come le seguenti “Napule Chiamma”, cover di “London Calling” dei maestri Clash, gruppo a cui Bruner deve indubbiamente molto per la sua formazione, e “Arraggia ‘E Chi Nun Vence Maje (Hey Hey, My My)”.

Credit foto: Arianna Di Micco

“Vicarìa” mette in mostra quindi tutto il valore del suo autore, che tra le pieghe di queste canzoni sembra essersi svuotato, avendo riversato tutto se stesso: è un lavoro vivo, autentico, passionale, che giunge con forza lanciando un messaggio di speranza, ammonendoci di non volgere lo sguardo da un’altra parte quando vediamo chi sta realmente in difficoltà. Perché nonostante la società sembra volerci imporre per forza solo determinati modelli vincenti, è giusto ricordare che esiste un popolo che non si riconosce in quei valori spesso artificiosi e che ogni giorno combatte non solo per affermarsi ma proprio per condurre in porto al meglio la propria vita.

Sanremo 2024: il bilancio finale – nell’ultima edizione targata Amadeus trionfa Angelina Mango

L’ultima edizione del Festival di Sanremo targata Amadeus andrà agli annali come la più magniloquente a livello di “numeri”, debordanti per quanto riguarda gli ascolti ma pure banalmente per il numero di canzoni presentate in gara.
Se sul primo punto posso solo limitarmi ad applaudire l’operato del conduttore, che di certo ha riportato la kermesse a punte di popolarità vicine solo a certe annate legate al nome di Pippo Baudo, sul secondo invece sin da subito avevo espresso dei dubbi, gli stessi che ho nel vedere eliminata del tutto una categoria importante come le “Nuove Proposte”.

Trenta canzoni tutte insieme in gara sono tante, troppe, col rischio che molte di esse passino in silenzio, non riuscendo a emergere, regalando sì un momento “di gloria” ad artisti trovatosi lì magari per scommessa del direttore artistico, ma più di tutto mi sorge la domanda (a cui pleonasticamente vado subito a rispondere) se fossero tutte così “indispensabili”, tutte immancabili all’interno del carrozzone, impossibili insomma da escludere in fase di selezione che, ricordiamo, si è tenuta al cospetto di centinaia di titoli giunti all’attenzione.
No, non erano tutti brani sopra la media, ma probabilmente pensati per lo più in ottica futura, il ché va anche bene, ma non sarebbe meglio una rassegna che, senza rinunciare alla matrice “popolare” non desse spazio alle tante espressioni artistiche rappresentate in Italia negli anni?

Non si è troppo spinto l’acceleratore in direzione di una propensione radiofonica, smaccatamente commerciale dei pezzi? Per me sì, ma ripeto non sarebbe un peccato capitale se solo avessimo ascoltato trenta capolavori!
Cosa rimane invece? La sensazione di aver ascoltato canzoni abbastanza “di passaggio” nell’ambito della storia del Festival con brani piacevoli, orecchiabili, persino “ballabili” ma senza i crismi del classico. Senza che a un primo ascolto ci si potesse ritrovate a dire “wow”.

Non occorre in fondo scomodare i classici del passato per avvalorare la mia tesi, basti rapportare il livello delle canzoni in gara quest’anno a quello di “Due vite” di Marco Mengoni, che giusto dodici mesi fa ci diede già chiara la sensazione di trovarsi davanti a un brano che indiscutibilmente fosse da primo posto, quasi una “vittoria annunciata”. La sua era una canzone “forte”, da inserire di diritto tra le punte di diamante del suo percorso, e se da una parte è forse più interessante e democratico che ci siano più titoli candidabili a issarsi in cima alla graduatoria, la cosa perde valore se generalmente il livello della rassegna è mediamente più basso.

Vorrei sorvolare – ma è abbastanza impossibile farlo senza venire fraintesi – sulle polemiche sollevate alla parziale proclamazione del primo posto a Geolier, ma proprio si è trattato di un momento brutto, di una mancanza di rispetto grave nei confronti dell’artista, specie se certe illazioni sono state supportate dalla stampa stessa.
A mio avviso (come vedremo tra poco nel dettaglio) la canzone del giovane trapper napoletano non era la migliore fra le trenta in gara ma lo stesso meccanismo di giudizio (che poi lo ha visto perdere in volata, perché si sa che non esiste solo il televoto) non può andarci bene solo quando va a premiare chi vogliamo noi!

E allora tutti contenti che abbia vinto l’esordiente di lusso, Angelina Mango, figlia d’arte degna di un grandissimo artista che invero qui su questo palco non ottenne mai quei riconoscimenti che sarebbero stati meritati, gli stessi che ha avuto invece lei, la ex di “Amici” con un brano fresco, ballabile, interpretato con assoluta naturalezza e consapevolezza dei propri grandi mezzi, al di là di un genuino stupore manifestato all’annuncio del suo exploit. ll trionfo di Angelina è stato poi supportato anche da altri due riconoscimenti, il premio della sala stampa e quello per la migliore composizione musicale. Ma la sua è stata davvero la migliore canzone di questo Sanremo 2024?

Di seguito ecco un mio commento ad ogni partecipante in ordine di classifica:


ANGELINA MANGO – poco da aggiungere sulla sua vittoria, che ci sta e non fa storcere alcun naso. Angelina continua la sua imperiosa ascesa nel mondo del pop nostrano, anche se verrà ricordata (almeno da me) soprattutto per l’intensa ed emozionante rivisitazione del classico del padre “La rondine”.

GEOLIER – rappresentava la quota “giovanilistica” dell’edizione, volendo proprio generalizzare, la stessa occupata da Lazza l’anno scorso, e allo stesso modo ne eguaglia il risultato, portando se stesso al Festival. Nel suo ha fatto un figurone!

ANNALISA – partita come sempre con grandi favori dei pronostici, forte dello straordinario successo dei suoi singoli ammazzaclassifica, nemmeno stavolta alla bella Annalisa è riuscita l’impresa di vincere a Sanremo. Le sta tentando tutte: ballate classiche, moderne, brani frizzanti e spigliati, ora pure la carta del potenziale tormentone. Ecco, questa canzone si aggiungerà a quella schiera, ma non aveva a mio avviso lo spessore per vincere. Direte che la stessa cosa valeva per il brano di Angelina ma tant’è, è andata così…

GHALI – una delle rivelazioni di questo Festival è stato senz’altro lui, che arriva con un pezzo adatto al contesto, pur non snaturando la sua indole. Bel messaggio il suo mandato soprattutto nella serata delle cover, di identità nazionale che non smarrisce la propria storia.

IRAMA – il suo pezzo è cresciuto con gli ascolti, dopo una prima esibizione vocalmente incerta. Pur non raggiungendo le vette della precedente “Ovunque sarai”, prosegue felicemente su quella falsariga intimista.

MAHMOOD – libero di sperimentare senza dover dimostrare niente a nessuno dopo due Festival vinti, Mahmood porta in gara una canzone musicalmente notevole, purtroppo non coadiuvata da un testo all’altezza.

LOREDANA BERTÈ – salutata dal tripudio della sala stampa e da forti consensi popolari, Loredana si mostra in gran forma con un brano cucito apposta su di lei. Il Premio della Critica è suo ma per ambire alla vittoria finale forse serviva qualcosa di più. Io personalmente l’avevo preferita nella sua precedente partecipazione con “Cosa ti aspetti da me”.

IL VOLO – tentano la carta del pop nobile abbandonando così il canto lirico, il loro tratto peculiare. Che dire? Mi sembrava una banale canzone d’amore, innocua, ma poi mi sono trovato ad ascoltarla mentre giocavo abbracciato a mio figlio piccolo e un po’ mi sono commosso…

ALESSANDRA AMOROSO – arrivata al Festival fuori tempo massimo dopo anni di attesa, sembra un po’ superata nei gusti dei più giovani (o del pubblico in generale), eppure ha presentato una canzone più che dignitosa, ed è parsa misurata e assai rispettosa della manifestazione. Dal mio punto di vista promossa.

ALFA – ok, il suo brano come ho avuto modo di sottolineare qua e là in alcuni commenti. è una sorta di plagio mascherato ma come si fa a voler male a sto ragazzo, il cui talento pop pare comunque evidente? Il duetto con Vecchioni poi mi ha veramente emozionato!

GAZZELLE – all’esordio su questo palco a mio avviso se l’è cavata, e la posizione buona certifica come sia riuscito a convincere anche chi magari lo conosceva meno. La sua è un’onesta ballata, interpretata bene alla sua maniera.

IL TRE – altra rivelazione, per una canzone partita in sordina ma cresciuta una volta inserito il televoto. A me però non ha colpito particolarmente, mi aspettavo del rap fatto bene, invece il Nostro è andato molto sul sicuro.

DIODATO – la sua canzone era la mia preferita sin dal primo ascolto, pur ammettendo che non raggiungeva per pathos la precedente “Fai rumore”, che a Sanremo vinse nel 2020. Cosa aggiungere? Diodato è un artista ormai con uno stile personale e riconoscibile, così come la sua classe innata.

EMMA – per me è rimasta a metà del guado, con un brano pronto a esplodere, moderno, ben congegnato ma a cui mancava qualcosa, forse un ritornello incisivo. La posizione comunque dignitosa rispecchia in fondo il mio pensiero.

FIORELLA MANNOIA – a metà classifica si piazza anche lei, che mi aveva convinto già dalla prima serata. Ok, al Festival era stata più volte e sempre con soddisfazione; qui ha tentato una carta vagamente etnica, con un testo bello e col giusto grado di “impegno”, che meritatamente si è aggiudicato il relativo premio.

THE KOLORS – pezzo senza infamia e senza lode, una replica meno riuscita di “Italo Disco” con in più qualche rimando alla vecchia “Salirò” di Daniele Silvestri, come fosse però più che altro un omaggio velato. Si sono divertiti, hanno fatto ballare, credo non avessero velleità di vittoria.

MR. RAIN – è stato coraggioso, o forse avventato a seconda dei punti di vista, a tornare al Festival a un solo anno di distanza dopo oltretutto un grande exploit come “Supereroi”. Non demerita ma neppure stupisce con un brano molto simile a quello per stile ma anche meno impattante.

SANTI FRANCESI – hanno sorpreso in positivo il pubblico generalista che forse non li conosceva bene ma era piuttosto risaputa in loro una certa classe formale e interpretativa. Possono avere un buon futuro, non mi spiacerebbe però sentire un po’ di mordente in più.

NEGRAMARO – posso dirlo? Il vero flop dell’edizione sono stati i Negramaro, altro che nel lontano 2005, quando furono clamorosamente eliminati fra le “Nuove proposte”. Là si trattò di un abbaglio generale a fronte di un pezzo meraviglioso come “Mentre tutto scorre”, qui invece il tutto sa di occasione mancata. Premesso che a me la canzone è piaciuta, ma ha pagato non solo una melodia non propriamente orecchiabile e facile, ma anche un cantato un po’ sofferente, e la cosa stride se pensiamo alle innegabili qualità vocali di Giuliano Sangiorgi.

DARGEN D’AMICO – per me il caso di Dargen D’Amico al Festival rappresenta una contraddizione, perché se è indubbio che il suo intento e i suoi interventi extramusicali siano oltremodo lodevoli, mi mette un po’ a disagio poi trovarmi a cantare e ballare allegramente frasi come “sta arrivando, sta arrivando l’onda alta”… insomma, è un tema importante e così invece mi pare venga, non dico banalizzato ma quanto meno frainteso, ecco. Invece il suo messaggio necessitava di arrivare a tutti con la stessa forza e dirompenza, senza equivoci di sorta.

RICCHI E POVERI – mi stanno simpatici e mi ricordano i vecchi Festival vissuti assieme alla mia carissima nonna Gisella, ma già nel ’85 avrei preferito la vittoria del giovanissimo Luis Miguel al posto loro. Scherzi a parte, non è riuscita per me l’operazione ripescaggio, la canzone la trovo davvero vacua, nonostante avesse un bel significato di fondo.

BIG MAMA – non mi ha entusiasmato particolarmente, anche qui una produzione danzereccia ha macchiato quello che poteva diventare un brano “profondo”; peccato perché da come ne avevo sentito parlare mi aspettavo qualcosa di più viscerale e passionale.

ROSE VILLAIN – a mio avviso la posizione è addirittura troppo alta. La bella Rose Villain non incanta con la sua canzone, che inizia in un modo per sfociare in un ritornello ritmato utile per TikTok et similia ma del tutto inadeguato per un palco così. Anche il duetto con la Nannini non ha aiutato a farle guadagnare punti in classifica, vista la precaria esecuzione al cospetto di una gigante della nostra musica.

CLARA – a mio avviso non ha demeritato, si tratta pur sempre di un’esordiente, che però rischia di perdersi nel marasma di proposte similari e poco personali. Probabilmente le andrà meglio con la carriera di attrice dove pare lanciatissima grazie al successo di “Mare fuori”, ma una chance nella musica merita di giocarsela.

RENGA NEK – non avevo grosse aspettative su questi nomi forti della mia generazione, però mi chiedo che senso abbia accumulare partecipazioni sanremesi tanto per? Come duo stanno ottenendo nuovi consensi, hanno rivitalizzato un po’ la loro già gloriosa carriera ma allora perché non provare a portare un brano da lasciare a bocca aperta, anziché una onesta ballata sull’amore “adulto” che si fa ascoltare ma senza mai sfociare in una direzione precisa? Spiace ammetterlo ma il verdetto così severo in fase di classifica mi trova tutto sommato d’accordo.

MANINNI – non mi ha sorpreso, nel senso che conoscevo la sua capacità melodica e il suo buon gusto pop. La ballata è un po’ all’acqua di rose ma comunque carina e dal bel ritornello. Meritava una posizione più alta.

LA SAD – Che vi devo dire? A me non urtano le loro creste o i loro piercing (ci mancherebbe, ai miei tempi imperversavano i Prodigy e Marylin Manson che a loro volta a quelli più vecchi di me facevano ancora meno paura), e la canzone ascoltata in radio è pure passabile (si sente la mano di Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari nel testo) ma sto atteggiamento ribelle, le urla, la finta tragressione proprio sì, questi aspetti li trovo ridicoli. Alla fine come accadde anni fa con il caso di Junior Cally, tanto rumore per nulla!

BNKR44 – i più innocui però sono loro, sei ragazzini spacciati addirittura per boy-band e che portano in scena una canzone così leggera da passare del tutto inosservata. Era necessario a mio avviso per loro un altro step, la famosa categoria delle “Nuove Proposte” purtroppo abolita in questa gestione ma hanno ovviamente tutto il tempo davanti per costruirsi una carriera.

SANGIOVANNI – che delusione il buon Sangiovanni... capisco il voler evolversi e mostrare un lato più maturo ma la sua canzone, che magari necessita di più ascolti, è apparsa da subito deboluccia, quasi impalpabile. Magari in canna ha qualche hit pronta per l’estate, e a questo punto glielo auguro perché altrimenti rischia l’anonimato. Ha dimostrato delle capacità ma per restare nel tempo bisogna quanto meno rimanere allineati con proprio pubblico, sperando di conquistarne un altro. L’intento credo fosse quello ma serviva allora un pezzo migliore, più a fuoco.

FRED DE PALMA – il re del reggaeton italiano tenta la carta della “serietà” con una canzone poco nelle sue corde e che non arriva a scuotere gli ascoltatori. Troppo “Lazza” per sembrare autentico. Meglio torni a fare il suo, visto che di successi ne aveva messi in fila parecchi.

Si chiude così il “regno” di Amadeus come deus ex machina del Festival di Sanremo, un quinquennio incredibilmente positivo in quanto a riscontri oggettivi – audience e i tanti successi partiti da qui – ma che proprio in occasione della sua ultima volta ha iniziato a mostrare segni di stanchezza, tanto che quella appena conclusa mi è sembrata l’edizione meno interessante dal punto di vista musicale, e pertanto a mio avviso meno riuscita. Certo è che il suo successore si troverà a raccogliere un’eredità pesantissima ma è arrivato il tempo di cambiare nuovamente la faccia di questa manifestazione storica e importante che ogni anno tiene incollato milioni di telespettatori animando infinite discussioni.

Viva Sanremo!

Festival di Sanremo 2024 – un commento al primo ascolto dei trenta (!) brani in gara

E’ stata una vera maratona quella di ieri sera in occasione della prima serata del Festival di Sanremo, l’ultimo targato Amadeus.
Un’edizione che a un primo ascolto ci consegna alcune canzoni dal livello generalmente medio-alto ma che, in quanto formata da ben trenta titoli, risente inevitabilmente anche di qualche calo qualitativo, con degli episodi davvero poco ispirati e che fanno gridare vendetta conoscendo alcuni nomi “scartati”. Specie nella seconda parte il livello sembra essersi abbassato, e lo dico non solo perché ci si stava inoltrando nelle ore tarde della notte.

È indubbio come la componente di orecchiabilita e modernità sia stata pressoché sempre presente in tutti gli anni del regno di Ama ma a mio avviso stavolta si è un po’ esagerato spingendo su sonorità up-tempo e pseudo-dance, inducendo magari in maniera inconsapevole gli artisti a uniformarsi troppo a certi stilemi.

In pratica i brani sono tutti assimilabili con facilità e ciò fa pensare che avranno una buona diffusione radiofonica.
Detto ciò qualcuno di questi crescerà con gli ascolti, altri molto probabilmente verranno a noia presto ma rimango della mia idea e in generale quindi sento di dire che da una parte è giusto che il Festival voglia stare al passo coi tempi e rinnovarsi, ma nel farlo dovrebbe mantenere la propria identità… ieri sembrava davvero di vedere (e soprattutto sentire) una puntata del Festivalbar!

Dopo questa premessa, ecco di seguito i miei commenti a ogni singola canzone in gara dopo il primo ascolto:

CLARA –  ottima presenza scenica, ha cantato con la giusta sicurezza, pur essendo quasi un’esordiente assoluta. Il pezzo è moderno e dal  ritornello efficace, mettiamoci poi che sto guardando l’ultima serie di “Mare fuori” e, insomma, io la promuovo.

FIORELLA MANNOIA –  pezzo di matrice etnica, sullo stile di Mannarino, che Fiorella interpreta magnificamente. Arrangiamento sublime.

LA SAD – no, non è per partito preso o per pregiudizio ma la loro presenza è inspiegabile, e non basta il bravo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari a confezionare un brano che, se nelle intenzioni dovrebbe rappresentarli, in realtà finisce per farli sembrare una parodia dei Dari.

GHALI – il pezzo funziona, lui sembra divertirsi e il testo è interessante. Uno dei casi a cui accennavo dove il pezzo pare più adatto al Festivalbar che non al Festival di Sanremo.

IRAMA – forse non bisserà il successo della recente “Ovunque sarai” ma la matrice e’ quella, un pop d’autore interpretato con intensità.

NEGRAMARO – erano invero attesissimi e al netto di alcune imperfezioni vocali (sembra assurdo ma è così) del leader Giuliano Sangiorgi e di un arrangiamento a tratti sfarzoso alla Coldplay, la canzone risulta di gran spessore, candidata alla vittoria.

DIODATO – la classe fatta persona, una ballata degna delle sue migliori canzoni. Quello che mi è piaciuto di più.

MAHMOOD – al terzo Festival dopo due vittorie consecutive può permettersi di portare un pezzo ancora meno sanremese rispetto a “Soldi” e “Brividi”: il tutto risulta ottimamente prodotto e al solito cantato divinamente, lascia a desiderare però per alcune espressioni verbali.

ALESSANDRA AMOROSO – l’altra grande attesa del Festival assieme ai Negramaro, non delude le aspettative portando una canzone nelle sue corde. Non rischia sostanzialmente nulla ma di contro non raggiunge gli standard dei suoi successi passati.

ANNALISA – ogni anno parte favorita ma le manca sempre il pezzo per sbaragliare la concorrenza. Il brano è sullo stile dei suoi successi-tormentoni ma senza le stimmate per vincere.

ANGELINA MANGO – un brano molto rappresentativo della sua giovane carriera, un mix tra il suo stile è quello più sperimentale di Madame che con lei lo firma.

LOREDANA BERTÈ – il pezzo è cucito ad hoc su di lei ma manca di quel guizzo, di quell’energia che caratterizzava la precedente “Cosa ti aspetti da me”, più convincente e, a conti fatti, maggiormente nelle sue corde.

GEOLIER – probabilmente non bisserà il risultato di Lazza, del quale appare come degno erede al Festival ma la sua canzonr rimane impressa e, al netto di polemiche sterili sull’utilizzo scorretto dei dialetti, certamente raccoglierà grandi consensi tra i più giovani.

THE KOLORS – posso comprendere il voler replicare i fasti della loro hit “Italo Disco”, che in pratica li ha rilanciati ma per il palco di Sanremo si poteva cambiare registro puntando un po’ di più sulla sostanza. Ballabile, piacevole ma mi aspettavo di meglio.

SANGIOVANNI – si è percepito che il brano sia particolarmente sentito dal suo autore e probabilmente autobiografico ma rimane nel limbo, senza decollare.

IL VOLO – sin troppo classici e, paradossalmente, rinunciando quasi del tutto alla parte lirica lo sono ancora più che in passato. Non credo lasceranno il segno pur ritenendoli comunque sopra la media in quanto a tecnica e classe.

BIG MAMA – all’esordio in gara porta un brano potente e convincente nelle liriche ma comunque commestibile per le masse, finendo forse per snaturarsi.

RICCHI E POVERI – capisco l’effetto nostalgia ma davvero Amadeus ha ascoltato 200 pezzi peggio di questa? E lo dico con tutto il rispetto possibile per un’istituzione della musica italiana quali sono i Ricchi e Poveri… (a questo punto capisco l’ostinazione dei Jalisse nel voler riprovarci ogni anno).

EMMA – brano che non mi pare molto adatto a lei, che apprezzo in particolare per la grinta e l’intensità interpretativa: qui invece tutto rimane un po’ piatto senza che si imprima una svolta che pensavo arrivasse almeno in fase di ritornello.

RENGA NEK – i due figaccioni del pop italiano non sbracano tornando a livelli consoni al Festival dopo qualche caduta a vuoto. La canzone non è male ma nemmeno memorabile, credo rimarranno a metà del guado in fase di posizione finale.

MR. RAIN – difficile per lui riconfermarsi dopo l’exploit della scorsa edizione ma tutto sommato non sfigura portando un brano che ne certifica la sensibilità musicale e la nomea di rapper “buono”.

BNKR44 – mi hanno fatto un po’ tenerezza: la loro partecipazione certifica che uno dei pochi errori di Amadeus in questi anni sia stato quello di eliminare la categoria delle Nuove Proposte. I ragazzi portano una canzoncina senza infamia e senza lode, davvero non avevano niente di meglio in repertorio?

GAZZELLE – ammetto di apprezzarlo, lo considero tra i più bravi della sua generazione. Non ha rischiato molto e penso sia giusto così, in fondo pur famosissimo nel mondo indie non è conosciuto al grande pubblico sanremese. La sua è una ballata pop-rock che cresce pian piano fino al bel ritornello. Peccato per l’esecuzione vocale non immune da sbavature ma chi lo conosce sa che questa è un po’ una sua peculiarità, quasi una cifra stilistica.

DARGEN D’AMICO – mi è parso essere lì più che altro per riconoscenza. A questo punto reciproca tra lui e Amadeus ma mi era bastata “Dove si balla”, di pezzi pacchiani ne faccio a meno.

ROSE VILLAIN – un po’ come successo a Mara Sattei lo scorso anno, era attesa dopo l’exploit estivo e un altro bel singolo ma Sanremo è un’altra cosa. Bella vocalità, bella presenza ma la canzone non trasmette granché.

SANTI FRANCESI – raffinati ed eleganti, e questo lo si sapeva, fanno la loro bella figura, resta da capire che posticino potranno occupare nel panorama musicale italiano, visto che non sembrano ne’ troppo mainstream ne’ troppo alternativi.

FRED DE PALMA – a questo punto era meglio se portava un pezzo reggaeton, per quanto non digerisca molto il genere ma almeno lì era riconoscibile, con un proprio status; invece ha portato un pezzo sicuramente orecchiabile e vibrante ma forse più nelle corde di un Lazza. Insomma, fa il suo e il pezzo lo porta a casa ma non saprei garantire sull’autenticità.

MANINNI – risarcito dalla mancata qualificazione dell’anno scorso tra i Big porta una piacevole canzone pop, non molto innovativa a livello di sound ma che proprio per questo in fondo si fa distinguere tra i tanti brani di stampo dance sentiti in precedenza.

ALFA – il ragazzo mi è simpatico e ha una faccia pulita ma forse sarebbe stato più in linea vederlo a The Voice Junior. Battute a parte la canzone pur connotata da un’aura pop risulta sin troppo confusionaria e leggera, nonostante gli riconosca una certa originalità.

IL TRE – altro esponente della galassia rap/trap convertito anzitempo a sonorità vicine alla disco, porta un brano piuttosto debole e scarsamente ispirato a livello di testo. Papabile ultimo nella graduatoria finale.

Alla fine della prima tornata di voti i giornalisti in Sala Stampa premiano Loredana Bertè, seguita da Angelina Mango, Annalisa, Diodato e Mahmood ma il tutto ovviamente è molto parziale e immagino che tante posizioni siano in realtà separate da pochi punti.

Dopo un primo ascolto quindi le mie canzoni preferite sono quelle di Diodato, Fiorella Mannoia e Negramaro, seguiti da Gazzelle, Mahmood e Irama, mentre il pronostico per la vittoria finale va ad Angelina Mango, che però potrebbe essere insediata da Annalisa o da una Alessandra Amoroso, che percepisco come poco accreditata ma che potrebbe risultare una pericolosa outsider. Insomma, credo proprio che il 2024 vedrà premiata un’esponente femminile dopo un po’ di tempo e la cosa onestamente mi farebbe molto piacere, visto che in questi anni stanno emergendo diverse cantanti talentuose.

Top 20 Album Italiani del 2023

Sono stati molti i dischi italiani che mi sono piaciuti in questo 2023 che sta volgendo al termine.
In questo articolo passo in rassegna i primi dieci, corredandoli di un breve commento, continuando poi la graduatoria fino alle ventesima posizione; in aggiunta inoltre mi andava di segnalare altri dieci titoli che quest’anno ho ascoltato e apprezzato.

1 UMBERTO MARIA GIARDINI – Mondo e antimondo

Sul finire dell’anno giunge il nuovo album di Umberto Maria Giardini a sbaragliare la concorrenza. Un ritorno davvero importante il suo, in “Mondo e antimondo” sono presenti dieci episodi uno più splendente dell’altro.

2 DANIELA PES – Spira

La rivelazione del 2023 conquista tutti con il suo sound evocativo, misterioso, sfuggente, estremamente affascinante.

3 PAOLO SAPORITI – La mia falsa identità


Paolo Saporiti si fa portavoce di una canzone d’autore contaminata in questo nuovo lavoro, in due capitoli, che sorprende per la profondità e la ricchezza di suggestioni musicali.

4 THE NIRO – Un mondo perfetto

Davide Combusti (alias The Niro) si conferma artista di razza con “Un mondo perfetto”, che ne certifica appieno la sensibilità e la classe superiore.

5 SADE MANGIARACINA – Prayers

La pianista e compositrice siciliana si supera in questi due volumi, emergendo come nome di punta del jazz a livello internazionale.

6 GIOVANNI TRUPPI – Infinite possibilità per esseri finiti

Giovanni Truppi, dopo la ribalta sanremese, torna a proporre un disco dove traspare tutta la sua grandezza di autore, in grado di mescolare agevolmente lirismo, ironia e sentimenti. Una penna unica nel suo genere.

7 ARTISTI VARI – Nella notte ci guidano le stelle. Canti per la Resistenza

Una raccolta imperdibile di canzoni tutte assai significative. Giù il cappello e mano sul cuore!

8 ELISA RIDOLFI – Curami l’anima

Elisa Ridolfi, dopo aver molto contribuito a far conoscere il fado dalle nostre parti, mette in fila una serie di brani dove anima e corpo vanno a braccetto, coinvolgendo l’ascoltatore dall’inizio alla fine del viaggio.

9 GRAND DRIFTER – Paradise Window

Il cantautore piemontese Andrea Calvo continua a fare centro con la sua proposta gentile, soave, pop nel senso più nobile del termine.

10 ROPES OF SAND – Tonight

Un gruppo italiano (di Varese) che non sfigurerebbe al cospetto di artisti acclamati. I Ropes of Sand, con il disco “Tonight”, colpiscono il nostro immaginario grazie alla bellezza di trame musicali intessute in un’atmosfera magica e notturna.

11 C’MON TIGRE – Habitat
12 GIANCARLO FRIGIERI – Qualcuno si farà del male
13 ARTISTI VARI – Un sentito omaggio a Rodolfo Santandrea
14 ELLEN RIVER – Life
15 PEPPE VOLTARELLI – La grande corsa verso Lupionòpolis
16 BONO/BURATTINI – Suono in un tempo trasfigurato
17 BAUSTELLE – Elvis
18 ANDREA SATTA – Niente di nuovo tranne te
19 ROSSELLA SENO – La figlia di Dio
20 MARTA DEL GRANDI – Selva

ALTRI DIECI ALBUM MOLTO BELLI USCITI NEL 2023

AGUIRRE – Belle Epoque
CALCUTTA – Relax
COLAPESCE DIMARTINO – Lux Eterna Beach
EMMA TRICCA – Aspirin Sun
GABRIELE PRIOLO – L’amore giallo
KARMA – K3
LUCIO CORSI – La gente che sogna
MICHELE MINGRONE – La grande notte
NON VOGLIO CHE CLARA – MacKaye
PASE – Mondonovo


Dischi italiani da (ri)scoprire: “Prayers” – Sade Mangiaracina

Poco più di un anno fa, su queste pagine decantavo le lodi di un’artista di cui mi ero innamorato al primo ascolto, una giovane jazzista siciliana in grado con la sua musica di proiettarmi in mondi lontani, facendo pulsare le emozioni con il candore e la raffinata bellezza della sua musica, di matrice jazz ma aperta alle contaminazioni.

Da allora non l’ho più persa di vista, attendendo quindi con una certa trepidazione un suo nuovo lavoro discografico. Sade Mangiaracina con il suo nuovo album “Prayers” (sempre uscito per Tuk Music, l’etichetta di Paolo Fresu) non mi ha deluso affatto, anzi, ha confermato ulteriormente le mie sensazioni, non ricalcando tra l’altro pedissequamente le felici intuizioni dei suoi progetti precedenti ma facendo se vogliamo un ulteriore passo in avanti.

Sono due i volumi che la pianista ha realizzato per “Prayers”, il primo con i rodati (e fidati) Marco Bardoscia (contrabbasso) e Gianluca Brugnano (batteria) già con lei in trio per l’eccellente “Madiba”; il secondo invece con Luca Aquino alla tromba e Salvatore Maltana al contrabbasso, ma è evidente che ci sia un fil rouge che unisce il tutto, un concept che, da titolo, richiama un ché di spirituale, fortemente evocativo.

Musica classica, jazz, e, perché no?, attitudine talvolta pop si fondono meravigliosamente in brani romantici come “Dreamers”, toccanti come “Jerusalem” dal forte respiro etnico, la notturna e avvolgente “Abbà”, o la soave “My Prayer” con i suoi suggestivi archi (in entrambi i volumi suonati dal Quartetto Alborada).

Nell’altro volume il tasso qualitativo rimane elevatissimo, in una “Il Dio delle piccole cose” dai toni vagamente retrò, una “Carnera” che assume i contorni di un dialogo solenne tra una seducente tromba e un sommesso ma consapevole pianoforte, e come non citare di contro la vivace e multiforme “Ho’Oponopono” (una preghiera laica delle Hawaii) e la dolce, sofisticata “Cristiano”, dal nome di suo figlio, che giunge finanche a commuoverci in chiusura?

Giù il cappello veramente davanti a questa giovane artista, che con la sua musica sa arrivare dritta al cuore, rendendo accessibile a tutti una materia talvolta percepita come ostica quale il jazz.

Con ciò non intendo dire che non ci sia del lavoro certosino dietro, anzi, la competenza, lo studio e l’esperienza della Mangiaracina si sentono ad ogni nota, ma in lei non si avverte mai l’idea di voler essere elitaria o sfuggente, tutt’altro, e anche questo credo sia un merito che le va riconosciuto, poiché è una qualità che possiedono i più grandi.

Dischi italiani da (ri)scoprire: “Lost in the Inbetween” e… altro ancora – Flavio Ferri

Ho notato che negli ultimi anni, in alcuni dei lavori che più mi hanno colpito e più hanno saputo emozionarmi e coinvolgermi, finanche a scuotermi a livello interiore, c’è la firma o lo zampino di Flavio Ferri.
Che sia in veste di produttore, di talent-scout, di arrangiatore, di creatore di suoni e atmosfere, di factotum musicale o… cantautore, la sua mano, il suo cuore lo senti, lo percepisci, lo riconosci.

E in mezzo a tutti questi progetti, che denotano un animo perennemente in fermento, attivo, “sul pezzo”, desideroso di mettersi sempre in gioco e di non rifare mai la stessa cosa, prima di tutto trovi sempre una grande, inestimabile passione a guidarlo, il gusto della scoperta, la conferma della curiosità.

In fondo, se ci pensate, sin dalla fortunata e prestigiosa esperienza con i Delta V, dove tra i primi in Italia seppe ben commistionare musica pop ed elettronica, Ferri non ha mai dimostrato di essere banale, di accontentarsi, o di ripetersi, inseguendo sempre e solo la sua indole, la sua “fame” di musica, di sperimentazioni.

In questo 2023 sono stati più di uno i progetti che lo hanno visto protagonista a farmi drizzare le antenne: l’album “Alfabetiere Majakovskij!” in coppia con Arlo Bigazzi, facente capo a un più ampio lavoro dedicato al grande futurista russo, per un’opera cupa, notturna, industriale; la suite – eterea e ombrosa allo stesso tempo – realizzata a quattro mani con Ulrich Sandner (“Superficial Acts of Metaphysical Rebellion, Vol.1”); il poderoso singolo uscito a suo nome “Lost in the Inbetween”, che si dipana per ventinove minuti sintetizzando una vasta gamma di emozioni in una dimostrazione di copiosa libertà creativa e sperimentatrice; e infine l’ep di tre pezzi a nome Jean Paul Agambi Quartet, pubblicato addirittura dalla label di Tricky, e non a caso visto che al suo interno Ferri riesce a far confluire convivere elementi jazz, fusion, trip hop e hip hop vecchia scuola per un irresistibile centrifugato sonoro.

Un talento immenso quello di Flavio Ferri che, possiamo dirlo senza che si offenda, sta vivendo davvero una seconda giovinezza artistica, risultando forse ancora più affascinante che in passato.

Dischi italiani da (ri)scoprire: “Le conseguenze della notte” – Brando Madonia

Ebbi modo qualche anno fa di intervistare su questo blog Brando Madonia, all’epoca alle prese con i primi passi in veste solista dopo l’esperienza avuta alla guida dei Bidiel, gruppo pop-rock catanese che in carriera vanta una partecipazione (ormai lontana, era il 2012) al Festival di Sanremo in gara tra le “Nuove Proposte”.

Il giovane cantautore già in quella chiacchierata telefonica non nascondeva certo l’entusiasmo e l’attesa per questa sua nuova fase artistica ed era desideroso di misurarsi in un campo (quello musicale ovviamente) in cui il padre Luca Madonia, protagonista con i Denovo di una felice epopea del rock italiano a partire dagli anni 80, gode di un ottimo credito, essendo considerato tutt’oggi un nome importante della scena nostrana.

Brando, pur non possedendo magari quella raffinatezza e la classe insita nella poetica e nell’interpretazione dell’illustre genitore, ha dimostrato in realtà sin dalle sue primissime composizioni come solista di poter dire la sua, non temendo per forza un confronto diretto, spauracchio che investe praticamente tutti i “figli d’arte”. Anzi tra i due c’è uno splendido rapporto, non solo familiare ed affettivo ma anche dal punto di vista professionale.

Madonia jr a livello narrativo sembra mirare più al sodo, con liriche dirette e precise, dove non si fa molto utilizzo di immagini, metafore e non-detti, ma ciò non va a discapito mai di una ricerca sull’utilizzo delle parole e dei suoi significati che fanno evitare che le canzoni ci giungano come banali.

In fondo sin dal titolo, l’album “Le conseguenze della notte” a ben pensarci suona molto evocativo, quasi cinematografico se mi si concede il termine. E ogni aspetto del disco brilla per la cura con cui è stato realizzato e condiviso, con un buon lavoro di produzione alle spalle a far sì che le canzoni arrivino proprio bene alle nostre orecchie.

Il rischio all’opposto e’ che il tutto suonasse un po’ artefatto, risultando patinato, ma a fugare i dubbi ci pensano la sincerità e la genuinità che traspaiono dal cantato dell’autore, che in questi dieci brani pare aver riversato tutto se stesso, mettendosi a nudo talora in maniera disarmante, come nella convincente opener “Le Particelle Elementari” o in altri momenti cruciali del disco, vedasi la romantica “Ad occhi chiusi” (in duetto con Ester Pantano), la nostalgica “Chilometri”, tra le più orecchiabili, e “La persona più forte del mondo” dai toni dolci-amari.

Insomma, quello di Brando Madonia è senz’altro un buon debutto, che denota già una personalità piuttosto definita e soprattutto lascia intravedere quelle potenzialità che potrebbero farlo emergere tra i cantautori più interessanti della sua generazione, in grado di far avvicinare con risultati soddisfacenti il pop alla canzone d’autore.

Una prima testimonianza di queste qualità la si è riscontrata con l’approdo dell’album tra i cinque finalisti (nella categoria “Miglior Opera prima”) in un’importante rassegna come quella delle Targhe Tenco, che poi si è aggiudicata la talentuosa Daniela Pes. Direi non male come inizio di carriera.

Dischi italiani da (ri)scoprire: “Un mondo perfetto” – The Niro

Ammetto che mi procura un po’ di amarezza dover inserire tra i dischi italiani da riscoprire (quando non proprio da scoprire) quello di un artista straordinario come Davide Combusti, noto come The Niro, perché penso che all’estero un talento come il suo non sarebbe passato inosservato.

Intendiamoci, le sue soddisfazioni le ha raccolte anche qui, il suo talento soprattutto vocale è (almeno credo) universalmente riconosciuto, eppure per molti che magari lo avevano conosciuto solo tra le Nuove Proposte del Festival di Sanremo nell’ormai lontano 2014 (ignorando che prima di allora avesse già realizzato dei pezzi bomba in lingua inglese), lui era (è) semplicemente scomparso.

Questo perché se non sei dentro certi giri sembra che implicitamente tu non esista, se non per quegli appassionati – che per fortuna (r)esistono – i quali vivono ancora la musica in profondità e seguono anche chi sta lontano dai grandi palcoscenici, perché in effetti qualità non fa sempre rima con quantità.

Il ritorno di The Niro con un disco in lingua italiana in effetti manca dal 2014, quando diede alle stampe l’interessante “1969”, dal titolo del suggestivo brano portato in gara sul palco dell’Ariston; nel mezzo però il nostro non era certo stato con le mani in mano, facendo esperienze nel cinema, lavorando a colonne sonore e realizzando soprattutto un lavoro magnifico a quattro mani con Gary Lucas.
Già, proprio colui che scrisse con l’indimenticato Jeff Buckley capolavori come “Grace” e “Mojo Pin”.

Il chitarrista, autore e produttore statunitense aveva nel cassetto un autentico scrigno dei tesori, tutta una serie di brani, alcuni dei quali mai nemmeno registrati in studio, scritti con Buckley, ma non aveva trovato il modo, l’appiglio, l’ispirazione, per darli alla luce.

La scintilla è scattata dopo la conoscenza con l’artista romano che, tra l’altro, sin dai suoi esordi (con brani intensi e raffinati come “Liar” o “So Different”) era sempre stato accostato al grande Jeff.

Il risultato fu ampiamente soddisfacente, oltre che giustamente riconosciuto dalla critica: “The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook” (pubblicato dalla label Esordisco, prodotto dallo stesso The Niro con Francesco Arpino) è infatti un disco che coglie appieno lo spirito di quel connubio che seppe diventare magico tra Buckley e Lucas, senza però scimmiottare nessuno, o cercare paragoni quantomeno ingombranti.

Un omaggio rispettoso, che Combusti ha fatto suo, mettendoci anima, cuore e perizia, e che a mio avviso ha rappresentato anche una chiusura del cerchio di un primo percorso.
L’album, a un passo dall’aggiudicarsi nel 2020 una Targa Tenco nella categoria “Interpreti” – giunto secondo solo a Tosca – ha rimesso in luce qualora ce ne fosse bisogno l’autentico valore di The Niro, sia come cantante che come artista versatile ed eclettico, capace di mettersi al servizio di un progetto di elevata caratura.

“Un mondo perfetto” arriva a ribadire il suo valore, essendo un’opera che denota grande spessore in ogni sua traccia, dalla title-track posta in apertura, alla successiva “Cara” – calda e avvolgente -; dalla ritmata e solare “I Just Wanna Dance” alla malinconica, rarefatta “Replay”, fino a sfociare nella lunare “Certi amori” che racchiude in se’ a mio avviso il significato profondo del disco.

Sono canzoni intime, delicate, dove il mondo personale dell’autore viene scandagliato e filtrato mediante la poesia e l’introspezione.

“Un mondo perfetto” è forse ad oggi il capitolo più riuscito del Nostro, perché appare maturo, consapevole della propria forza e della propria fragilità, componenti che qui viaggiano sovente a braccetto.

E’ un lavoro che abbaglia con la sua struggente bellezza, fino ad assumere valenze quasi terapeutiche, in quanto dopo l’ascolto ci si sente bene, confortati, rassicurati. E questo è un ulteriore grande merito da attribuire a questo cantautore a mio avviso sottovalutato.

La realtà dei fatti è che nel suo percorso discografico The Niro non ha mai sbagliato un colpo, riuscendo sempre ad emozionare e coinvolgere con il suo canto e le sue armoniose composizioni.

Dischi italiani da (ri)scoprire: “Via Giardini” – Chiara Effe

Attendevo da un po’ di tempo un album nuovo di Chiara Effe, artista cagliaritana da tempo ormai di stanza a Torino, che ebbi modo di intervistare qualche anno fa per la rivista Vinile (dove collaboro) all’indomani della vittoria del “Premio dei Premi”, conferitole al Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza. Fu quello un giusto e meritato riconoscimento alla sua musica e alla sua esperienza.

Un disco mancava da tempo, se consideriamo che il validissimo “Via Aquilone” risaliva al 2015, ma in tutto questo periodo Chiara è stata impegnatissima su più fronti, dall’insegnamento al teatro, dalla didattica ai vari setting musicali che l’hanno vista protagonista da più parti, sempre denotando una sensibilità rara e una penna sopraffina che la innalzano senza ombra di dubbio tra le cantautrici più interessanti della sua generazione.

“Via Giardini” segna quindi un’altra tappa di una crescita umana e professionale e di un viaggio che ha saputo ricondurla nella sua Terra d’origine: i brani sono acquerelli leggiadri e sinuosi in cui senza bisogno di gridare emerge in tutta la sua personalità di donna e autrice ormai ben definita.

Imbracciando l’amica chitarra, Chiara Effe racconta di se’ ma lo fa parlando a (e di) tutti noi, a partire dalla delicata “Dentro la mia voce” posta in apertura di scaletta e proseguendo via via con “La strada dei giardini”, ebbra di dolce-amara ironia, e una “Non son buono”, dai colori irresistibilmente vintage.

Sono presenti anche delle felici collaborazioni (nella struggente poesia de “La ballata del mare” con Alessio Bondì, mentre nella paradigmatica “La danza delle parole” interviene il valente Federico Sirianni) che di certo impreziosiscono l’opera ma personalmente i momenti che più hanno saputo emozionarmi giungono verso il finale – ulteriore punto di merito del disco, che per tutta la sua durata quindi mantiene alto il livello qualitativo – quando i richiami alla Sardegna diventano tangibili.

Accade dopo l’intensa ballata “Nascondimi gli occhi” (dallo splendido arrangiamento a donarle un sapore etnico), laddove in “Undici” viene evocato Gigi Riva, indimenticato Rombo di Tuono, protagonista del leggendario scudetto del Cagliari, e in “Anninnia” si fa ricorso al dialetto sardo, per una suggestiva chiusura che rimanda a un mondo arcaico ma assolutamente tuttora presente e vicino al cuore.